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Il
blitz terrorista eseguito l’11 settembre contro
obiettivi-chiave dell’immaginario politico,
economico e strategico globale è stata un’operazione
che resterà purtroppo famosa negli annali della
guerra non convenzionale e del terrorismo.
Pianificata assai probabilmente da molto tempo
(almeno 4-6 mesi), sostenuta da una rete logistica
che lascia supporre mezzi superiori a quelli
disponibili persino al famigerato bin Laden,
innervata da una struttura di reclutamento ed
indottrinamento di prim’ordine, questa
operazione è destinata a lasciare tracce molto
più durature della scossa psicologica inflitta
agli Stati Uniti.
Le prime conseguenze del quadruplice attentato si
verificheranno ai livello alti e medi dell’amministrazione
statunitense. I membri del quartetto
presidenziale, cioè Colin Powell (Dipartimento di
Stato), Condoleeza Rice (Consiglio nazionale di
sicurezza), Donald Rumsfeld (Dipartimento della
difesa), Paul Wolfowitz (vice segretario alla
Difesa), dovranno rivedere le proprie posizioni
politiche ed i loro programmi di spesa.
È ovvio che la lotta al terrorismo è salita in
cima all’agenda politica interna ed estera, ma
questo impone delle scelte non sempre facili. Come
sostenere la necessità assoluta di una difesa
antimissile quando lo spazio aereo è stato
violato da comuni aerei commerciali? Cosa fare se
alcuni Paesi a lungo messi sulla lista nera si
rivelano essere stati estranei agli attentati e se
invece alcuni alleati si sono dimostrati
negligenti?
La priorità terrorismo richiederà molto
probabilmente un’altra estenuante tornata di
ricerche di responsabilità, lezioni apprese e
riforme nel settore dell’intelligence. Le scelte
sulla nuova intelligence cambieranno letteralmente
il modo in cui l’amministrazione vedrà il resto
del mondo.
Un’altra conseguenza dell’attentato sarà
visibile nei rapporti con gli alleati. Al termine
del NAC (North Atlantic Council), il segretario
generale della NATO, lord Robertson of Port Ellen,
ha dichiarato che la lotta al terrorismo riceverà
un nuovo impulso. Quanto cambierà la strategia di
sicurezza di un’alleanza che da un nemico
esterno militarmente visibile sposta l’attenzione
ad un dominio prettamente d’intelligence e di
polizia?
Più cauta è stata, al momento di andare in
stampa, la reazione dell’Unione Europea perché,
tra l’altro, essa dispone di strumenti
particolarmente penetranti come il sistema
Schengen ed Europol per la lotta al terrorismo.
Nel giro dei prossimi mesi però si presenterà il
cruciale dilemma di come bilanciare le risorse tra
l’emergenza attuale e la minaccia permanente del
crimine organizzato transnazionale.
È immaginabile che, in nome dell’antiterrorismo,
nuove collaborazioni si possano sviluppare tra
Usa, Russia e Cina, mettendo in ombra alcuni
contrasti più recenti, ma sarà interessante
vedere come si riallinearanno Paesi come Iran,
Pakistan ed India, ognuno con i suoi punti forti e
deboli in materia. La posta in gioco resteranno le
reti energetiche tra Caucaso ed Asia Centrale, per
le quali è già stato versato molto denaro e
molto sangue.
Infine, nello scacchiere mediorientale, tre Paesi
potrebbero sembrare rafforzati a breve termine
nelle loro posizioni inflessibili riguardo alla
gestione interna del trinomio
politica-società-terrorismo: Algeria, Israele e
Turchia. Tuttavia, a meno di non tornare a scenari
da Guerra Fredda, potrebbero scoprire che un
maggiore coinvolgimento statunitense nell’area
potrebbe indurli a cercare soluzioni più
politiche e meno basate sulla forza.
* Alessandro Politi è analista strategico
12.09.2001
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