Opinioni
Il
Sud-Est europeo sotto il segno della Nato
di Paul-Marie de La Gorce *
Nessuno si sogna più di contestarlo.
La guerra in Kosovo è figlia del disfacimento della Jugoslavia. Ma il
seguito ha mostrato che la guerra mirava anche a istituire un nuovo ordine
strategico in tutto il Sud-Est europeo. E' difficile stabilire quali
fossero in origine gli obiettivi strategici degli Stati uniti. All'inizio
dominava il desiderio di mantenere l'unità della Jugoslavia, espresso fra
l'altro in una lettera del presidente George Bush al primo ministro
jugoslavo, Ante Markovic, nel marzo 1991; un desiderio condiviso dagli
altri vincitori della seconda guerra mondiale (Russia, Gran Bretagna e
Francia). In un secondo tempo è entrata in gioco la politica tedesca, che
ha esercitato una influenza preponderante: Bonn si è schierata
immediatamente a favore dello smantellamento della vecchia Federazione
jugoslava e del riconoscimento degli stati che ne facevano secessione,
secondo i loro confini interni.
Là risiede la fonte di tutte le tragedie successive, tanto era evidente
che una grande parte della popolazione serbi in Croazia, croati e serbi in
Bosnia non avrebbero accettato tale evoluzione. Si è aggiunta poi
l'influenza del Vaticano, il quale auspicava l'emergere di due nuovi stati
cattolici, la Croazia e la Slovenia. Infine, nel mondo politico americano,
si è mobilitata una lobby croata molto attiva.
Ma, più d'ogni altra cosa, Washington ha voluto ostensibilmente difendere
la causa della comunità musulmana di Bosnia e, poco dopo, l'esistenza di
uno stato musulmano bosniaco. Il punto era dimostrare che gli Stati uniti
potevano accettare paesi a predominanza islamica, mentre al tempo stesso
si opponevano ad alcuni stati musulmani come la Libia, il Sudan, l'Iraq o
l'Iran. Ma nel corso della crisi cresceva una preoccupazione di
prim'ordine: impedire alla Russia di esercitare la sua influenza in questa
parte d'Europa, la quale poteva conferirle un nuovo protagonismo nel
continente.
La logica del braccio di ferro aveva infatti portato la Jugoslavia, o quel
che ne restava, in pratica la dirigenza serba, a ricercare il sostegno di
Mosca. Non è vero che questa fosse la scelta iniziale del Cremlino.
Contrariamente a ciò che spesso si dice, tale sostegno non aveva alla
spalle una consolidata tradizione storica: per quanto la Russia abbia
sempre guardato con interesse ai Balcani, essa ha sempre privilegiato i
rapporti con la Bulgaria rispetto a ogni altra nazione balcanica.
D'altra parte questa non era neppure la scelta di Belgrado. Per un certo
periodo, quando l'economia jugoslava era impegnata nella
"transizione", il presidente Slobodan Milosevic fu uno degli
interlocutori più cooperativi del Fondo monetario internazionale e,
indirettamente, dei governi occidentali (1).
Più tardi, la dirigenza serba, per ottenere l'indulgenza se non
l'appoggio dei paesi occidentali, ha fatto appello come presidente della
Federazione jugoslava allo scrittore Dobrica Cosic, figura emblematica
della resistenza al totalitarismo. Poi, come primo ministro, a Milan Panic,
il quale altri non era che un uomo d'affari americano tornato per
l'occasione a Belgrado.
Tutto inutile: non appena gli stati europei, istigati dalla Germania, e
gli Stati uniti si impegnarono al fianco delle repubbliche separatiste, il
governo di Belgrado si convinse che poteva contare soltanto sul sostegno
della Russia. E per tenere quest'ultima lontana dalla regione e impedire
che vi ricostruisse una zona d'influenza, gli Stati uniti sono diventati
nemici dei serbi. La dialettica dei conflitti, qui come altrove, ha
prevalso sulle intenzioni iniziali dei protagonisti e su tutti i calcoli.
Gli obiettivi reali della politica americana e la volontà di Washington
di creare nei Balcani un nuovo ordine strategico sono apparsi evidenti fin
dopo la conclusione degli accordi di Dayton del novembre 1995. Stando alla
lettera di questi ultimi, era esplicitamente prevista la creazione di
legami particolari tra la Repubblica serba di Bosnia e ciò che rimaneva
della Jugoslavia, così come tra la parte croata e la Croazia stessa, al
fine di instaurare rapporti flessibili tra tutti i territori coinvolti nel
conflitto bosniaco. Ebbene, in nessun momento ci si è impegnati in questa
direzione. E le sanzioni contro la Jugoslavia, di cui era prevista la
revoca, furono in buona parte mantenute.
Gli obiettivi strategici degli Stati uniti e la volontà di emarginare la
Russia hanno trovato conferma nella guerra in Kosovo, scatenata dalla
Nato, senza l'avallo delle Nazioni unite e della Russia (2).
Ma fin dal suo esordio la guerra, che gli esperti occidentali pensavano si
sarebbe conclusa immediatamente con la capitolazione jugoslava, ha
provocato nel campo atlantico, in particolare tra i responsabili
americani, una crisi di fiducia. Basti pensare al clima di tetraggine che
si respirava alla cerimonia per il cinquantenario della Nato. La
dichiarazione finale ha riconosciuto persino il ruolo che il Consiglio di
sicurezza avrebbe dovuto svolgere nella crisi e includeva questa
affermazione assai significativa: "La Russia ha una responsabilità
assimilabile a quella delle Nazioni unite e un ruolo importante da
svolgere nella ricerca di una soluzione per il conflitto in Kosovo".
In pratica si è fatto di tutto per impedire alla Russia di intervenire
sul posto e dare il suo importante contributo per sciogliere la crisi.
Quando, a sorpresa, un battaglione di fanteria russa, proveniente dalla
Bosnia, è arrivato all'aeroporto di Pristina il 12 giugno 1999, si è
fatto in modo che non ricevesse rinforzi. Senza indugio, la diplomazia
americana si è mobilitata presso i governi rumeno e bulgaro affinché
vietassero alla Russia il sorvolo del loro spazio aereo e il transito dal
loro territorio.
Questa mossa è stata decisiva e al tempo stesso assai sintomatica. Ha
bloccato la presenza militare russa in Kosovo al suo livello più basso e
ha mostrato che la Romania e, in una certa misura, la Bulgaria si
comportavano già come se fossero membri dell'Alleanza atlantica. Le
risposte dei loro governi sono state molto significative, tanto più che
nei rispettivi paesi l'opinione pubblica, secondo i sondaggi, parteggiava
decisamente per la Jugoslavia ed era contro i bombardamenti della Nato.
La durata della guerra in Kosovo, inaspettatamente lunga, ha permesso alla
diplomazia russa di compiere comunque una mediazione, sfociata
nell'accordo di Kumanovo, alla frontiera macedone, il 9 giugno 1999.
Contrariamente alle proposte di Rambouillet, questo prevedeva
l'occupazione del Kosovo da parte di forze poste sotto l'egida dell'Onu,
in cui la Nato avrebbe avuto una parte "sostanziale" il che
apriva la strada a una partecipazione russa.
La reazione americana all'accordo, sottoscritto dai governi occidentali,
illustra bene il disegno strategico di Washington. Lo stato maggiore
atlantico a Bruxelles annunciò la nomina del generale Michael Jackson
alla testa delle forze d'occupazione e la ripartizione del Kosovo in
cinque zone sotto la responsabilità di cinque paesi membri della Nato:
Stati uniti, Gran Bretagna, Germania, Italia e Stati uniti. A quel punto
la Russia reagì con vigore; il proprio attaché militare a Belgrado
avvertì che tali disposizioni non erano affatto conformi alla lettera e
allo spirito degli accordi del 2 giugno 1999. Si avviò allora un
negoziato supplementare a Mosca e a Colonia, che si concluse con
l'inserimento del contingente russo in una zona sotto controllo
occidentale.
Eppure, da quel momento i dirigenti occidentali, soprattutto gli
americani, avrebbero interpretato molto liberamente la lettera e lo
spirito degli accordi. Questi ultimi parlavano dei "principi di
sovranità e d'integrità territoriale della Repubblica federale di
Jugoslavia": ma di essi non c'è più traccia, dato che le autorità
create in seguito a tali accordi, con il sostegno sul terreno della Nato,
hanno promulgato, senza alcun contatto con Belgrado, nuove leggi che
separano radicalmente il Kosovo dal resto della Jugoslavia; tra queste
leggi, un nuovo codice di procedura penale e l'adozione del marco tedesco
quale unica moneta in circolazione nel territorio. D'altra parte, mentre
gli accordi prevedevano che la Nato avrebbe fornito "una
partecipazione sostanziale" alla "presenza internazionale di
sicurezza" in Kosovo, l'organizzazione è di fatto diventata la sola
autorità militare e la partecipazione di ogni altro contingente dipende
dal suo volere.
Così si è disegnato, attraverso le varie crisi jugoslave, un nuovo
statuto strategico dei Balcani. Col favore della guerra in Bosnia, la
presenza militare della Nato in questo paese, garantita dalle Nazioni
unite e posta sotto un comando dell'Alleanza, è ormai permanente. Allo
scopo di vigilare sul rispetto dell'embargo contro la Jugoslavia, gli
Stati uniti avevano ottenuto dal governo ungherese il permesso di
installare un'antenna militare e di gestirla in piena autonomia.
Attualmente l'integrazione dell'Ungheria nel sistema atlantico va ben
oltre, poiché il paese ha aderito all'Alleanza e quindi alla sua
organizzazione politica e militare. Nella stessa occasione, un' antenna
militare americana era stata installata in Albania e un'altra in
Macedonia.
Albania e Macedonia hanno servito da retrovia per le forze della Nato
dispiegate di fronte alla Jugoslavia e sarebbero state impiegate, se ce ne
fosse stato bisogno, per scatenare una invasione da terra di grande
portata, anche se nessuno dei due paesi fa ancora parte dell'alleanza
atlantica. Il territorio dell'Albania ha dato spessore strategico alle
azioni dell'Esercito di liberazione del Kosovo (Uck) durante il conflitto.
Quanto alla Macedonia, dove si trovavano alcuni dei più importanti
dispositivi di comando della Nato, l'accesso al paese era garantito, per
ogni evenienza, dall'appartenenza della Grecia e, più indietro, della
Turchia, all'organizzazione atlantica e dalle posizioni e dotazioni
militari di cui gli Stati uniti dispongono nel territorio.
La guerra in Kosovo ha quindi perfezionato l'influenza militare della Nato
nel Sud-Est dell'Europa. L'occupazione della provincia è ora un dato
acquisito e duraturo. E, fatto senza precedenti, l'organizzazione militare
dell'Alleanza atlantica esercita apertamente una sorta di protettorato sul
territorio con l'avallo del resto delle Nazioni unite.
Se i russi sono presenti in Kosovo è perché hanno condotto un'azione a
sorpresa, subito ostacolata e circoscritta per la pressione dei governi
dei paesi dell'Alleanza. Tutto lascia supporre che questi ultimi
manterranno a lungo le loro truppe sul terreno, sia invocando la necessità
di separare il Kosovo dal resto della Jugoslavia, sia per non lasciare se
ci tengono al rispetto formale delle frontiere internazionali il controllo
del territorio a una autorità esclusivamente albanese che potrebbe
bruciare le tappe della riunificazione con l'Albania.
Un quadro chiaro della situazione emerge dai propositi espressi dall'ex
ambasciatore degli Stati uniti presso la Nato, Robert E. Hunter, oggi
consulente della Rand Corporation: il Kosovo "costituisce la porta
d'ingresso in regioni d'interesse vitale per gli occidentali il conflitto
arabo-israeliano, l'Iraq e l'Iran, l'Afghanistan, il Mar Caspio e la
Transcaucasia. La stabilità dell'Europa del Sud-Est è essenziale per
proteggere gli interessi occidentali e ridurre i pericoli provenienti da
territori ancora più a est (3)".
Dalla guerra fredda al dopo-guerra fredda, dallo sfaldamento del blocco
orientale al nuovo status politico e strategico dei Balcani, la logica
degli eventi è chiara. L'allargamento della Nato ai paesi dell'Est
europeo ne costituisce il proseguimento.
La strategia americana è dominata da una preoccupazione: impedire
l'emergere di una potenza mondiale in grado di contestare la supremazia
assoluta degli Stati uniti, come fu l'Unione sovietica. Questa ossessione
ha avuto come bersaglio la Russia. "Un'alleanza allargata, ha scritto
Zbigniew Brzezinski, ex consigliere per la sicurezza nazionale del
presidente Jimmy Carter, offre una copertura contro il rischio
improbabile, ma reale, che la Russia torni ai comportamenti del passato.
Essa deve anche contribuire all'obiettivo che questo rischio non si
traduca in realtà (4)".
La stessa logica può ispirare, del resto, medesime reazioni in altri
teatri d'operazione. Si guardi all'Asia centrale e alla regione del
Caucaso, che una mozione del Congresso nel 1997 ha qualificato "zone
d'interesse nazionale degli Stati uniti". Lo testimonia il conflitto
divampato in Daghestan e in Cecenia, una regione che Zbigniew Brzezinski
chiama "i Balcani dell'Eurasia", e dove è cominciata forse una
prova di forza di lunga durata.
Dieci anni dopo la caduta del muro di Berlino, la guerra in Kosovo
annuncia la fine del dopo-guerra fredda e l'inizio di una nuova fase di
scontri.
note:
* Giornalista, autore, fra l'altro, di De Gaulle, Perrin, 2000.
(1)
Susan Woodward, Balkan Tragedy, Chaos and Dissolution after the Cold War,
Brookings Institution, 1995. François Chesnais, Tania Noctiummes, Jean
Pierre Page, Réflexions sur la guerre en Yougoslavie, l'Esprit frappeur,
Parigi, 1999.
(2)
Paul-Marie de La Gorce, "Storia segreta dei negoziati di Rambouillet",
Le Monde diplomatique/il manifesto, maggio 1999; Eric Rouleau, "Errements
de la diplomatie française", Le Monde diplomatique, dicembre 1999.
(3)
Washington Post, 21 aprile 1999.
(4)
Citato da Gilbert Achcar, La nouvelle guerre froide, PUF, Parigi, 1999,
p.40.
(Traduzione di R.L.)
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