C'era una volta un supereroe..........


IL CASO BERLUSCONI - LODO MONDADORI


Secondo missile del "pool" milanese al Cavaliere - che ha minacciato rappresaglie politiche dopo l'accusa di corruzione per il "lodo Mondadori" Berlusconi indagato per la vendita della Sme Aveva appena detto «affonderò la Bicamerale se non fermate il pool».
Reazioni: un ricatto di FABRIZIO DI FERDINANDO



La guerra tra Berlusconi e il pool milanese si fa cruenta, i giudici rispondono colpo su colpo al Cavaliere che aveva minacciato di affondare le riforme e quindi il governo, se questo non manderà un'ispezione al pool di Milano (leggi se non fermerà il pool) dopo aver appreso di essere indagato per corruzione per il "lodo Mondadori". Dopo il primo siluro il pool colpisce il Cavaliere con un altro missile: Silvio Berlusconi, Cesare Previti, Renato Squillante e Attilio Pacifico sono indagati per concorso in corruzione anche nell'inchiesta sulla vendita della Sme, la holding alimentare dell'Iri. Anche qui l'ipotesi di reato è che gli indagati (gli stessi del Lodo) avrebbero «aggiustato» la sentenza del tribunale civile di Roma che annullò l'accordo tra Iri e Cir di De Benedetti per la vendita della Sme. La Sme doveva essere acquistata nell'85 dalla Buitoni (gruppo Cir) in base a un accordo tra l'allora presidente dell'Iri, Prodi e De Benedetti. Ma una cordata alternativa (composta dai gruppi Fininvest, Barilla e Ferrero e «sponsorizzata», secondo alcuni dall'allora segretario del Psi Craxi, si mise in lizza e una sentenza del giudice romano Filippo Verde diede torto a De Benedetti favorendo così la seconda cordata. Che tuttavia non riuscì a definire l'acquisto della Sme, che fu venduta smembrata. All'avvocato Pacifico il Pm Ilda Boccassini ha contestato un passaggio di un miliardo e 800 milioni che per l'accusa, provenivano da Pietro Barilla e, dopo essere transitati su un conto svizzero di Cesare Previti, finirono a Pacifico. Quindici giorni dopo 100 milioni andarono a Squillante.Una nuova bordata giudiziaria destinata a ripercuotersi in modo devastante nelle vicende politiche, dopo che la minaccia di Berlusconi di subordinare l'esito delle riforme allo stop ai giudici milanesi aveva suscitato un vespaio. Non è tollerabile - è stato il commento unanime, un ricatto politico per questioni personali. Un ricatto per D'Alema, che nella Bicamerale ha impegnato tutto il suo prestigio politico, ma anche a Prodi perché - checché ne dica Veltroni- se cade la Bicamerale, cade anche il governo, come ha avvertito il leader dei Popolari, Marini. Per il Verde Paissan «un'ispezione richiesta da un partito è addirittura inconcepibile». La senatrice Ersilia Salvato di Rifondazione parla di «ricatto inaccettabile, il ministro della giustizia Flick afferma che non ci può essere alcuna connessione tra rriforme e vicende giudiziarie private. Anche ai magistrati arriva un coro di proteste. «E' assolutamente singolare - dice il Procuratore aggiunto di Torino, Marcello Maddalena - che se una persona che svolge un'attività politica viene sottoposto a un procedimento penale, subito debbano saltare i provvedimenti legislativi». E non si è spenta ancora l'eco delle prime polemiche che già arriva il secondo boato. Per Gasparri di An, si tratta di una manovra politica operata per mano dei giudici in vista delle elezioni del 24 maggio; Fini si rifiuta di conmmentare prima di conoscere meglio i fatti, come De Bendetti che ostenta il silenzio del vincitore. Previsti parla invece di «attività persecutoria senza limite» e «si prepara a rendere di pubblico dominio "l'enorme numero di illegalità" che ritiene siano state commesse ai suoi danni.



Ma la storia non finì qui, ed ha avuto un prosieguo qualche mese fa: Finisce l'era di Mani pulite. Il proscioglimento completo di Silvio Berlusconi dalle accuse di corruzione per il "Lodo Mondadori" segna la sconfitta più grave per la Procura di Milano da dieci anni in qua. Il cavaliere trionfa: "Era l'unica sentenza possibile". E si vede la strada spianata per le elezioni del 2001 

BRUNO PERINI - MILANO 


" Prosciolti perché il fatto non sussiste". Il decreto firmato dal giudice milanese Rosario Lupo si conclude con questa formula di rito. E chiude forse per sempre l'epoca di tangentopoli. L'elenco delle persone prosciolte, infatti, non è composto da uomini qualunque, e la vicenda di cui si parla non è una storia qualsiasi. Si tratta di Silvio Berlusconi, Cesare Previti, degli avvocati civilisti Attilio Pacifico e Giovanni Acampora e dell'ex giudice Vittorio Metta, prosciolti da un'accusa gravissima: concorso in corruzione di atti giudiziari nell'ambito del procedimento sul lodo Mondadori.
Si dice che nell'udire quella parola magica, "proscioglimento", Silvio Berlusconi abbia sfoderato uno dei suoi interminabili sorrisi. Adesso il leader di Forza Italia non potrà più dire che a Milano i giudici sono asserviti alla Procura. Anzi, a questo punto bisogna attendersi dal cavaliere un elogio a reti unificate della magistratura italiana. Il primo elogio arriva, comunque, da un legale di Berlusconi poco dopo la notizia: "Abbiamo trovato un giudice vero. Questo è il dato sorprendente", commenta l'avvocato Niccolò Ghidini. "E' una sentenza assolutamente conforme al contenuto del fascicolo, l'unica che un giudice vero poteva prendere".
Una vittoria per Berlusconi e una sconfitta la Procura? "Nei processi non si vince e non si perde. Qui c'è un giudice che finalmente ha letto le carte e c'è un teorema della Procura che è stato sconfessato". Un modo neppur tanto nascosto per dire che la Procura milanese ha subito una sconfitta memorabile. Forse la più grave dall'inizio dell'inchiesta Mani pulite. Nessun commento, comunque, al quarto piano del Palazzo di Giustizia. Gherardo Colombo è presente al momento del decreto di proscioglimento. Ma alla fine dell'udienza preliminare nessuno riesce a strappargli una battuta o un commento. L'unico che esprime stupore è Giuliano Pisapia, avvocato di parte civile, per il quale gli indizi "erano più che sufficienti per una verifica dibattimentale dell'ipotesi accusatoria".
Per il capo dell'opposizione, invece, è un'altra clamorosa vittoria politica e giudiziaria che spiana la strada, se ancora ce ne fosse bisogno, alle elezioni del 2001. Una vittoria giudiziaria perché elimina una delle inchieste più insidiose della sua lunga curriculum. Una vittoria politica perché verrà utilizzata da qui alle elezioni per dimostrare che "nella Procura di Milano ci sono dei magistrati che vogliono impedirmi... ecc.". Gaetano Pecorella, candidato a ministro della giustizia di un ipotetico governo Berlusconi, mette un bel po' di sale sulla ferita: "L'accusa non è riuscita a provare nulla, non è riuscita a provare che esisteva un tramite tra le vicende giudiziarie e la vicenda processuale. E lo sapete perché? E' semplice: la sentenza Mondadori è stata una sentenza corretta".
Per capire di cosa stiamo parlando bisogna tornare indietro di 10 anni. La storia della guerra di Segrate inizia alla fine degli anni '80 quando tra gli azionisti della Mondadori (De Benedetti, famiglia Formenton, famiglia Mondadori) cominciano a esplodere dissidi sul controllo della casa editrice e di riflesso sul controllo del boccone più appetitoso: il quotidiano La Repubblica. E' una guerra senza quartiere a colpi di codice civile. Tutti i principi del foro vengono convocati da una parte e dall'altra per una battaglia a tutto campo. Timorosi di perdere il controllo di Segrate e di dover sottostare a Carlo De Benedetti, i Formenton, Cristina Mondadori e Leonardo Mondadori chiedono aiuto a un imprenditore pronto a nuove avventure finanziarie: Silvio Berlusconi.
Il cavaliere di Segrate all'inizio possiede soltanto un pacchetto azionario che si aggira sull'8 per cento del capitale ma già da allora ha una gran voglia di "scendere in campo": la sua strategia punta al rastrellamento in Borsa e a un'alleanza con i Formenton che avevano siglato un patto di sindacato con De Benedetti secondo il quale il loro pacchetto azionario sarebbe dovuto finire alla Cir alla scadenza del patto. La guerra si scatena proprio attorno a quel pacchetto azionario. Una prima svolta avviene il 21 giugno '90 quando un collegio arbitrale composto da Carlo Maria Pratis, Natalino Irti e Pietro Rescigno sigla un lodo che dà ragione a De Benedetti.
Il "lodo Mondadori" consente all'ingegnere di ottenere il controllo del capitale ordinario della Mondadori (50,3 per cento) attraverso il controllo dell'Amef (finanziaria che controllava la Mondadori), di cui i Formenton controllavano il 25,7 per cento. La vittoria milanese di Carlo De Benedetti costringe Berlusconi a lasciare la presidenza della Mondadori, conquistata in uno dei tanti capovolgimenti di fronte della battaglia azionaria. Ma il cavaliere non si perde d'animo, chiama a raccolta i suoi avvocati, primo fra tutti Previti, e rilancia la sfida su un terreno più favorevole: il "porto delle nebbie".
Il 24 gennaio del 1991 la corte d'Appello di Roma presieduta dal giudice Valente e composta dai magistrati Vittorio Metta e Giovanni Paolini dichiara nullo il lodo Mondadori. La battaglia azionaria potrebbe continuare all'infinito, il pericolo maggiore è che Berlusconi metta le mani sull'acerrimo suo nemico: il quotidiano fondato da Eugenio Scalfari. Alla fine tocca a un democristiano e andreottiano di razza, Giuseppe Ciarrapico, siglare la spartizione del bottino che lascerà il gruppo la Repubblica-L'Espresso nelle mani di De Benedetti e la Mondadori sotto il controllo di Fininvest. 

 

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