Esteri

Gli italiani alla guerra del petrolio

ASIA CENTRALE. PERCHÉ IL CAUCASO È DIVENTATO UNA ZONA STRATEGICA

 

I colossali giacimenti di greggio del Mar Caspio stanno scatenando gli appetiti delle multinazionali petrolifere. Una nuova corsa all'oro nero, senza esclusione di colpi, che vede in campo Russia e Stati Uniti, Iran e Turchia, e il nostro Paese in prima linea. Con un obiettivo: far parte del grande business del Duemila, da cui dipenderà il futuro energetico dell'Occidente.

di GIOVANNI PORZIO


 

Il far west del XXI secolo è una sconfinata pianura giallo ocra frustata dal vento in una selvaggia e desolata regione del Kazakstan settentrionale. I pionieri sono geologi, ingegneri, tecnici italiani, russi, scozzesi: cercatori d'oro nero armati di tubi di perforazione, trivelle e sismografi che sondano senza sosta le viscere della terra. Uomini duri, che hanno alle spalle la Libia, la Nigeria, il Mare del Nord. E che ora lavorano, 24 ore su 24, sul colossale giacimento di Karachaganak, uno dei più estesi al mondo, con riserve stimate attorno ai 500 miliardi di metri cubi di gas e 300 milioni di tonnellate di petrolio, e una produzione potenziale pari al 20 per cento del fabbisogno energetico italiano. «Se salta l'Algeria, sconvolta dal terrorismo islamico, l'alternativa per il nostro Paese è il gas di Karachaganak» dice esplicito a Panorama Giampaolo Poggiagliolmi, responsabile ad Almaty, la capitale kazaka, dell'Agip, capofila del consorzio per lo sfruttamento del «nuovo Kuwait» asiatico a cui partecipano British Gas e, con quote di minoranza, l'americana Texaco, la russa Gazprom e società locali.

Che la posta in gioco sia elevatissima lo dimostrano le recenti visite ad Almaty del presidente Oscar Luigi Scalfaro e di Romano Prodi. Ma non riguarda solo l'Italia e il Kazakstan. Dal Caucaso ai confini della Cina, enormi giacimenti sono ancora inesplorati: il solo Turkmenistan possiede le terze riserve mondiali di gas (3 mila miliardi di metri cubi) e il bacino del Mar Caspio conterrebbe fino a 200 miliardi di barili di greggio per un valore, agli attuali prezzi di mercato, di oltre 4 mila miliardi di dollari. Centosedici anni dopo la vittoria dei cosacchi contro le tribù turkmene sostenute dall'Inghilterra, settant'anni dopo quella dei bolscevichi contro l'emiro di Bukhara, l'Asia centrale è oggi teatro di una nuova edizione di quello che Rudyard Kipling definì «the Great game», il Grande gioco per la spartizione delle sfere d'influenza tra la Russia degli zar e la regina Vittoria. Un conflitto, questa volta economico e commerciale, ancor più allargato, perché il suo esito non modificherà soltanto gli equilibri geopolitici della regione, ma è destinato a segnare il futuro energetico di gran parte del pianeta. «Dal punto di vista strategico» sostiene l'ex segretario americano alla Difesa Caspar Weinberger «gli idrocarburi del Caspio sono più importanti, per l'Occidente, dell'espansione a Est della Nato».

Dopo il crollo dell'Urss, le maggiori compagnie petrolifere del mondo, nessuna esclusa, si sono lanciate in una lotta senza quartiere per conquistare le concessioni nelle repubbliche indipendenti asiatiche e accaparrarsi quote di mercato, diritti di esplorazione e di sfruttamento, appalti per la costruzione delle infrastrutture e degli oleodotti in un'area che nei prossimi decenni diventerà il principale bacino di esportazione dopo il Medio Oriente.

Come in Medio Oriente, i rischi sono evidenti: instabilità politica, guerriglie armate, crescita del fondamentalismo islamico, ostacoli burocratici, interessi mafiosi, incertezza del quadro legislativo, debolezza del sistema monetario e creditizio, corruzione, ingerenze esterne. Solo nel Caucaso, dalla Cecenia al Nagorno Karabakh, sono esplosi dopo il 1991 non meno di 25 conflitti interetnici ad alta e bassa intensità. In Tagikistan, dopo anni di guerra civile e 50 mila morti, il presidente neocomunista Imamali Rakhmanov è ancora sotto il tiro della guerriglia musulmana e dei militari nostalgici dell'Urss: il suo regime resiste solo grazie alla presenza di 15 mila soldati russi, che per sopravvivere senza paga vendono kalashnikov e lanciarazzi ai ribelli tagiki, in cambio di oppio.

In Kirghizistan e in Uzbekistan l'antica via della seta si è trasformata in un'autostrada delle armi e, soprattutto, della droga: dai monti del Pamir transitano ogni anno 4 mila tonnellate di oppio prodotte in Afghanistan (30 dollari al chilo), che passano nei bazar di Osh e Tashkent (800 dollari al chilo), per finire nei centri di smistamento di Istanbul e di Mosca (11 mila dollari al chilo), dove viene raffinato in eroina e avviato in Europa lungo la tradizionale rotta balcanica.

Le turbolenze di una delle zone più calde del pianeta, l'inaffidabilità delle controparti, le difficoltà politiche e negoziali (il contratto Agip in Kazakstan è in discussione da ben sette anni: la firma dell'accordo finale è prevista alla fine del mese) non scoraggiano però le major del petrolio, che hanno già investito e sono pronte a iniettare capitali stratosferici: il centro di gravità dell'industria mondiale degli idrocarburi è destinato a spostarsi a Oriente, verso le economie in rapida espansione della Cina e dei paesi del sud-est asiatico, che a partire dal 2015 saranno importatori netti di gas e di greggio. La domanda internazionale subirà una decisa impennata. L'affare è troppo grosso per lasciarselo scappare.

Nel far west di Aksai, una città di spettrali edifici di cemento costruiti dai bulgari e dai tedeschi della Ddr ai margini del giacimento di Karachaganak (scoperto dai sovietici nel 1984), l'inverno è alle porte. Al tramonto le ombre delle ciminiere si allungano a dismisura sulla steppa color malva e il cielo s'ingolfa di nubi scure, sospinte dal vento gelido della Siberia. «Qui il freddo arriva all'improvviso» racconta Jarca, 36 anni, tra i primi pionieri sbarcati ad Aksai dalla Cecoslovacchia e ora responsabile logistico del Czech camp, il grande campo di baracche di legno, ormai quasi disabitato, che ospita anche i tecnici italiani. «La temperatura scende di colpo: fra un paio di settimane saremo a &endash;20°, poi ancora più giù, fino a &endash;40° e oltre. Ma io amo questa terra, i suoi spazi immensi, l'aria tersa e trasparente, l'inverno interminabile: la steppa è di ghiaccio, gli stagni e le stelle sono di ghiaccio. Per pescare dobbiamo perforare la superficie del fiume. Passiamo la notte attorno ai fuochi, bevendo vodka».

David, scozzese, avvinghiato a una ragazza kazaka al Tesko, l'unico bar del campo e dell'intera città, non condivide l'entusiamo di Jarka: «È un posto schifoso, per un lavoro schifoso» dice. «Ma è pagato bene. Mi occupo della riabilitazione dei pozzi abbandonati dai russi, e ogni 4 settimane vado a casa per un mese».

Nei villaggi dei dintorni i contadini osservano il volo dei corvi, che annuncia le prime gelate. Le donne preparano conserve di cavoli e di cetrioli. Gli uomini riparano porte e finestre, isolano i tetti delle basse abitazioni con strati di canne, sterco e catrame, fanno scorte di legna, carbone, mattonelle di carta bagnata e pressata da ardere nelle stufe. Pastori a cavallo conducono greggi di pecore agli ultimi pascoli, tra gli scheletri dei tralicci fuori uso e i camini in fiamme dei pozzi in attività. In questa remota periferia dell'ex impero comunista, le cui vestigia sono una solitaria statua dorata di Lenin nel capoluogo amministrativo di Burlin, il passaggio di qualche sidecar Ural e l'ubiqua presenza di poliziotti d'ogni tipo, la manna petrolifera è ancora una promessa aleatoria. «Da sette anni» spiega il responsabile operativo dell'Agip Aldo Iarrapino «siamo ai blocchi di partenza, in attesa di siglare quell'accordo definitivo che ora sembra imminente. Stiamo spendendo una fortuna solo per mantenere gli attuali, bassissimi livelli di produzione e per risanare le vecchie strutture sovietiche. Ma sono già pronti 2 miliardi di dollari in investimenti a partire dal prossimo gennaio».

Gli stipendi pagati dall'Agip (le società kazake versano i magri salari agli impiegati ogni sei mesi) hanno ridato fiato al piccolo commercio: bancarelle dove si trovano merce di contrabbando (il confine russo è a 38 chilometri) e i prodotti di un'economia di sussistenza, pane, patate, cipolle, carne, sapone, vestiti usati. Ma la miseria e la disoccupazione colpiscono la stragrande maggioranza dei 30 mila abitanti della futura «capitale del gas» dove, paradossalmente, la luce elettrica, il riscaldamento e l'acqua corrente funzionano due ore al giorno.

Perché l'energia continua ad arrivare dalle centrali russe di Orenburg, e i russi non hanno alcun interesse ad aiutare i «secessionisti» kazaki che hanno scippato a Mosca l'Eldorado della steppa. Allora, nelle campagne la vita scorre come ai tempi degli zar, come nel romanzo di Pus*kin La figlia del capitano, con i brindisi all'acquavite per i matrimoni, le danze con la fisarmonica e i carri del fieno trainati dai buoi. Mentre tra i metafisici e squallidi casermoni di Aksai, accanto alle limousine dei notabili e dei mafiosi locali con i denti d'oro, bambini di 7-8 anni che si chiamano Andrei, Ivan, Ruslan e sono un incrocio di russi, bulgari, mongoli, tedeschi e kazaki, si bruciano il cervello inalando vapori di kerosene e di colla da calzolaio da bottiglie e sacchetti di plastica raccolti nella spazzatura.

A poca distanza da Aksai, dalla steppa si sprigionano lingue di fuoco e dense nuvole di fumo nero. «È la fiaccola di scarico» spiega Giuseppe Faracci, supervisore dell'Unità n. 3, l'impianto di produzione di gas e condensato gestito dall'Agip. «Il gas affluisce da una trentina di pozzi, viene separato, stabilizzato e immesso in cinque pipeline dirette a Orenburg, dove viene trattato e rispedito in Kazakstan. È così che la Russia tiene in pugno l'economia della regione».

È un gas pericoloso, ad alto contenuto di acido solforico, e nell'Unità si circola con maschere protettive e rivelatori elettronici: un'esposizione superiore ai dieci minuti è sempre mortale. Accanto all'impianto dell'Agip gli israeliani stanno costruendo una raffineria. A meno di un chilometro la torre di perforazione della Saipem sta effettuando un «work over» a 4.500 metri di profondità: i tecnici smantellano i vecchi tubi e li sostituiscono con materiali più adeguati. «Tutto è pronto per il grande balzo» conferma Anatoli Takizbaev, presidente della società kazaka per il gas del Karachaganak. «Ma il vero problema non è estrarre il gas e il petrolio: è farlo arrivare sul mercato internazionale».

I paesi produttori della regione non hanno sbocchi sul mare e tutte le pipeline esistenti transitano in territorio russo: sono obsolete, hanno portata insufficiente, attraversano zone insicure (come la Cecenia) e, soprattutto, consentono a Mosca di pretendere esose royalty e di mantenere un monopolio sulla commercializzazione degli idrocarburi del bacino del Caspio che né le nuove repubbliche indipendenti dell'Asia centrale né le compagnie e i governi occidentali sono disposte a perpetuare. Le soluzioni alternative, già in fase di realizzazione o in progetto, seguono tre direttrici (vedere disegno a pagina 140). La prima è a rotta europea, in competizione con la pipeline russa che sfocia a Novorossijsk, sul Mar Nero, con le varianti Baku-Supsa, in Georgia, e Baku-Ceyhan, in Turchia. La «via turca» offre il vantaggio di un porto già attrezzato per le superpetroliere, evitando il passaggio delle navi dallo stretto del Bosforo, dove il transito di oltre 50 mila mercantili all'anno rischia di provocare una catastrofe ecologica; controindicazione, l'incognita del terrorismo curdo. La seconda direttrice è quella iraniana, tecnicamente la più semplice e razionale, ma avversata da Washington per motivi politici (l'embargo contro il regime degli ayatollah) e strategici (il Medio Oriente avrebbe in mano le principali fonti energetiche del pianeta): se Bill Clinton, per aggirare il monopolio russo, ha approvato la costruzione di un gasdotto dal Turkmenistan alla Turchia via Iran, è invece insorto contro la francese Total, rea di avere concluso con Teheran un contratto di 2 miliardi di dollari per lo sfruttamento del giacimento di South Pars, nel Golfo persico.

 

Caspio: è un mare o un lago?

Il terzo asse di sviluppo, quello asiatico, prevede due pipeline: una verso il Pakistan, per il momento bloccata dalla guerra civile in Afghanistan; e il colossale progetto di un network di condutture che, dal giacimento kazako di Tengiz (9 miliardi di barili) e dalle riserve di gas del Turkmenistan dovrebbe raggiungere la Cina e il Giappone. Il 24 settembre, ad Almaty, il primo ministro cinese Li Peng ha firmato un primo accordo del valore di 9,5 miliardi di dollari.

Nel Grande gioco sono comunque gli Stati Uniti ad avere il ruolo di protagonisti. Mentre con le sanzioni economiche tengono a bada due giganti dell'Opec come Iran e Iraq, il cui ritorno sui mercati farebbe crollare il prezzo del barile di greggio, con una decisa politica di investimenti e di pressioni diplomatiche hanno di fatto già conquistato le nuove vie del petrolio asiatico. «Anche qui in Azerbaigian gli americani si sono presi i pozzi migliori e le zone di prospezione più vaste e promettenti» avverte Ian Wilson, un «oilman» canadese che infila chilometri di tubi in fondo al Caspio a bordo della piattaforma di Dada Gorgud, un colosso d'acciaio costruito in Finlandia e trasportato a pezzi a Baku lungo il Volga e i canali della Russia. I consorzi internazionali, in cui l'Italia è presente con l'Agip, hanno già investito 22 miliardi di dollari nei bassi fondali del Caspio: un mare che russi e iraniani, contrariamente ad azeri e turkmeni, considerano un lago. Non è una divergenza di poco conto, perché se il Caspio è un lago dev'essere sfruttato in parti uguali dai paesi rivieraschi a prescindere dall'estensione delle rispettive acque territoriali; se è un mare, il diritto internazionale stabilisce che sia suddiviso in base alla lunghezza delle frontiere terrestri. La controversia, assieme ai diritti di sfruttamento delle principali riserve off-shore, resta in sospeso. Ma intanto la febbre del petrolio ha contagiato Baku, la «città nera» degli zoroastriani adoratori del fuoco che, scriveva un viaggiatore persiano del XIII secolo, «arde come una fiamma» ed era già nota a Marco Polo per la sua produzione di nafta, «portentoso medicamento per le dermatiti dei cammelli».

Accanto ai palazzi liberty dei Nobel e dei Rockefeller, che alla fine dell'Ottocento crearono a Baku la più moderna industria petrolifera del mondo, aprono alberghi a cinque stelle frequentati da spie, diplomatici, emissari delle multinazionali, uomini d'affari turchi, francesi, texani, giapponesi, iraniani. Avventurieri e contrabbandieri d'oro e di caviale s'incontrano nei casinò, nei locali notturni della periferia, tra le macerie dei kombinat sovietici, tralicci, cavalletti, cisterne arrugginite, pozzi che vomitano petrolio nella sabbia, tubi che si protendono su pontili e palafitte per chilometri sulla superficie oleosa e grigia del mare. All'orizzonte, oltre le carcasse semiaffondate delle petroliere sovietiche, si scorgono i profili e le luci delle piattaforme in perenne attività: la corsa all'oro nero è già ricominciata.

(17.10.97)


C'era una volta il Mossad

ISRAELE. DIETRO LA CRISI DEL SERVIZIO SEGRETO FONDATO DA BEN GURION

 

Per mezzo mondo era un mito: efficiente, spietato, subdolo.Ma il fallito attentato contro il capo di Hamas in Giordania ha dato un duro colpo alla leggenda. E ora la crisi dell'intelligence di Gerusalemme potrebbe coinvolgere anche Netanyahu.

di FIAMMA NIRENSTEIN

 

Di Danny Yatom, capo del Mossad dal giugno 1996, amico di Shimon Peres, il primo di cui sia noto ai media e al mondo il nome e il cognome, piccolo e modesto, si dice che sia «diritto come una freccia». Certo è che in questi giorni, insieme a Benjamin Netanyahu, è l'uomo più criticato d'Israele. Si dimette, non si dimette? «Certo il fallimento di Amman è il peggiore della storia dei servizi segreti» dice il maggiore esperto del Mossad, Yossi Melman, autore di Le spie imperfette. «Ha distrutto la fiducia di re Hussein di Giordania; ha consegnato una vittoria a Hamas; ha gettato il Mossad nella polvere».

Giorni fa, con una prassi assolutamente fuori da ogni tradizione, Yatom ha fatto squillare il telefono di alcuni giornalisti, e per cercare di lavarsi la faccia ha raccontato il metodo con cui è stata presa la decisione, poi rivelatasi un disastro operativo e politico, di eliminare in Giordania Khaled Mashaal, uno dei capi di Hamas. Un metodo collaudato da un milione di operazioni che hanno costruito la leggenda dei servizi segreti più efficienti del mondo, i più gelidi, i più subdoli, i più precisi nel momento in cui scelgono un obiettivo e lo conseguono senza sbavature.

Come quando nell'88, in una notte profumata di gelsomini, Abu Jihad, il vice di Arafat, fu ucciso dentro il suo studio, a Tunisi, al quartier generale dell'Olp. La moglie e i due figli non furono toccati; la fuga fu pulita e senza perdite mentre un aereo con a bordo lo stato maggiore del Mossad incrociava nel cielo del corridoio italiano. O come quando è stato distrutto il reattore nucleare iracheno con un bombardamento millimetrico nei pressi di Baghdad, dopo mesi di informazioni spremute da uno scienziato iracheno a Londra a colpi di false amicizie, night club, biondone e dollari. O come quando fu rapito Adolf Eichmann; o furono liberati 106 ostaggi all'aeroporto di Entebbe; o furono rapiti o uccisi in casa loro molti capi degli hezbollah; o a uno a uno furono assassinati per ordine di Golda Meir tutti i responsabili della strage degli 11 atleti israeliani a Monaco... Fino al '95, quando Yitzhak Rabin ordinò l'eliminazione del leader della Jihad islamica Fathi Shakaki a Malta, e Peres, nel '96, quella dell'imprendibile «ingegnere» del terrorismo Yehia Ayash, con l'esplosione del suo telefonino.

In quasi tutti i casi, il processo decisionale è questo: il primo ministro, che è anche il capo ultimo del Mossad, individua una ragione politicamente indispensabile per agire. Ai tempi di Peres e Rabin, per esempio, gli attacchi agli autobus; oggi gli attacchi, sempre da parte dei terroristi suicidi di Hamas, nel centro di Gerusalemme. Il Mossad riceve l'incarico di studiare la fattibilità della vendetta-deterrenza. Se ne occupa una commissione che, l'ultima volta, ha stabilito che Mashaal fosse un obiettivo raggiungibile.

Mashaal è il responsabile di Hamas per tutti i rapporti con gli hezbollah, siriani e iraniani. È giovane ed è già il numero tre del movimento dopo lo sceicco Ahmad Yassin e Abu Marzuk, intoccabile perché è stato Israele stesso a chiedere agli Stati Uniti di estradarlo in Giordania. Yatom segue la prassi. Il comando per le «operazioni» scelte studia il terreno, non vede alcun ostacolo al fatto che l'ufficio di Mashaal sia ad Amman, sebbene la Giordania sia l'unico paese davvero in pace con Israele. Parte la procedura: il piano lo vaglia il Varash, ovvero l'insieme dei capi dei servizi; poi tocca alla «commissione X» dove il premier e altri ministri, fra cui certo quello della Difesa, danno l'ok, oppure no. Per esempio, Ezer Weizmann (oggi presidente della repubblica) disse «no» all'assassinio di Abu Jihad. Ma alla fine, decide il premier. Yatom ha detto ai giornalisti amici che tutti quelli che dovevano esserlo erano ben consapevoli del piano.

Ed ecco dunque che scatta «Kidon» (baionetta), unità di combattenti che opera all'estero (ne esistono tre: una per Italia, Austria e Germania; una per il resto del mondo occidentale e una per i paesi arabi). Due uomini, attesi da altri tre in macchina, alle 7.15 del 25 settembre bloccano Mashaal accompagnato dai tre figli, gli iniettano in un orecchio una sostanza chimica destinata a svanire rapidamente e con effetti letali. E qui cominciano i guai: perché la guardia del corpo, che non era stata neutralizzata, li insegue nella loro fuga in macchina? Perché i due scendono dopo qualche chilometro per cambiare vettura, e qui la guardia del corpo, semplicemente con l'aiuto di un poliziotto, li prende? Perché gli altri membri di Kidon presenti ad Amman non trovano di meglio che rifugiarsi nell'ambasciata? E prima ancora, come mai un messaggio che re Hussein aveva spedito a Netanyahu due giorni in anticipo sull'attentato era rimasto ignorato, con la sua notizia bomba che Hamas voleva trattare una tregua? Perché gli agenti si fanno beccare con dei passaporti canadesi falsi, creando anche una crisi diplomatica con il Canada che reagisce furiosamente?

Da qui il disastro: la liberazione richiesta da re Hussein del grande capo di Hamas, lo sceicco Yassin, e di altre decine (ancora non si sa quanti) prigionieri politici in cambio dei due uomini del Mossad; da qui l'offesa di Yasser Arafat perché si trova in casa un leader di Hamas rafforzato e festante senza nemmeno potere rivendicare il merito di averne trattato lui la liberazione; da qui un Mashaal guarito dall'antidoto recapitato ad Amman da Gerusalemme di volata; e di qui la caduta di un piano di guerriglia anti Hamas che prometteva di essere ad ampio raggio. «Era già sparito, da Gaza, Ibrahim Maqadmeh» spiega Melman «e dall'uso del nuovo veleno si vede che era programmata una serie di assassinii senza lasciare tracce, tesi a gettare i capi di Hamas, da far cadere a uno a uno, nel panico. Ma ormai l'arma e il piano sono stati scoperti».

Dunque che cosa è successo? A che cosa si deve la crisi del Mossad? Intanto la guida politica è stata nervosa, tesa a ottenere un risultato troppo immediato. Voci dal Mossad dicono che Netanyahu non ha ascoltato troppi particolari: voleva l'operazione e basta. «La crisi interna è seria, e tuttavia non duratura» valuta Benny Morris, uno storico di primo piano, autore di Le guerre segrete d'Israele. Una storia dei servizi. «I veri errori del passato, come la scoperta della spia israeliana Jonathan Pollard in America, o la mancata identificazione di segnali di guerra prima dell'attacco egiziano del Kippur 1973, non hanno lasciato segno: il Mossad recupera sempre la sua immagine di efficienza».

I motivi della crisi sono legati profondamente alla società israeliana. I ragazzi del Mossad, dice Melman, «anche se determinati e ben preparati, vivono ormai in una società molle, propensa più alla pace e al consumo che alla guerra. È difficile essere macchine per uccidere e restare dei bravi, colti studenti di Tel Aviv. Sarebbe meglio che i compiti duri fossero lasciati alle unità combattenti dell'esercito, e il Mossad tornasse ai compiti attribuitigli da Ben Gurion: informazioni, analisi, consigli».

Un segno dei tempi è il fatto che il nome dei capi del Mossad non sia più segreto: una società di 5 milioni di abitanti con migliaia di giornalisti agguerritissimi, e tutti di opposizione, non mantiene a lungo un segreto. La censura non esiste più. E Yatom è noto per essere rispettoso delle leggi (per questo inviso alla struttura), un burocrate che non ammette i guizzi inventivi che hanno sempre caratterizzato le azioni dei suoi. La legge, inoltre, è diventata più severa e sorveglia che non ci siano violenze, torture, uccisioni gratuite. Può il Mossad lavorare, o persino esistere, in condizioni tanto difficili, e in più con una guida politica ansiosa di risultati immediati?

 

(17.10.97)


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