Cultura
A Genova
contro Bush e Berlusconi
di
Luca Landò
_________________________________________________________________
MILANO
L’obiettivo finale? Il peso zero. Niente
dipendenti, niente sindacati, niente macchine.
Insomma niente produzione. È il sogno
dell’industria moderna che più moderna non si
può. È il Nirvana del capitalismo, tutto
diritti niente doveri, diventato sempre più
vicino e sempre più possibile. Un paradiso che
non deve attendere grazie a una idea tanto
spregiudicata quanto semplice: vivere il
pianeta, non per quello che è ma per quello che
offre. Non un condomino con sei miliardi di
inquilini, dunque. Ma un luogo talmente grande
dove chi cerca trova. Diamanti e carbone,
naturalmente. Ma anche quartieri e periferie
dove c’è sempre qualcuno, da qualche parte,
disposto a lavorare per te a un quarto di
dollaro in meno. Il nuovo colonialismo non si
limita a estrarre petrolio in Nigeria e portarlo
in Inghilterra. O cercare smeraldi nello
Zimbabwe e venderli ad Amsterdam. La nuova
frontiera è produrre scarpe, maglioni e
magliette in Corea, Honduras, El Salvador e
venderle a Milano, Londra, Los Angeles. Insomma,
un pianeta del bengodi fatto di «zone franche
di produzione», autentiche nicchie industriali
nelle quali i più scaltri riescono sempre a
infilarsi, alla faccia dei diritti umani e degli
accordi sindacali.
Se ne è accorta anche Amnesty International,
che alla luce delle sue quaranta candeline ha
scoperto che guardare nelle case private (gli
stati-nazione) non è più sufficiente: ora
bisogna cercare nella casa di tutti. Il pianeta,
appunto. Dietro il termine pomposo e fumoso,
sicuramente importante, di globalizzazione si
nasconde una versione aggiornata di un vecchio
concetto: sfruttamento. Lo sanno i 16.310
dipendenti della Levi’s in California
licenziati senza troppi complimenti nel 1997 per
essere sostituiti da «appaltatori che operano
in tutto il mondo». Lo sapeva Carmelita Alonzo,
«morta di straordinari», come dicono i suoi
colleghi, in una di quelle aziende di
appaltatori.
E lo sa Naomi Klein, giornalista-attivista (come
si definisce lei stessa) cresciuta a Toronto in
un quartiere di industrie tessili e in questi
giorni in Italia per presentare il suo libro, No
Logo (Baldini&Castoldi), autentico cult del
movimento antiglobalizzazione . «Da piccola non
vedevo che fabbriche e magazzini, uomini e donne
che tagliavano e cucivano, imballavano e
spedivano. Adesso vedo solamente muri di mattoni
a vista e magazzini abbandonati, splendidi
esempi di archeologia industriale con qualche
loft alla moda. Producevano impermeabili London
Fog, molto utili da quelle parti perché a
Toronto piove spesso». Adesso quelle fabbriche
non ci sono più, ma a Toronto piove ancora. E
la gente indossa sempre impermeabili di quella
marca. Chi li produce? E dove?
La risposta la trovò la stessa Klein girando il
mondo per il suo libro. Finì a Cavite, una città
industriale delle Filippine piena di aziende e
magazzini. Con una caratteristica: sulle porte
di quelle strutture non c’erano insegne. «Se
vuoi trovare un posto senza marchi devi andare
da quelle parti», scherza la Klein. Cavite è
una città senza volto dove si producono
prodotti inutili (a che servono, a Cavite, gli
impermeabili invernali e i monitor
ultrapiatti?), dove si lavora senza sosta, senza
diritti e senza sindacati, dove il padrone non
è chiaro chi sia (chi ti assume e ti controlla,
o «il cliente», l’azienda straniera che fa
in modo che ci sia qualcuno che ti assume e ti
controlla?). Il tutto con la sensazione che il
lavoro oggi c’è, domani chissà. Perché se
il committente si stufa, o semplicemente trova
condizioni migliori, ti saluta senza molti
inchini. «Non a caso quelle fabbriche, in
Guatemala le chiamano ‘rondini’, pronte a
volar via da un momento all’altro».
Tutto questo ebbe inizio quindici anni fa quando
si impose una nuova strategia di marketing. «A
metà degli anni Ottanta le grandi aziende
iniziarono a puntare con molta più decisione
sul branding, sulla costruzione del marchio. Fu
una autentica rivoluzione. Fino ad allora, anche
se si riconosceva l’importanza del marchio, la
prima preoccupazione di un industriale era la
produzione di beni. Era questa la dottrina
dell’era industriale. Oggi le priorità si
sono capovolte. Molte, tra le aziende più note,
non si occupano più di produrre e reclamizzare
le merci: piuttosto le acquistano e vi appongono
il marchio. Si tende al “peso zero”,
appunto: chi possiede di meno, chi ha meno
dipendenti, chi produce immagini anziché
prodotti, vince la corsa».
Tutto questo, dice la Klein, funziona solo a una
condizione: che il marchio creda fermamente in
se stesso. «Anche in passato si parlava di
branding, di etichette. Ma era una sorta di
serena convivenza: c’era il marchio e c’era
il prodotto. Oggi si teorizza la possibilità,
estrema, di vendere solo “marchi”. Con il
risultato, inquietante, che i marchi sono
dovunque». Come quella scuola americana dove
venne istituita la giornata della Coca Cola,
durante la quale i bambini dovevano impegnarsi
in attività collegate alla famosa bevanda:
disegni, temi, canzoni. «Un bambino, forse per
distrazione, si presentò con una maglietta
della Pepsi: successe il finimondo. Il preside
chiamò i genitori e li accusò di voler
rovinare quello che la Coca Cola aveva fatto, in
termini di sponsorizzazioni, per la scuola
stessa», dice la Klein.
Che c’entra tutto questo con la
globalizzazione? «Parlare di marchi senza
parlare di globalizzazione è sbagliato. Le due
cose vanno a braccetto. Non ci sarebbe il culto
del marchio, se non ci fosse la possibilità di
produrre a bassi costi in qualche parte del
mondo. E non ci sarebbero le aziende rondini del
Guatemala se non ci fosse il culto del marchio».
Ma le conseguenze sono anche altre. «Con questa
ondata di mania del marchio è arrivato un nuovo
tipo di uomo d’affari, quello che vi dirà
sempre, in ogni situazione, che il marchio X non
è un prodotto, ma uno stile di vita, un modo di
pensare, una gamma di valori, un’idea (vi
ricorda qualcuno?). La Ibm non vende computer,
vende soluzioni per le aziende; la Swatch non è
solo orologi, ma il concetto stesso di tempo. In
Italia avete l’esempio più evidente di quello
che si può fare creando un marchio. Quello che
Berlusconi ha fatto con se stesso e con Forza
Italia è branding puro ma applicato alla
politica. È un precedente pericoloso perché ci
sono altri magnati, Murdoch ad esempio, che
potrebbero ispirarsi a quello che ha fatto il
vostro Cavaliere. E’ per questo che gli occhi
del mondo, per un verso o per l’altro, sono
puntati sul vostro Paese. E tutto questo lo si
vedrà con chiarezza a Genova, in occasione del
G8 - dice la Klein. - Su questo non ho dubbi: il
controvertice di Genova, quello organizzato da
tutto il movimento contro il G8, sarà un grande
evento di contestazione, forse il più grande da
Seattle in poi».
Sul tavolo, questa volta, ci sono parecchi temi
da affrontare. E tutti di grande significato. «Sicuramente
sarà un evento contro Bush, perché è il primo
meeting internazionale dopo il clamoroso e
ostinato no degli Stati Uniti alla ratifica
degli accordi di Kyoto sull’ambiente. Nello
stesso tempo sarà un evento contro Berlusconi,
perché nessuno più di lui rappresenta quello
che la filosofia del logo, del marchio può
fare. E un conto è convincere una persona a
comprare una paio di scarpe. Un altro spingerlo
a scegliere un partito». Qualcuno dice che il
movimento antiglobalizzazione sia nato più per
reazione ad alcuni aspetti del mondo commerciale
che per una per vera coscienza politica. «Agli
inizi era sicuramente così: il movimento
antiglobalizzazione e quello contro
l’invadenza dei marchi e della pubblicità
erano separati. Quest’ultimo era soprattutto
un fenomeno americano, dove i giovani sentivano
l’esigenza, molto privata e personale, di
provare a vivere in un mondo meno inquinato
dalla pubblicità. In America sono arrivati a
mettere annunci pubblicitari persino nei bagni
delle scuole e delle università, in modo che
chiunque, in quei pochi minuti di intimità, non
potesse far altro che fissare l’immagine di
una marca di scarpe o di magliette - dice la
Klein. - Strada facendo i due movimenti si sono
uniti. Anche perché che se davvero vuoi
cambiare le cose, a questo mondo, devi trovare
il modo di intaccare il fatturato delle aziende.
Le campagne di boicottaggio contro la Shell o la
McDonald hanno dimostrato che una protesta di
boicottaggio condotta a livello mondiale può
davvero influire sulle decisioni delle
multinazionali. Da questo punto di vista
Internet rappresenta uno strumento formidabile,
perché consente la libera circolazione delle
informazioni come pure la possibilità di
organizzare forme di protesta in diversi Paesi
nello stesso momento. Chi accusa di
superficialità il movimento antiglobalizzazione
sbaglia. E il messaggio più importante è
rivolto ai teorici della fine della storia,
quelli convinti che il mondo non possa far altro
che andare avanti lungo binari prestabiliti.
E’ una fesseria: il movimento, le forme
internazionali di boicottaggio, la protesta via
Internet indicano che c’è ancora spazio per
il dissenso. La fine della storia è una storia
già finita. Il mondo può ancora cambiare».
Naomi Klain
02/06/2001
Torna
alla homepage Benca.it
|