C O L L A N A Q U A D E R N I L E T T E R A R I
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Saggistica
Mario De Bartolomeis
SAGGI LETTERARI E STORICI
EDIZIONE O.L.F.A. 2003
F E R R A R A
Mario De Bartolomeis č nato nel 1943, ha studiato
all'Universitŕ di Bologna lingue e letterature straniere e tra queste anche
quella ungherese della quale ha nel contempo seguito per tre anni corsi estivi
di perfezionamento all'Universitŕ «Kossuth Lajos» di Debrecen. Attualmente
dirigente di una azienda commerciale, nel tempo libero dagli impegni di lavoro
egli si dedica a studi storici, linguistici e letterari pubblicando articoli su
riviste italiane e straniere. Collabora da circa tre anni alla rivista Osservatorio
Letterario - Ferrara e l'Altrove con scritti e traduzioni di poeti e scrittori ungheresi. Sue
traduzioni figurano anche sulle pagine del MEK, abbreviazione del sito
elettronico della Biblioteca Nazionale Ungherese «Széchényi» di Budapest .
Dello scrittore
Fernando Sorrentino, corrispondente argentino dell'Osservatorio
Letterario - Ferrara e l'Altrove egli ha recentemente tradotto in italiano,
sempre per la suddetta rivista ferrarese, alcuni brevi racconti e delle
interessantissime notazioni linguistiche e letterarie pubblicate nella rubrica El
trujamán contenuta all'interno del sito del Centro virtual del Instituto
Cervantes .
Qui
riportiamo tre saggi pubblicati sul sopraccitato periodico che riguardano la
letteratura e la storia ungherese.
ECHI LEOPARDIANI IN UNA POESIA DI TÓTH ÁRPÁD? *)
Il chiedersi se nello scrivere la «Elégia egy
rekettyebokorhoz» (Elegia per un
cespuglio di ginestra) sia stato Árpád Tóth influenzato da reminiscenze
leopardiane, o se piů propriamente analogie di soggetto e di stato d’animo
abbiano fatto riaffiorare alla sua memoria «La
ginestra», potrebbe a prima vista apparire del tutto arbitrario pur
suscitando motivi di riflessione.
Vediamo subito che una
volta esauriti i motivi meditativi il canto di Leopardi, facendosi vero
torrente di poesia, assume un innegabile tono da elegia e che l’intento
elegiaco č giŕ presente nel titolo della poesia di Tóth. Si nota inoltre che un particolare
accento del poeta magiaro —
«ember-utáni csend» (postumano
si-lenzio), cosě vicino ai «sovrumani silenzi» de «L’infinito» — č soltanto riconducibile al profondo pessimismo
dell’animo e del linguaggio di Leopardi. Anzi, per meglio comprendere l’estrema
affinitŕ di queste due espressioni, anche al di lŕ del puro valore semantico di
esse, giova forse sottolineare quel loro non so ché di formidabile il quale —
poiché travalica il concepibile e l’immaginabile — produce appunto un
sentimento di sgomenta paura. Va anche sottolineato che la poesia di Árpád Tóth non richiama alla mente solo nel
titolo «La ginestra» che vede
sorprendentemente nascere l’estrema illusione di una vera ed accresciuta
fratellanza fra gli uomini e che Leopardi, erigendo il fiore del deserto a
simbolo del contrasto fra l’ostilitŕ e infinita potenza della natura e la
debolezza degli uomini, ha lasciato come monito. Anche la «Elégia egy rekettyebokorhoz» suona infatti come
monito, particolarmente in quel verso in cui si avverte l’anelito della natura
al «néma ünnepély» (muta festa), al «ember-utáni csend» postumano silenzio). I due componimenti poetici rivelano anche
un’altra sorprendente similitudine. “Qui sull’arida schiena / del formidabil
monte…”, inizia “La ginestra”; e la “Elégia egy rekettyebokorhoz”: ”Elnyúlok a hegyen, hanyatt a
fűbe fekve…” (Mi sdraio sul monte, supino nell'erba). In ambedue i componimenti da un monte, quasi simbolo di
astrazione dalle umane vicende, si diparte in modo tuttavia cosě partecipe e
sofferto il giudizio dei poeti sullo stato infelice dell’uomo.
Altrettanto subito, sin dall’inizio, sono anche evidenti le inevitabili
differenziazioni. Se l’ariditŕ del monte č un elemento che rafforza la visione
pessimistica del Leopardi, il verde del monte di Árpád Tóth denota invece
un sentimento di speranza, il trasparire dell’intuizione della gioia che la
vita racchiude. Mentre, infatti “La
ginestra” che Giacomo Leopardi volle posta ultima fra i suoi canti — pur
assumendo nella poetica dell’autore una piů chiara funzione attiva — č per cosě
dire il suo testamento, la suprema sintesi di una visione cosmica del dolore,
la “Elégia egy rekettyebokorhoz”
č solo un momento essenziale della poesia di Árpád Tóth, il
concretizzarsi di una maturazione i cui segni giŕ si avvertono dal 1916, il
superamento d’un travaglio egocentrico che anche gli eventi sempre piů
sanguinosi del primo conflitto mondiale traducono in una piů partecipe e vasta
coscienza dell’umano dolore.
Un ulteriore parallelo esame dei due contenuti poetici non sortirebbe
perň altro effetto che quello di evidenziare ancor piů le diversitŕ di
concezione, di elaborazione, di stile. Si potrebbe al massimo aggiungere che la
poesia di Leopardi č una rivolta del sentimento contro il male di vivere,
mentre quella di Tóth č un’accusa contro il male che si arreca alla vita. Sono ad ogni
modo diverse le epoche e le formazioni storico−sociali e culturali che i due
poeti rispecchiano. Mentre i dolori di Árpád Tóth rivelano i tormentosi travagli del ventesimo
secolo, l’ansia romantica di Giacomo Leopardi trae origine da una formazione
neoclassica. Possiamo perciň dire, come György Király giustamente sottolineava nel 1922 in ”Független
szemle”(Rivista indipendente), che “…míg Leopardi romantikus pesszimizmusát az antik peplosz klasszikus redői alá
rejti, Tóthnál minden sor vonaglik, minden kifejezés fájdalomtól remeg…” (…mentre Leopardi cela il suo pessimismo romantico sotto le
pieghe classiche del peplo antico, in Tóth palpita ogni verso,
ogni espressione č un fremito di dolore…). Ciň che perň in modo forse fondamentale
differenzia i due poeti va visto nel diverso breve svolgersi delle loro
esistenze. Mentre infatti Tóth reagisce al suo stato facendosi attento ed
aperto al nuovo ed alla politica mediante la quale si promuove la storia,
Leopardi — pur se l’intima nobiltŕ del suo spirito, compressa in fondo a lui
dal male che lo gravava, anelava a dispiegarsi generosa e benefica — ne resta
distaccato e lontano portandosi invece, come č dato cogliere in molte sue
prose, su posizioni retrive e reazionarie ed irridendo il progresso e le
conquiste dello spirito umano, il liberalismo ed i tentativi di riforme ed ogni
cosa che fosse indizio di vitalitŕ.
Non resta dunque che chiarire se le analogie di soggetto e di accenti
sopra menzionate siano o meno del tutto occasionali.
Nella primavera del 1836, quando a Napoli infieriva il colera, Leopardi
andň a soggiornare alle pendici del Vesuvio dove, come dice Ranieri, “ebbe
forza e quiete di comporre sia Il
tramonto della luna e La ginestra,
che sono le bellissime fra le sue belle cose, sia i Paralipomeni…” 1)
La tubercolosi di cui Árpád Tóth era affetto lo costringeva a lunghi soggiorni
in luoghi montani. Fu cosě che nel 1917, non potendo andare nella svizzera
Davos per via delle difficoltŕ frapposte dalla guerra, aveva proposto ed
ottenuto dallo specialista che lo curava, il dottor Lipscher, di recarsi nel
sud della regione di Spiš (Délszepesség), oggi in territorio slovacco. ”Svedlér egy kis eldugott falu,
őrült magányban fogok ott élni az öreg hegyek közt…” (Svedlér č un piccolo
borgo appartato, vivrň colŕ in insensata solitudine fra le vecchie montagne…) scriveva il 12 gennaio di quell’anno da Debrecen, prima della
partenza, al barone Hatvany.2) Il 4 settembre dello stesso anno,
inviando al suddetto barone il manoscritto della “Elégia egy rekettyebokorhoz” concepita a Svedlér fra il 29 ed il 31 agosto, cosě scriveva da Debrecen
ove era tornato per alcuni giorni in occasione dell’improvviso decesso della
suocera: “Mostanában remélem, produktívabb időim lesznek, mint a nyáron át,
mikor nem tudtam magam felrázni a boldog lustaságból, s mikor Nagy Zoltán
barátunk egy honapos vizitje csak arra volt jó, hogy végigbotanizáltuk együtt a
szepességi flórát “ (Ora spero d’avere momenti piů fecondi di quelli avuti in
estate, allorché non sono riuscito a scuotermi da una felice pigrizia, ed
allorché la visita d’un mese del nostro amico Zoltán Nagy č servita
solo a farci assieme studiare a fondo la flora dello Szepesség). 3)
Come dunque si vede, anche per Tóth esistevano i presupposti per l’incontro
poetico con la montagna e con la ginestra. Sino a che punto sia perň lecito
supporre assoluta originalitŕ, sin quando ci si debba stupire di come poeti
tanto lontani per epoche ed esperienze trovino univocitŕ di accenti e di
soggetti d’ispirazione č forse l’epistolario dello stesso poeta magiaro a
darcene misura.
Grazie alla lettera scritta dalla localitŕ di Svedlér il primo giugno
1917 apprendiamo della richiesta che Árpád Tóth fa all’amico Pál Bródy, regista del
Vígszínház (teatro comico), di un dizionario italiano−tedesco e di qualche
buon libro italiano, piů precisamente di Carducci e di Leopardi per la poesia e
di D’Annunzio per la prosa.4) In una successiva lettera del 4 giugno
1917 indirizzata ai fratelli Pál e Andor Bródy troviamo riassunte le precedenti richieste di libri cui
qui si aggiunge anche quella di un piccolo dizionario italiano-ungherese.5)
L’annotazione a matita che a questo punto si
trova nel manoscritto autografo di Tóth denota il probabile avvenuto acquisto da perte di Pál Bródy dei libri che gli erano stati richiesti.6) Forse fu
lo stesso Pál Bródy a recapitarli quando nei giorni immediatamente successivi si
recň a Svedlér a far visita all’amico, come dimostra una lettera senza data, ma
certamente collocabile fra il 4 ed il 7 giugno 1917 che Árpád Tóth scrive a
Zsuzsa, sorella di Pál, e che reca anche la firma di quest’ultimo oltre a
quelle del poeta e sua moglie. 7)
Il poeta di Debrecen conobbe dunque le
poesie di Leopardi, anche se forse stentatamente interpretate con l’ausilio del
dizionario.
Nulla vogliamo o possiamo togliere alla grandezza ed all'originalitŕ del
genio poetico di Árpád Tóth, ma
siamo portati a ritenere — cosa che lo rende forse ancora piů grande — che
sulla vibrante lira del suo cuore lacerata dalle strette del dolore,
all’incontro con la montagna e con la ginestra, sia incontenibilmente
riaffiorato l’eco di quelle note che la lettura appena avvenuta della poesia
leopardiana doveva avere indelebilmente lasciato nella sua macerata
sensibilitŕ.
*)
Adattamento italiano di un articolo apparso in lingua magiara sulla rivista di
storia letteraria dell’Accademia delle Scienze d’Ungheria con il titolo: De
Bartolomeis Mario, Leopardi emlékek Tóth Árpád versében?, in Irodalomtörténeti közlemények, Akadémiai
Kiadó, Budapest, 1975, anno LXXIX, N.2, Pag. 197-199. cui rimandiamo
l'eventuale lettore interessato al testo ungherese.
1) Ranieri
Antonio: Sette anni di sodalizio con
Giacomo Leopardi. Napoli, 1919. Pag.48.
2)
Tóth Árpád: Összes művei. Kritikai kiadás (Opere complete. Edizione critica).
Volume 5. Budapest, 1973. Pag. 121.
3)
Tóth Árpád: Op. cit. Vol. 5. pag. 154.
4)
Tóth Árpád: Op. cit. Vol. 5. pag. 146.
5)
Tóth Árpád: Op. cit. Vol. 5. pag. 147.
6)
Tóth Árpád: Op. cit. Vol. 5. pag. 388.
7) Tóth Árpád: Op. cit. Vol. 5. pagg. 148 e 389.
ELÉGIA EGY REKETTYEBOKORHOZ
Elnyúlok a hegyen, hanyatt a fűbe fekve,
S tömött arany diszét fejem fölé lehajtja
A csónakos virágú, karcsú szelíd rekettye,
Sok, sok ringó virág, száz apró légi sajka.
S én árva óriásként nézek rájuk, s nehéz
Szívemből míg felér bús ajkamra a sóhaj,
Vihar már nékik az, váratlan sodru vész,
S megreszket az egész szelíd arany hajóraj.
Boldog, boldog hajók, vidám lengők a gazdag
Nyárvégi délután nyugalmas kék legén,
Tűrjétek kedvesen, ha sóhajjal riasztgat
A lomha óriás, hisz oly borús szegény.
Tűrjétek kedvesen, ha lelkének komor
Bányáiból a bú vihedere kereng fel,
Ti nem tudjátok azt, mily mondhatlan nyomor
Aknáit rejti egy ily árva szörny, egy — ember!
Ti ringtok csendesen, s hűs, ezüst záporok
S a sűrű napsugár forró arany verése
Gond nélkül gazdagúló mélyetikig csorog,
Méz– s illatrakománnyal teljülvén gyenge rése;
Ti súlyos, drága gyöngyként a hajnal harmatát
Gyüjtitek, s nem bolyongtok testetlen kincs után,
Sok lehetetlen vágynak keresni gyarmatát
Az öntudat nem űz, a konok kapitány.
Én is hajó vagyok, de melynek minden ízét
A kínok vasszöge szorítja össze testté,
S melyet a vad hajós őrült utakra visz szét,
Nem hagyva lágy öbölben ringatni búját restté,
Bár fájó szögeit már a létentúli lét
Titkos mágneshegyének szelíd deleje vonzza:
A néma szirteken békén omolni szét
S nem lenni zord utak hörgő és horzsolt roncsa.
És hát a többiek? … a testvér–emberek,
E hányódó, törött vagy undok, kapzsi bárkák,
Kiket komisz vitorlák vagy bús vértengerek
Rettentő sodra visz: kalózok s könnyes árvák, —
Ó, a vér s könny modern özönvizébe vetve
Mily szörnyü sors a sok szegény emberhajóé:
Tán mind elpusztulunk, s nincs, nincs közöttünk egy se,
Kit boldog Ararát várhatna, tiszta Nóé.
Tán mind elpusztulunk, s az elcsitult világon
Csak miriád virág szelíd sajkája leng:
Szivárvány lenn a fűben, szivárvány fenn az ágon,
Egy néma ünnepély, e m b e r – u t á n i csend,
Egy boldog remegés, és felpiheg sohajtva
A fájó ősanyag: immár a kínnak vége!
S reszketve megnyilik egy lótusz szűzi ajka,
S kileng a boldog légbe a hószín szárnyu Béke.
ELEGIA PER UN
CESPUGLIO DI GINESTRA
Mi sdraio sul monte,
supino nell’erba,
E sul capo mio colmo di fronzoli d’oro si china
L’esile dolce ginestra dai fiori a scafo,
Tanti fiori ondeggianti, cento minute aeree barchette.
Io le guardo qual solitario gigante e dal cuore
Mio grave come
giunge alle labbra mie tristi il sospiro,
Procella giŕ quello č per esse, inattesa impetuosa tempesta
E trema l'intero
soave sciame d‘oro di barche.
Felici, beati legni oscillanti festosi nel quieto
Glauco aere del pieno meriggio di fine estate,
Abbiate pazienza se sospirando vi spaventa
Il pigro gigante, ché sě turbato č il misero.
Abbiate pazienza se dal cupo fondo
Della sua anima turbina la tempesta,
Voi non sapete quali abissi d’angustia
Indicibile cela un tal mostro solingo, un — uomo!
Oscillate quietamente, i freschi scrosci
d’argento
Ed i fitti roventi bagliori del sole dorato
Giungono leggeri sino al vostro apice ornato,
Di miele e profumo colmandovi l’esile varco;
Raccogliete come care gravi perle la rugiada
Dell’alba, e non
vagate dietro un tesoro irreale,
Non vi spinge in cerca del reame di tante false
Brame il capitano caparbio, la coscienza.
Anch'io sono barca di cui perň ogni pezzo
Tenuto č in un sol corpo dai chiodi delle pene
E che il fiero nocchiero all'impazzata guida ovunque
Invece di farla cullare sino a pigrizia nella baia mite,
Benché il dolce fluido del segreto monte magnetico
Della vita trascendente ormai attiri i suoi chiodi
Dolenti a rovinare su muti scogli in pace e non sia
Rottame graffiato e
rantolante di feroci vie.
E allora gli altri? … gli uomini fratelli,
Queste sballottate, peste o abiette, cupide barche
Portate da orrenda corrente di velacce o di laghi
Tristi di sangue pirati sono ed orfani lacrimosi, —
Oh seminando nel moderno diluvio di sangue e di lacrime
Che fato atroce spetta ai tanti tristi uomini barche!
Forse tutti morremo e nessuno, nessuno č tra noi
Che puro Noč un felice Ararat possa aspettarsi!
Forse tutti morremo e sul mondo acquietato
Ondeggerŕ solo una miriade di dolci barchette di fiori:
Arcobaleno giů nell'erba, arcobaleno su nel ramo,
Muta festa sarŕ il p o s t u m a n o silenzio,
Felice tremito, ed ansimerŕ sospirando
La dolente materia primitiva: ormai fine allo strazio!
Tremula si schiuderŕ la vergine bocca del loto
E nell'aria felice si librerŕ la candida ala della Pace.
Traduzione di © Melinda Tamás-Tarr
Da «Osservatorio Letterario», NN. 23/24 2001/2002, pp. 30-33
LA POESIA DI SZABÓ LŐRINC
Fra i maggiori poeti della seconda generazione del «Nyugat» (Occidente) spicca Szabó Lőrinc (1900-1957) che si
era ben presto fatto notare per l'eccezionale talento e per l'acuta
sensibilitŕ. Babits Mihály, con cui all'etŕ di soli diciannove anni aveva unitamente a Tóth Árpád tradotto «I fiori del male»
di Beaudelaire, non aveva esitato ad accoglierlo nella sua casa. Fu appunto
sedendo alla mensa di Babits ed assimilandone gli insegnamenti che Szabó L. maturň il suo stile ed i temi che l'ispirarono.
Quando
apparve «Föld, erdő, isten» (Terra, bosco, dio, 1922), il suo nome
divenne subito famoso ed il suo successo fu completato da «Kalibán» (Calibano, 1923). Fra i motivi ispiratori di queste opere che scrutano le piů
recondite relazioni della natura appare chiaro il carattere speculativo che le
pervade e quel senso di panteismo tipicamente romantico dovuto probabilmente
all'influenza di Coleridge da lui tradotto nel 1921. Il poeta, immerso nella
natura, se ne sente parte integrante e nel segreto fascino di essa sente
fatalmente la divinitŕ.
In «Fény, fény, fény!» (Luce, luce, luce!, 1925), pur ancora sentendo il richiamo della natura, il poeta se ne
allontana a poco a poco. La sua acuta capacitŕ osservatrice lo porta
gradatamente a vivere il dissidio di un mondo cittadino mal sopportato, a
subire le inquietudini e le polemiche degli ambienti letterari. La sopraggiunta
discordia e rottura con Babits acuiscono ulteriormente questi elementi di
tensione interiore e la rivolta di Szabó L. scoppia quindi furiosa.
In «A Sátán műremekei» (I capolavori di Satana, 1926), sotto l'influsso dell'espressionismo tedesco, il poeta si
abbandona alla completa sfiducia nel suo prossimo e accanto alle feroci
invettive, frutto d'una insorta volontŕ rivoluzionaria e sovversiva molto
prossima all'anarchismo, trovano luogo le sue sfrenate avventure intellettuali
e sensuali. Ma trattasi d'una reazione sovente formale poiché in effetti Szabó L. si chiude in
se stesso e la sua rivolta si risolve in mera disillusione. Si fa in lui strada
un freddo individualismo e in «Te meg a világ» (Tu e il mondo, 1932) e «Különbéke» (Pace separata, 1935) la sua poesia
diventa spietata autoanalisi che pur sempre conserva momenti di altissimo
lirismo e suggestione. Con il contemporaneo affacciarsi in lui del problema
della morte, Szabó L. assurge inoltre al ruolo di poeta cosmico con tutti gli atavici
timori di uomo tuttavia affascinato dall'ignoto.
Dopo una
lunga parentesi contrassegnata da atteggiamenti nazionalistici che fecero
pensare ad una simpatia del poeta per le dottrine del nazismo e del fascismo - «Harc az ünnepért» (Lotta per la festa, 1938) -, dall'insorgere di una malattia e dal nascere di una grande
passione amorosa, videro la luce due opere che segnarono il trionfale ritorno
di Szabó L. e la sua
definitiva consacrazione nell'Olimpo letterario ungherese.
«Tücsökzene» (Musica di grilli,
1947-1957) č un'opera autobiografica di ammirevole perfezione. In 370 brevi
poesie il poeta, con una tecnica quasi proustiana dell'evocazione dei ricordi,
passa in rassegna i momenti piů significativi della sua infanzia, della sua giovinezza,
della sua vita letteraria. In questa incomparabile sintesi in cui si susseguono
profonde autoanalisi di volta in volta sorrette da elementi poetici prettamente
soggettivi e da prospettive filosofiche di assoluta universalitŕ si puň
cogliere tutta la cristallina purezza della sua poesia. Ogni concetto racchiude
una cerebralitŕ non tuttavia fine a se stessa, e dalla impareggiabile
compostezza sinfonica del verso si librano in volo scintillanti immagini
d'estatico lirismo. Č un capolavoro grazie al quale si possono vivere tutti gli
istanti dell'intimo e complesso travaglio di un uomo tra gli altri uomini alla
disperata ricerca del senso della vita.
La
cerebralitŕ, elemento comune a tutta la poetica di Szabó Lőrinc, giuoca un
ruolo preminente anche in «A huszonhatodik év» (Il ventiseiesimo anno,
1956). In questo lirico monumento alla memoria della sua amata morta*, tra
versi di apparente estrema sensualitŕ, si evidenzia una mistica concezione
dell'amore inteso soprattutto come arcano mistero della natura. In espressioni
che rinnovano la concettualitŕ dello stilnovismo italiano avvertiamo uno Szabó L. piů umano:
il poeta che aveva tutto rinnegato coglie, dinanzi allo specchio della morte,
la profonda bellezza e l'alto significato della parabola tracciata
dall'individuo sulla terra, e vivendo attraverso meditazioni metafisiche
l'eterno dramma giŕ tema della «Tragedia
dell'uomo» di Madách Imre, raggiunge il proprio equilibrio interiore in una mistica
visione di Amore e Morte, misteriosi motori di una altrettanto misteriosa
Natura.
Szabó Lőrinc fu tra
l'altro eccellente traduttore di Coleridge, Shakespeare, Beaudelaire, Verlaine,
Goethe, Kleist, Leopardi, Khayyam ed altri ancora, e per la sua vasta opera
letteraria ottenne ambiti riconoscimenti quali il premio Baumgarten negli anni
1932, 1937, e 1944, ed il premio Kossuth nel 1957, anno della sua morte.
*
Korzáti Erzsébet in Vékes: cfr. p. 41 Szabó Lőrinc: Erzsike (1955),
pp.9-44; del vol. «HUSZONÖT ÉV,
Szabó Lőrinc és Vékesné Korzáti Erzsébet levelezése», Magvető Könyvkiadó, Budapest, 2000, pp. 736, Ft. 2.990
[N.d.R.]
MINDENÜTT OTT VAGY
Mindenütt ott vagy, ahol valaha
tudtalak, láttalak, szerettelek:
út, orom, erdő veled integet,
falu és város, nappal s éjszaka
folyton idéz, őszi hegy téli hava,
vízpart s vonatfütty, s mindben ott remeg
az első vágy s a tartó őrület
huszonöt kigyúlt tavasza, nyara.
Mindenütt megvagy: mint virágözön
borítod életemet, friss öröm,
frissítő ifjúságom, gyönyöröm:
minden mindenütt veled ostromol,
de mindig feljajdul a halk sikoly:
a sok Mindenütt mindenütt
Sehol!
Da «A huszonhatodik év» II/9
TU SEI DAPPERTUTTO
Tu sei dappertutto ove io mai
T'ho saputo, t'ho visto, t'ho amato:
Di te dicono strade, vette, boschi,
Cittŕ o borgo, notte o giorno č continuo
Richiamo, neve d'autunno sul monte,
Riva o fischio di treno ed ovunque
Le venticinque primavere e estati
Vibrano del primo folle anelito eterno.
Sei ovunque: d'un diluvio fiorito
Tu m'inondi la vita, fresca gioia,
Giovanile mia frescura, delizia.
Con te tutto č assedio
dovunque
Ma mi sale sempre il grido sommesso:
Nulla ovunque sono i tanti Dovunque!
Traduzione Ó di Melinda
Tamás-Tarr
KÜLÖNBÉKE
Ördögöt angyal, a gonoszokat
Gyűlöltem előbb, a gazdagokat;
Aztán mindenkit. Megútáltam és
Megvetettem az embert, az egész
Földi förtelmet, s álmot, hiteket,
Igazságot, a hiú képzelet
Szépelgéseit, a bérenc agyat,
A bölcs s buta magyarázatokat,
Tömeget, egyént. Aztán az idő
És a közöny, a fertőtlenítő,
Lefojtotta öngyilkos lázamat:
Harminchárom évnyi tapasztalat
Után mint vigasztalan harcteret
Jártam a mocskos, leprás életet:
Különbékém, keserű remete,
Vállat vont és dolgozott: semmi se
Vonzotta már, csak a kivételek
És - mint végső remény - a gyermekek.
Da «Tücsökzene
(Musica di grilli)» (1947-1957)
PACE SEPARATA
Odiai dapprima come
angelo il male,
Odiai dapprima qual
demone i ricchi;
In seguito odiai
tutti. Detestai
Ed aborrii
l'umanitŕ, l'intera
Meschinitŕ di
questa terra, sogno,
Fede e giustizia, affettate
mossette
Di fatuo orgoglio,
il venale intelletto,
Le dissennate e
prudenti ragioni,
La folla e
l'individuo. Ma poi il tempo
E l'indolenza, i
guaritori eterni,
La mia febbre
suicida debellarono;
Dopo trentatré anni
d'esperienza,
Qual campo desolato
di battaglia,
Vissi la vita
lurida e lebbrosa:
La separata mia
pace, eremita
Amaro, alzň le
spalle e lavorň.
Ormai solo
l'attrassero i ritiri,
Ed i bambini,
l'eterna speranza.
Traduzione Ó di Mario De Bartolomeis
NEFELEJCS
A virágokból először a kék
nefelejcs tetszett: azt a szép nevét
külön is megszerettem, hogy olyan
beszélgetős és hogy értelme van:
szinte rászól az emberre vele,
úgy kér (s nyilván fontos neki, ugye,
ha kéri?), hogy: ne felejts! Többnyire
jól hallottam, egész világosan,
égszin hangját, néha meg én magam
súgtam, vagy nem is súgtam, csak olyan
nagyon vártam már, hogy tán a szívem
szólt helyette vagy éppen a fülem:
ilyenkor nem tudtam, képzelem-e
vagy tényleg csalok, neki, a neve
mondásával?... De még ha csalok is,
nyugtattam meg magamat, az a kis
segítség semmi, hisz úgy szeretem;
s dehogy felejtem, nem én, sohasem!
NONTISCORDARDIMÉ
Tra i fiori ho il blu io prediletto
Nontiscordardimé: quel suo bel nome
in cuor mio ho amato perché č tanto
espressivo ed a ragione, quasi l'uomo
in guardia esso mettesse quando chiede
(ed č certo importante se lo chiede):
non ti scordar di me! Bene sentito
ho il piů delle volte e chiaramente
il suono suo celeste, sussurrato
l'ho forse io stesso talora, anzi no,
solo ormai l'ho tanto atteso che il cuore
mio l'ha forse scandito o il mio udito:
non sapevo ad ogni modo o immaginavo
di tradire lui dicendone il nome…
Ma anche se
tradisco, io del tutto
tranquillo sono e
pur se quell’aiuto
č piccolo e da
nulla l’amo tanto:
e non lo scordo certo, io, giammai!
Traduzione Ó di Melinda
Tamás-Tarr
LELKEKNEK EGYESSÉGE
Ha tudott rólad, aki csókol, és
Ha tudom, hogy rád gondol: téged éltet,
S te beleköltözöl, édes kisértet,
És az idézett és aki idéz,
Egymást növeli: lelkeknek mesés
Egyessége ez, oly keveredések
Tükörjátéka, amikkel az élet
Máskor csak lopva s kényszerből igéz:
Hűség s hűtlenség jajdul össze bennem
Féltékeny és oldozó szeretetben
(kettőben három és három az egyben!)
S mint túlvilág kérdi a pillanat,
Hogy ami még te, már az se te? - Vagy,
Hogy ami nem te, még az is te vagy?
Da «A huszonhatodik év
(Ventiseiesimo anno)» (1956)
UNIONE D'ANIME
Se chi mi bacia
sapeva di te
E se so che ti
pensa! Ti fa vivere
E tu trasmigri in lei,
dolce fantasma,
E v'accrescete a
vicenda, evocata
E evocatrice:
questa č una fiabesca
Unione d'anime,
gioco di specchi
E mescolanze a
mezzo cui la vita
A forza ancora
ammalia e occultamente.
Infedeltŕ e fedeltŕ
mi gemono
In un amore geloso
e struggente
(tre in due noi
siamo e tre siamo nell'uno!)
E come l'aldilŕ
chiede l'istante,
Quella che ancor
sei tu, giŕ non sei quella,
O quella che non sei, sei pure quella?
Traduzione Ó di Mario De Bartolomeis
SZERETLEK
Szeretlek, szeretlek, szeretlek,
egész nap kutatlak, kereslek,
egész nap sírok a testedért,
szomorú kedves a kedvesért,
egész nap csókolom testedet,
csókolom minden percedet.
Minden percedet csókolom,
nem múlik ízed az ajkamon,
csókolom a földet, ahol jársz,
csókolom a percet, mikor vársz,
messziről kutatlak, kereslek,
szeretlek, szeretlek, szeretlek.
IO TI AMO
Io ti amo, io t'amo, io t'amo,
Tutto il giorno con gli occhi ti cerco,
Tutto il giorno rimpiango il tuo corpo,
Triste amato per la propria amata,
Tutto il giorno io bacio il tuo corpo,
Io ti bacio a qualunque minuto.
Qualunque tuo minuto io bacio,
Dalle labbra il tuo sapor non mi scema,
Dove passi tu la terra io bacio,
Il minuto quando aspetti io bacio,
Di lontano io ti scruto, ti cerco,
Io ti amo, io t'amo, io t'amo.
Traduzione Ó di Melinda
Tamás-Tarr e Mario De Bartolomeis
Da «Osservatorio Letterario», NN. 23/24
2001/2002, pp. 30-33
SU ALCUNI DATI
CONTROVERSI
RELATIVI AL GENERALE FARNESIANO GIORGIO BASTA (1)
Nel tentativo di far luce su alcuni aspetti poco noti della vita dello
scrittore bolognese Ciro Spontoni, abbiamo tra l’altro studiato alcune
relazioni esistenti fra questi ed il generale di Alessandro Farnese, Giorgio
Basta. Verificando a questo scopo alcuni dati sul Basta, abbiamo rilevato che
la quasi totalitŕ delle note biografiche a lui relative contengono vistose
inesattezze. Poiché dovrebbe essere la somma piů precisa ed autorevole delle
notizie riguardanti il Basta, abbiamo appuntato la nostra attenzione sulla voce
curata da Gaspare De Caro per il Dizionario
Biografico degli Italiani ove si legge: «Nacque intorno al 1540 a Rocca, in
terra d’Otranto, benché una tradizione bibliografica lo voglia nato nel
Monferrato, a Rocca sul Tanaro […]. Nel 1606 abbandonň il servizio e si ritirň
a vita privata, dedicandosi all’elaborazione di alcuni trattati di tecnica
militare […]; morě intorno al 1612, forse nel suo feudo di Troppau» (2).
Diremo subito che, se di errata tradizione bibliografica si deve parlare,
questa si č iniziata con il Bayle (3) il quale, forse seguendo
l’affermazione di Famiano Strada che lo dice in pago Tarentini agri natum, vuole il Basta appunto nato a Rocca
(forse l’odierna Roccaforzata) nei pressi di Taranto. Altra errata tradizione bibliografica
č quella che, iniziatasi con lo Schweigerd (4) e successivamente
accolta in numerosi lessici, vuole il Basta nato il 30 gennaio 1550.
Il cutatore della voce per il Dizionario
Biografico degli Italiani si limita invece a seguire una vaga affermazione
del Barbarich (5). Il De Caro avrebbe invece potuto avere un quadro
generale dei dati riguardanti il Basta notevolmente piů esatto da una prima
consultazione degli scritti del Mazzucchelli (6). Essendogli inoltre
nota l’opera del Crasso (7) in cui a proposito del Basta si legge
«l’Autor della Storia di Transilvania scrive, ch’egli sia nato in un Casale di
Monferrato», il De Caro aveva anche la chiave per avvicinare quella che a
nostro fondato avviso č da ritenere la fonte piů informata di taluni dati
riguardanti il generale italo-albanese. Alludiamo alla Historia della Transilvania ed al suo autore di cui, per
dimostrarne la sicura credibilitŕ, diremo brevemente (8).
Ciro Spontoni fu dal 1593 alla corte di Vincenzo I Gonzaga (1587-1610) che
lo «esercitň in molti gravi affari e seco lo condusse alla guerra di Ungheria
in qualitŕ di Foriero» (9). In terra magiara conobbe certamente il
Basta se piů tardi si permetterŕ di ricordare a Vincenzo I un episodio di
quella spedizione in questi termini: «Restarebbemi a dire all’A. V. Sereniss.
Particolarmente quale sia il Sig. Conte Basta, s’ella con gli occhi proprij, et
a salvezza della sua persona ancora non l’havesse veduto seco valorosamente
adoperare le armi» (10). Nel novembre del 1600 venne eletto primo
Segretario del Senato di Bologna, incarico che inspiegabilmente lasciň nel 1603
(11). Per qualche tempo non si hanno sue notizie. Ma il 26 novembre
1605 cosě scriveva presentando al Duca di Mantova un trattato del Basta (12):
«Tra i favori, e tra i doni che ho ricevuto dal Sig. Conte Giorgio Basta,
mentre mi son trattenuto al suo servigio nell’Ungaria, l’havermi egli fatto
gratia del suo Maestro di Campo Generale io stimo il maggiore di tutti […]; mi
offero di farle vedere, et tra non molti mesi stampati, alcuni ragionamenti
militari fatti da esso Sig. Conte Basta con tre gentlhuomini Italiani subito
ritornati da Possonia in Vienna nella prossima estate passata, et da me
raccolti, che vi fui presente». A pagina 285 della Historia si puň inoltre leggere la versione italiana di una lettera
in latino scritta dal principe Bocskai all’imperatore Rodolfo II, lettera
trovata in possesso di un prigioniero e dal Basta consegnata al «Cavaliere
Spontone; acciň che secondo, ch’egli giudicava conveniente la inserisse nella
presente narrazione», vale a dire la Historia
stessa.
Si nota subito come il De Caro sia in errore anche quando dice che il
generale si era dedicato all’elaborazione dei suoi trattati militari dopo il
1606. Infatti il Basta — come si legge nella presentazione del giŕ nominato
trattato militare al duca di Mantova — «quanto in terra appartiene al carico
del Mastro di campo Generale brevemente scrisse, et con soldatesca penna (che
sa perň si bene adoperare quanto la spada), raccogliendone il contenuto da
molti fragmenti di scritture fatte da lui per sua particular memoria, fin da
quando ei guerreggiava nella Fiandra […]» dandogli «[…] a preghiere di molti la
presente forma nella Transilvania, cinque anni sono essendovi alle stanze […]».
Da quanto sopra si deduce inoltre che Spontoni era stato molto vicino al Basta,
ed infatti si era recato in Ungheria al servizio del generale dopo aver
abbandonato l’incarico di primo Segretario del Senato di Bologna. Essendo poi
la Historia una dettagliatissima
descrizione dell’operato dell’italo – albanese , sembra fuor di dubbio che lo
scrittore bolognese avesse il compito di scrivere un’opera biografico –
esaltante del Basta, secondo una tradizione dell’epoca abbastanza diffusa.
Questa conclusione č avvalorata dal fatto che lo stesso generale, come abbiamo
avuto modo di vedere, forniva allo Spontoni notizie od elementi che potessero
contribuire ad una maggiore completezza dell’opera.
Non esitiamo quindi a riconoscere la massima attendibilitŕ a Ciro
Spontoni, cosa che a suo tempo, pur non avendo tutte le garanzie da noi
raccolte, fece tuttavia il Veress, uno fra i piů autorevoli studiosi del Basta (13).
Si legge nella Historia :
«Nacque Giorgio Basta in Ulpiano nel Monferrato […] di Demetrio nell’Anno 1547
[…] Fů egli allevato in Asti, quivi imparando fin al quarto decimo anno lettere
d’Humanitŕ […]» (14).
Una localitŕ denominata Ulpiano, ad un primo esame, sembra non esistere
attualmente in Piemonte. Perň nell’Atlante
del Magini (15) tale luogo č segnato con la suddetta denominazione
nella tavola II, mentre nelle tavole III e V (16) risulta come
Vulpiano; segno che al tempo in cui il cartografo approntň le carte prevaleva un
duplice forte influsso dialettale sulla reale denominazione Volpiano.
Particolare considerazione merita l’indicazione del 1547 come anno di
nascita del Basta. Sappiamo che questi era morto — ed in seguito ne daremo
documentazione — nel 1607, e poiché sempre nella Historia č scritto che il generale era passato a miglior vita «[…]
nel sessantesimo terzo anno dopo il suo nascimento […] » (17), non
possiamo credere che Spontoni non sapesse far di conto. Si tratta ovviamente di
un errore di stampa e la data del 1547 deve essere intesa come 1544. Gioverŕ a
questo scopo ricordare che l'opera in questione dello scrittore bolognese fu
edita postuma e che perciň l'autore non poté curarne la pubblicazione. A ciň si
aggiunga che la particolare grafia dei numeri arabi 4 e 7 in uso a quell'epoca
poteva — come nel caso di grafia particolarmente astrusa dello Spontoni (18)
— essere facilmente fraintesa. Il tipografo deve dunque essere stato tratto in
inganno commettendo un errore che poi non ha corretto alla luce delle altre
affermazioni che si leggono nell'opera. Ulteriore conferma a queste nostre
deduzioni vengono dal Sirtori quando nella sua Oratione dice che il Basta era morto «[…] quando sopra sessantatre
haveva passato gl'Anni» (19).
Non č nostra intenzione fare qui la storia del Basta. Di lui occorrerŕ
perň ricordare che suo padre Demetrio, dovendo recarsi a combattere in Fiandra
sotto il comando del Duca d'Alba, «[…] da' Literali Studij ritoltolo, deliberň
di menarlo seco, dalla cui rigida disciplina profitti trahendo maravigliosi, al
militare diede principio; e in breve tempo fatto strettissimo osservatore delle
regole, e leggi della Militia […], trascorsi havendo gl'ordini tutti de'
militari e bellici officij, pervenne alfine al culmine eccelso del glorioso
Generalato […] sotto gl'Auspicij di Alessandro Duca di Parma Prencipe di sempre
viva memoria» (20). Alessandro infatti, giunto nelle Fiandre,
comprese immediatamente le specifiche inclinazioni del Basta e ne fece uno dei
suoi piů stretti collaboratori. Fra l’altro lo rese responsabile del
rinnovamento e della ristrutturazione di quell’arma di cavalleria di cui
l’italo–albanese divenne in seguito il maggiore teorico. Questi motivi
contribuirono a legare intimamente il Basta ad Alessandro. E anche dopo la
morte di questi ed il passaggio del generale al servizio di Rodolfo II in
Ungheria, il legame continuň intatto con Ranuccio I, come sta a testimoniare il
ricco carteggio rimastoci. Da questo epistolario trascriviamo due lettere (21)
che, oltre a confermarci il costante scambio di favori fra i due, inducono a
considerare sul pietoso stato in cui era ridotta l’Ungheria — famosa nel ‘300 e
nel ‘400 per i suoi cavalli — , ove al Basta č impossibile acquistare una buona
cavalcatura nel momento in cui scrive.
«Ser.mo Sig.re.
Non mi dovrŕ l’A. V.ra Ser.ma chiamare ň, troppo ardito, ň,
nella mia domanda soverchiamente importuno, poiché io come gran servitore che
le sono, confidato nella sua liberalitŕ pronta a ciascuno con gli ufficij, col
donare, co’l mostrarsi cortese, e con tutte quelle parti, che fanno l’immagine
di un grande, e magnanimo Principe, vengo Hora a narrarle le mie necessitŕ. Io
mi ritrovo del tutto ŕ piede, essendomi morti tutti i miglior cavalli, che
avessi da servizio, e per le guerre, che sono in queste parti non trovo da
comprarne ŕ prezzo alcuno, Supplico l’Alt. V.ra, che con la sua molta
amorevolezza si degni supplire ŕ bisogni miei facendomi grazia di un buon
cavallo, de i molti ch’ella tiene (22), che rispetto all’etŕ, e
corpulenza mia, sia delle qualitŕ ch’in voce esporrŕ ŕ V. Alt. il s. Cesare
Morosini. Questo dono mi sarŕ cosě grato, che ne le sarň tenuto con
indissolubil nodo di eterna obbligazione, e penserň sempre come mostrarmene
grato all’incomprensibil cortesia di V. Alt. Ser.ma alla quale reverentemente
inchinandomi, prego dal S.re Iddio lunga, e felice vita.
Da Eperies li 6 di Marzo 1605.
Di V.ra Alt. Ser.ma humilissimo servitore
G.
Basta».
«Ser.mo Sig.re.
Io non saprei ŕ qual delle due cose io debba restar maggiormente
obbligato, se al cortese affetto, che mostra V. A. verso di me con
l’amorevolissima sua de’ 10 di Aprile, ň, pure alla di lei liberalitŕ, con la
quale si č compiaciuta di donarmi cosě bello, e buon cavallo, il quale se bene
č giovane, tuttavia essendo di grande espettazione, sarŕ perň da me con ogni
maniera conservato in memoria della molta amorevolezza sua. Mio debito sarebbe
e dell’uno, e dell’altra rendergliene le debite gratie: ma non possend’io far
questo con altro che con parole, e queste non sendo bastanti a ringraziarnela,
la supplicherň in loro vece ad accettare la mia solita, e sempre devota
osservanza, verso la sua Seren.ma Persona. Quanto al Cap.o Giovannantonio
Roncone raccomandatomi da lei per altra sua, gli sono stato non solo favorevole
nella sua causa, ma per servirne a V. A. mi son'anco contentato, se ben l'error
suo era degno di gastigo, che il Governatore di quella piazza abbandonata portasse
egli solo la pena per tutti; et ella puň assicurarsi, che in qualunque
occasione si degnerŕ di honorarmi dei suoi comandamenti, mi troverŕ sempre
pronto non meno in esseguirli, di quello che io sia stato sino ad hora
devotiss.mo serv.re al nome di V. A., alla quale con tal fine inchinandomi
prego da Dio ogni felicitŕ.
Da Possonio li 6 di Giugno 1605.
Di V. A. Ser.ma humilissimo ser.re
G. Basta».
A spingere il generale a chiedere un buon cavallo a Ranuccio
contribuirono probabilmente anche incipienti difficoltŕ economiche. Infatti
nell'estate del 1604 aveva
no avuto inizio pressioni del Basta verso la Casa d'Au
stria affinché questa gli versasse le notevoli somme di cui gli
era debitrice (23). Per tenerlo a bada la Corte impe
riale gli promise i feudi di Troppau e di Greifenstein che poi
non gli furono mai concessi. Solo alla fine del 1605, per interessamento
dell'Arciduca Massimiliano, i ragionieri cesarei fecero un computo delle sue
spettanze che risultarono essere di 42.200 fiorini, da cui poi, con artificiose
detrazioni si giunse a riconoscergli la somma di 3.240 fiorini.
Con il pretesto dell'insoddisfacente andamento delle operazioni militari
in Ungheria il generale Basta, conte di Huszt dal 1602 (24), fu per
cosě dire mandato in pensione a Praga ove in seguito si spense senza aver mai
ricevuto quanto era suo diritto.
L'anno della morte del Basta si rileva dall'iscrizione seguente, trascritta
dal Siebmacher (25) dal monumento che i familiari del generale gli
fecero erigere nella chiesa dei Frati minori (Minoritenkirche) a Vienna:
Comes Georgius Basta Dux belli
peritissimus et felicissimus C.H.S.E. Anna de Liedekerke Uxor, Ferdinandus et
Maria Magdalena Liberi et Franciscus de Medina gener moerentes f.c. obiit anno
MDCVII. R.Q.I.P.
La data del 1607.
Peraltro giŕ suggerita dallo Spontoni e da una lettera del gennaio 1608 (26),
č confermata dalla seguente missiva inviata dal figlio del Basta, Carlo, al
duca Ranuccio (27):
«Ser.mo Sig.re N.ro
Ha gran parte V.A. Ser.ma nella perdita che io ho fatta del
Sig.re Giorgio mio Padre, quale chiamň Iddio ŕ se Martedi mattina, perché č
mancato a lei, et alla Ser.ma sua Casa un servitore, che riconoscendone
l'obbligatione, non desiderava altro, che l'occasione o un minimo cenno per
spender con la robba, et vita, ciň che aveva imparato sotto il prudentissimo
governo dell'invitto gloriosissimo sig. Duca Padre di V.A.S., alla quale ho
dovuto darne conto, acciň sapendo gli heredi, che ha lasciati di se, possa
sopra di loro esercitare lo Imperio, che aveva sopra di lui, che sarŕ a me, et
a Ferdinando mio fratello di molta consolatione, et ristoro nel medesimo
doloroso stato, che ci troviamo, et nel danno, che ne sentiamo, non restando in
tanto di supplicarla humilmente di riceverci sotto la sua protettione, alla
quale ci raccomandiamo, et io con riverente affetto le bacio la veste.
Di Praga li 26 di Novembre 1607.
Di V.A. Ser.ma humilissimo serv.re
Carlo Basta».
Con un semplice calcolo (28), o con l'aiuto del Cappelli (29),
si puň stabilire che il 26 novembre 1607 era lunedě. Poiché il martedě cui fa
riferimento Carlo Basta č sicuramente quello della settimana immediatamente
precedente quella in cui la lettera č scritta, tale martedě risulta dunque
essere il giorno 20 novembre.
La data di morte del Basta da noi cosě proposta č confermata da una
lettera ungherese dell'epoca (30) in cui si legge che il generale,
dopo cinque giorni di febbre originatasi da un raffreddamento, era
improvvisamente morto a causa di un colpo apoplettico la mattina del 20
novembre 1607.
-------------------------------
1) Apparso
anche in Aurea Parma , anno LVIL,
fascicolo III, settembre - dicembre 1973.
2) Dizionario Biografico degli Italiani
(Istituto della Enciclopedia Italiana fondata da Giovanni Treccani), vol. VII,
Roma, 1965. Voce di G. De Caro, pp. 154-157.
3) P. BAYLE, Dictionnaire historique et critique, Rotterdam, 1702, II ed. vol.I,
p. 499.
4) C.A.SCHWEIGERD,
Osterreichs Helden und Heerführer
(Eroi e condottieri d'Austria), Lipsia, 1852, II ed., I vol., p. 593.
5) E.
BARBARICH, Un generale di cavalleria
italo - albanese: Giorgio Basta, in «Nuova antologia», serie VII, vol.
CCLX, (1928) p. 460.
6) G.M.MAZZUCCHELLI,
Gli scrittori d'Italia, vol. II,
parte I, Brescia, 1758, pp. 536-537.
7) L:
CRASSO, Elogi di Capitani illustri,
Venezia, 1683, pp.17-18.
8) C.
SPONTONI, Historia della Transilvania,
Venezia, 1638.
9) G.FANTUZZI,
Notizie degli scrittori bolognesi,
Bologna, 1781-1794, p. 32. Il Fantuzzi usa le stesse parole contenute in una
lettera autografa che Spontoni inviň al Senato bolognese per concorrere alla
carica di primo Segretario. La lettera «curriculum» dello Spontoni si trova
presso lArchivio di Stato di Bologna, Archivio del Senato, Serie Istromenti e
Scritture, serie C, libro 14, cartella 53.
10) Vedasi
l’introduzione dello Spontoni al libro di G.BASTA, Il Mastro di Campo Generale, Venezia, 1606.
11) Le
date riguardanti la durata dell’incarico sono state rilevate presso l’Archivio
di Stato di Bologna, Archivio del Senato, serie Partiti, vol. 27.
12) G.BASTA,
op. cit., introduzione di Ciro
Spontoni recante la data seguente: Venezia, 26 novembre 1605.
13) E.
VERESS, Basta György hadvezér levelezése és íratai (Corrispondenza e carte del generale
Giorgio Basta), voll. I e II, Budapest, 1909-1913.
14) C.
SPONTONI, op. cit., p. 336.
15) G.
A. MAGINI, L’Italia con carte geografiche,
Bologna, 1620.
16) Trattasi
d’una piccolissima appendice del territorio del Monferrato di allora, compresa
in un triangolo formato da Settimo Torinese, Chivasso e Cirič, ed incuneantesi
in territorio torinese.
17) C.
SPONTONI, op. cit., p. 338.
18) Vedasi
la lettera autografa dello Spontoni giŕ citata alla nota 9.
19) G.
SIRTORI, Oratione al Serenissimo
Massimiliano Arciduca d’Austria fatta da Gieronimo Sirtori nella morte del
Conte Giorgio Basta, in Appendice
all’op. cit. di C. SPONTONI, p. 349.
20) C.
SPONTONI, op. cit., p. 58-59.
21) Le
lettere si trovano presso l’Archivio di Stato di Parma, Carteggio Farnesiano
Estero, Germania, busta 89, cartella anni 1604-1605.
22) La
famosa razza dei cavalli farnesiani discendeva dalla piů antica razza che i
signori di Vallisnera e di Vairo allevavano fin dal secolo XI unitamente agli
altri signorotti delle Valli dei Cavalieri «pro guerra Communis Parmae». Si
veda al riguardo: G. MICHELI, La bandita
di Castagneto per la razza delle cavalle ducali, in Bibl. «Giovane
Montagna», n. 33, Parma, 1925. Si confronti altresě: Valle dei Cavalieri – annuario 1972 (Parma, Comunitŕ della Valle
dei Cavalieri, 1973), alla p. 121 (necrologio del dott. Marazzi).
23) Queste
notizie ed i dati relativi sono stati documentati dal VERESS, op. cit., pp. XXVII e XXVIII del vol. II.
24) S. VAJAY, A propos des comtes Basta de Huszt et de la survivance de leurs
armoiries en Hongrie, Bruxelles, 1966, p. 88.
25) J. SIEBMACHER, Grosses und allgemeines Wappenbuch: Adel von Siebenbürgen (Grande libro araldico universale: Nobiltŕ di
Transilvania), tomo IV/12, Norimberga, 1898, pp. 37-38.
26) B.
VANNOZZI, Lettere miscellanee, vol.
III, Bologna, 1617, p. 189.
27) Archivio
di Stato di Parma, Carteggio Farnesiano Estero, Germania, busta 90, cartella
anni 1606-1615.
28) Vedasi
a questo scopo la formula suggerita da G. ARMELLINI, I fondamenti scientifici della astronomia, II ed., Milano, p. 80,
formula 32.
29) A.
CAPPELLI, Cronologia e calendario
perpetuo, Milano, 1906, p. 83 e pp. 162-163.
La
lettera č riportata da Történelmi Tár (Bollettino storico), Budapest, annata
1879, p. 35
Da «Osservatorio Letterario», NN. 25/26
2002, pp. 59-60
INDICE
PRESENTAZIONE...................................................................................................................................3
ECHI LEOPARDIANI IN UNA POESIA DI TÓTH
ÁRPÁD?................................................................................5
LA POESIA DI SZABÓ
LŐRINC................................................................................................................14
SU ALCUNI DATI CONTROVERSI RELATIVI AL GENERA-
LE FARNESIANO GIORGIO BASTA...........................................................................................................23
OSSERVATORIO LETTERARIO
*** Ferrara e l'Altrove ***
RADIORAI 1
Rubrica
EST - OVEST
Ore 7.05 Domenica, 25 marzo 2001
_________________________
Domenica 25
marzo nel corso della rubrica radiofonica di economia, politica e cultura della
Mittel Europa di RAI 1 «Est-Ovest», trasmessa dalla sede Rai di Trento a cura
di Sergio Tazzer, č stata letta la seguente scheda informativa sull'attivitŕ
della nostra rivista «Osservatorio
Letterario»:
«Da ormai tre anni viene stampato a Ferrara un periodico bimestrale di cultura:
l'«Osservatorio Letterario» […]
(Osservatorio Letterario Ferrara e l'Altrove) per iniziativa della Professoressa
Melinda Tamás-Tarr Bonani - d'origine ungherese, in Italia da […] piů di 10
anni - quale direttore, titolare ed editore. La rivista ha contatti diretti e
scambi reciproci con la Biblioteca Nazionale «Széchenyi» di Budapest e la
Biblioteca Elettronica Ungherese e si occupa di letteratura (poesia, prosa,
storia letteraria) principalmente, ma tratta anche di saggistica storica e
filosofica. Č attenta a valorizzare soprattutto e a divulgare la storia
letteraria, artistica e culturale dell'Ungheria anche ricordando gli stretti
rapporti da sempre intercorsi tra questa Nazione e l'Italia, e con Ferrara in
particolare, fin dal Rinascimento.»
[Renzo
Ferri]
© Copertina: Melinda Tamás-Tarr
PROPRIETŔ
LETTERARIA RISERVATA
Printed
in Italy
Finito di stampare nel mese di
dicembre 2003
© Copyright 2003
by Mario De Bartolomeis: Saggi letterari e storici - Saggistica c/o
«OSSERVATORIO LETTERARIO - Ferrara e l’Altrove», Edizione O.L.F.A.
Stampato in proprio presso la Redazione:
44100
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