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Anno XII N° 541 3/10/12 |
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Ottobre Missionario - I settimana
30 settembre - 6 ottobre 2012
Queste brevi note sull’animazione missionaria del mese di ottobre sono tratte dai sussidi disponibili sul sito www.operemissionarie.it
Tema della prima settimana è la Contemplazione, fonte della testimonianza missionaria e garanzia di autenticità dell’annuncio cristiano.
Preghiera
del mattino o della sera
La preghiera del mattino o della sera, può essere motivata da queste intenzioni:
domenica |
Perché la Parola di Dio di questa domenica aiuti la nostra comunità parrocchiale a sentirsi protagonista dell’annuncio missionario. |
lunedì |
Perché
sulle tavole di ogni famiglia cristiana nel mondo non manchi mai
il cibo per il corpo e quello della Parola. |
martedì |
Perché il faticoso e difficile apostolato non distolga i missionari dall’impegno della preghiera e della contemplazione della Parola di Dio. |
mercoledì |
Perché i cammini pastorali delle nostre diocesi siano fondati sulla centralità della Parola di Dio. |
giovedì |
Per
tutti i sacerdoti, perché l’ascolto assiduo della Parola li
aiuti a vivere il proprio ministero nello spirito del servizio. |
venerdì |
Per tutti coloro che nel mondo soffrono a causa di ingiustizie sociali, perché trovino conforto nella contemplazione della Parola. |
sabato |
Perché attraverso l’ascolto attento della Parola, molti giovani riconoscano la voce del Padre che li chiama alla missione, anche in terre lontane. |
Preghiera
prima dei pasti
Prima
di pranzo e/o di cena, si può pregare così:
Signore,
tu hai detto: “Non di solo pane vive l’uomo, ma di ogni parola che esce
dalla bocca di Dio”.
L’ascolto
della tua Parola ci renda capaci di condividere il nostro pane e il nostro amore
con chi soffre nella povertà. Amen.
N.B.
La parrocchia, nel Primo Venerdì del mese, può offrire l’Adorazione
Eucaristica proposta da “L’animatore missionario” n°
2/3.
Il Papa ai vescovi nelle terre di missione
dare
fiducia alla forza rinnovatrice del Vangelo, è il Signore che guida la Chiesa
Radiovaticana
- 7 settembre 2012
“La diffusione della Parola del Signore fa fiorire il dono della
riconciliazione e favorisce l’unità dei popoli”. Lo ha ricordato il Papa
che stamani, a Castel Gandolfo, ha incontrato i vescovi di recente nomina dei
Territori di Missione, che provengono da 42 Paesi e partecipano all'incontro
promosso dalla Congregazione per l'Evangelizzazione dei Popoli. Era presente
circa un centinaio di persone, fra cui il cardinale Fernando Filoni, prefetto
della Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli, che Benedetto XVI ha
salutato cordialmente. Il discorso del Papa si è concentrato sulla necessità
della missio ad gentes, di una “corretta inculturazione della fede”, della
preghiera e della fiducia nel Vangelo di fronte alle intolleranze frutto di
fondamentalismi che conducono a volte a disconoscere “il diritto alla libertà
religiosa”. Il servizio di Debora Donnini:
“Le
comunità di cui siete Pastori in Africa, Asia, America Latina ed Oceania, pur
in situazioni differenti, sono tutte impegnate nella prima evangelizzazione” e
di queste, dice il Papa rivolto ai nuovi vescovi dei Territori di missione,
percepite le gioie e le ferite. Sono “quasi tutte di recente fondazione”,
con una fede vivace e creativa “ma spesso non ancora radicata”, per la loro
breve storia. E dunque si alterna lo “zelo apostolico” a “momenti di
instabilità e incoerenza”. Tuttavia sono Chiese che vanno maturando grazie
anche al dono della communio sanctorum che consente “un’osmosi di grazia”
fra le Chiese di antica tradizione e quelle di recente costituzione e, prima
ancora, tra “la Chiesa celeste e quella pellegrinante”:
“Nel
vostro cuore sia sempre salda la fiducia nel Signore; la Chiesa è sua, ed è
Lui che la guida sia nei momenti difficili, che di serenità”.
Benedetto
XVI nota che da qualche tempo si registra una diminuzione dei missionari,
bilanciata però dall’aumento del clero diocesano e religioso e la crescita
numerica dei sacerdoti autoctoni produce “una nuova forma di cooperazione
missionaria” : alcune giovani Chiese hanno iniziato ad inviare sacerdoti a
Chiese sprovviste di clero nello stesso paese o in nazioni dello stesso
Continente. “Le giovani Chiese costituiscono, dunque - dice il Papa - un segno
di speranza per il futuro della Chiesa universale”. In questo contesto
Benedetto XVI esorta i nuovi vescovi dei Territori di missione a non risparmiare
forza nell’opera pastorale, memori del dono dei tria munera che hanno ricevuto
, “insegnare, santificare, governare”:
“Abbiate
a cuore la missio ad gentes, l’inculturazione della fede, la formazione dei
candidati al sacerdozio, la cura del clero diocesano, dei religiosi, delle
religiose e dei laici. La Chiesa nasce dalla missione e cresce con la missione.
Fate vostro l’appello interiore dell’Apostolo delle genti: «Caritas Christi
urget nos»”.
“Una
corretta inculturazione della fede vi aiuti ad incarnare il Vangelo nelle
culture dei popoli e ad assumere ciò che di buono vive in esse”, sottolinea
Benedetto XVI mettendo in rilievo che “si tratta di un processo lungo e
difficile che non deve in alcun modo compromettere la specificità e l'integrità
della fede cristiana”. La missione, prosegue, richiede “Pastori configurati
a Cristo per santità di vita, prudenti e lungimiranti, pronti a spendersi
generosamente per il Vangelo”. Il Pontefice li esorta, poi, a vigilare sul
gregge avendo un’attenzione specifica per i sacerdoti, essendo disponibili ad
ascoltarli, ad assicurargli “specifici e periodici incontri di formazione” e
a far sì che “l’Eucaristia sia sempre il cuore della loro esistenza”.
Quindi il Papa invita i presuli ad avere “sul mondo di oggi uno sguardo di
fede, per comprenderlo in profondità, ed un cuore generoso, pronto ad entrare
in comunione con le donne e gli uomini del nostro tempo”. Ma soprattutto
Benedetto XVI gli ricorda la loro “prima responsabilità di uomini di Dio,
chiamati alla preghiera e al servizio della sua Parola”:
“Tenete
lo sguardo fisso su Gesù, il Pastore dei pastori: il mondo di oggi ha bisogno
di persone che parlino a Dio, per poter parlare di Dio. Solo così la Parola di
salvezza porterà frutto”.
Le
Chiese di questi Paesi, evidenzia, conoscono bene l’instabilità che pesa
sulla vita quotidiana della gente in modo preoccupante; le emergenze alimentari,
sanitarie, educative che interrogano le comunità ecclesiali, la cui opera è
apprezzata. E ancora, alle calamità naturali si aggiungono “discriminazioni
culturali e religiose, intolleranze e faziosità, frutto di fondamentalismi che
– dice - rivelano visioni antropologiche errate e che conducono a
sottovalutare, se non a disconoscere, il diritto alla libertà religiosa, il
rispetto dei più deboli, soprattutto dei bambini, delle donne e dei portatori
di handicap”. Pesano anche “riaffioranti contrasti tra le etnie e le caste,
che causano violenze ingiustificabili”:
“Date
fiducia al Vangelo, alla sua forza rinnovatrice, alla sua capacità di
risvegliare le coscienze e di provocare dall’interno il riscatto delle persone
e la creazione di una nuova fraternità. La diffusione della Parola del Signore
fa fiorire il dono della riconciliazione e favorisce l’unità dei popoli”.
Lo
sguardo di Benedetto XVI è rivolto all’Anno della fede: “la fede è il dono
più importante che ci è stato fatto nella vita: non possiamo – dice –
tenerlo solo per noi!”. Tutti, sottolinea, “hanno il diritto di conoscere il
valore di tale dono e di accedervi”. (Enc. Redemptoris missio, 11). La fede,
infatti, è data perché sia condivisa e porti frutto:
“Il
Servo di Dio Paolo VI, riaffermando la priorità dell’evangelizzazione,
affermava: «Gli uomini potranno salvarsi anche per altri sentieri, grazie alla
misericordia di Dio, benché noi non annunziamo loro il Vangelo; ma potremo noi
salvarci se, per negligenza, per paura, per vergogna o in conseguenza di idee
false, trascuriamo di annunziarlo?» (Esort. ap. Evangelii nuntiandi, 80). Tale
interrogativo risuoni nel nostro cuore come appello a sentire l’assoluta
priorità del compito dell’evangelizzazione”.
In
conclusione, il Papa affida le comunità dei nuovi vescovi dei Territori di
missione a Maria, “prima evangelizzatrice, avendo dato al mondo il Verbo di
Dio fatto carne”, a lei, “la Stella dell’evangelizzazione”.
Il crocifisso a quattro nuovi missionari
Pimemilano - 17 settembre 2012
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Padre Francesco
Bonora, destinato in Messico, padre Adolphe Ndouwe, destinato in
Bangladesh, suor Alessandra Camatta, destinata in Papua Nuova Guinea, suor Chiara
Di Brigida, destinata in Brasile. Sono i quattro nuovi missionari del Pime e
delle Missionarie dell'Immacolata che domenica 16 settembre al Centro
Pime di Milano, nel corso dell'81° Congressino missionario, hanno ricevuto dal
superiore generale del Pime padre Gian Battista Zanchi il crocifisso che li
accompagnerà e li sosterrà nella loro prima destinazione (guarda
qui le foto della cerimonia). La
consegna del crocifisso ai partenti è stato come ogni anno il momento centrale
del Congressino, che segna l'inizio delle attività del Centro missionario. E -
nel teatro di via Mosé Bianchi affollato anche da tanti giovani che partecipano
ai dei cammini del Pime - è avvenuta durante la Messa, che è stata presieduta
da monsignor Sebastian Tudu, giovane vescovo di Dinajpur, in Bangladesh,
una delle zone dove da tanto tempo il Pime svolge il suo ministero. Durante la Messa vi è stata anche l'atto della promessa definitiva, attraverso cui tre giovani hanno scelto di entrare nel Pime consacrandosi alla missione e ora proseguiranno la loro formazione nel Seminario teologico di Monza. |
Si tratta di Enoch
Bouba, della diocesi di Ngaoundéré in Camerun, di Gianluca Capello, della
diocesi di Torino e di Naresh Gosala, della diocesi di Eluru in India.
Al centro del Congressino quest'anno era stato posto il tema di 40 anni di presenza del Pime in Costa d'Avorio e in Thailandia. Clicca qui per vedere il breve video presentato al Congressino su questo anniversario e per leggere alcune testimonianze.
Missione? Non è un’utopia di Alfonso Raimo
Popoli e Missione - luglio/agosto 2012
Segretario nazionale Pontificia Unione Missionaria del Clero
Il mio contributo nelle pagine di questa rivista vuole essere un invito a ripercorrere questo ultimo tratto del cammino della Chiesa, rileggendo documenti e interventi magisteriali nei quali emerge la consapevolezza di una identità missionaria da riscoprire e consolidare. Il secolo scorso si caratterizza a riguardo per i puntuali inviti da parte dei pontefici a non trascurare l’impegno missionario, capace di esprimere il dinamismo di una Chiesa che non è a servizio di se stessa, ma che trova la sua ragion d’essere nel donarsi senza riserve e senza pregiudizi. Il timore di indebite, ingiustificabili e perniciose chiusure diventa grido d’allarme nella Redemptoris missio proprio nelle pagine iniziali in cui Giovanni Paolo II riferisce di una «tendenza negativa» che deve preoccupare tutti i credenti poiché «la missione specifica ad gentes sembra in fase di rallentamento». E questo in palese contrasto con quanto raccomandato dal Concilio e dal magistero. Poiché la missione «rinnova la Chiesa, rinvigorisce la fede e l’identità cristiana, dà nuovo entusiasmo e nuove motivazioni», non può e non deve essere relegata nell’angolo del ring riservato ai pugili suonati o contemplata come utopica suggestione di pochi sognatori che hanno perso il contatto con la realtà.
Posta come sigillo pontificio ai lavori del Sinodo dei vescovi del 1974, la Evangelii nuntiandi non solo esprime la ricchezza dei temi in esso trattati, ma anche la profondità d’animo di un Papa che ha fatto del dialogo un criterio irrinunciabile e un punto di non ritorno. A Paolo VI il Sinodo, che non esprime un documento conclusivo, affida il compito della sintesi dei tanti contributi giunti dalle Chiese particolari. Per la prima volta, le “altre Chiese” hanno la possibilità di esprimersi liberamente, proponendo una propria lettura della realtà e avanzando strategie pastorali adeguate alle singole circostanze e alle particolari situazioni. Volendo celebrare il decennale della Ad Gentes, promulgata nel 1965, questo documento cerca di colmarne le lacune e di dare una organica visione della missione. L’osservazione sollevata da più parti sullo scarso uso del termine missione (cosa che appare grave per un documento missionario) trova la sua risposta nell’intenzione di porre al suo centro la comunicazione della fede, il fatto della comunicazione e il modo della comunicazione.
Il termine evangelizzazione se da una parte esprime il vero contenuto dell’azione missionaria, dall’altra mette al riparo, in un contesto post coloniale, » da critiche e recriminazioni su metodi utilizzati in passato. Diventa necessario rivedere i metodi per far giungere a tutti gli uomini in modo «comprensibile e persuasivo» la Buona Novella di Gesù Cristo, nella quale trovare risposta ai tanti interrogativi. Emerge subito il carattere ecclesiale dell’evangelizzazione, ma il ruolo di Cristo e della Chiesa non sono alla pari: Cristo è l’evangelizzatore, il primo evangelizzatore, mentre la Chiesa è evangelizzatrice ed evangelizzata.
Nata dall’azione evangelizzatrice di Gesù, la Chiesa riceve la missione di evangelizzare, e comincia con l’evangelizzare se stessa. Ha bisogno di essere essa stessa provocata da quel messaggio nel quale, specchiandosi, coglie la sua autentica immagine e nel quale trova la forza e il fervore delle origini. Questa azione evangelizzatrice non può limitarsi ad un ritocco di facciata, ad un lifting che cancella i segni superficiali del tempo che scorre; il suo scopo, infatti, è di «convertire la coscienza personale e insieme collettiva degli uomini». Non fermandosi all’idea di una predicazione che cerca nuovi territori e nuovi popoli, l’evangelizzazione si interpreta come un «portare la Buona Novella in tutti gli strati dell’umanità», entrando in dialogo con «la cultura e le culture dell’uomo». E’ per Paolo VI «la rottura tra Vangelo e cultura» il dramma della nostra epoca; dramma che caratterizza anche i nostri giorni e che spinge gli organismi ecclesiali italiani a presentare l’urgenza del «progetto culturale».
Non ignoriamo il fallimento degli innumerevoli tentativi pastorali e della scarsa efficacia dei numerosi documenti che scivolano sulle teste degli uomini (credenti) senza influenzarne le scelte e le attività. L’efficacia dell’annuncio è strettamente legata alla testimonianza; essa precede e accompagna la Parola, provocando meraviglia e suscitando attenzione. Anche se da sola è insufficiente a dare ragione della novità cristiana, rimane condizione indispensabile perché nel cuore “lontano” sorgano domande profonde e impegnative. Giovanni Paolo II nella Redemptoris missio, in linea con quanto qui affermato, ricorda che «la testimonianza della vita cristiana è la prima e insostituibile forma della missione» (RM 42). Il substrato sul quale questa convinzione si colloca è la certezza che «l’uomo contemporaneo crede più ai testimoni che ai maestri» e ciò perché «il nostro secolo ha sete di autenticità» e «soprattutto i giovani hanno orrore del fittizio, del falso, e ricercano sopra ogni cosa la verità e la trasparenza». Questa testimonianza del singolo cristiano o di un gruppo di cristiani è autentica solo se pienamente inserita nella vita e nella storia degli uomini, se è intimamente intrecciata con l’esperienza cristiana, se entra in dialogo con una cultura senza esserne schiacciata. La testimonianza più eloquente è quella offerta dalla santità di vita; è infatti, necessario che «il nostro zelo per l’evangelizzazione scaturisca da una vera santità di vita» perché «senza il contrassegno di santità, la nostra parola difficilmente si aprirà la strada nel cuore dell’uomo del nostro tempo».
Giovanni Paolo II sviluppa questo tema in riferimento all’impegno missionario, ribadendo che «occorre suscitare un nuovo ardore di santità fra i missionari e in tutta la comunità cristiana». Le domande che introducono il n.76 della Esortazione, con le quali Paolo VI dà voce ad un mondo, sono dal successore rimandate all’unica richiesta rivolta agli apostoli: «Vogliamo vedere Gesù». Nella Novo millennio ineunte scrive che come duemila anni fa gli uomini «magari non sempre consapevolmente, chiedono ai credenti di oggi non solo di parlare di Cristo, ma in un certo senso di farlo vedere» (NMI 16). Si è già accennato al carattere ecclesiale dell’evangelizzazione, al legame intimo e vitale tra la Chiesa e l’evangelizzazione. Essa esiste per evangelizzare. Come essa realizza il proprio mandato rimanendo in Cristo, così chi da essa riceve il mandato di predicare non lo realizza al di fuori della comunione ecclesiale. Per entrambi il Vangelo è norma, per cui sarebbe deprecabile ogni tentativo di riduzione o di strumentalizzazione.
L’autore della Populorum progressio non ignora i legami profondi che intercorrono tra evangelizzazione e promozione umana, tra evangelizzazione e liberazione integrale dell’uomo. La Chiesa, che «non ha mai trascurato di promuovere l’elevazione umana dei popoli», oggi soffre nel vedere insoddisfatte le migliori aspirazioni degli uomini e «desidera aiutarli a raggiungere la loro piena fioritura, e a questo fine offre loro ciò che possiede di proprio: una visione globale dell’uomo e dell’umanità» (PP 13). Permane il rischio, peraltro non remoto, di ridurre l’attività della Chiesa a iniziative di ordine politico e sociale.
Essa ha una modalità propria e originale per collaborare alla liberazione degli uomini. La sua libertà, scaturita da quella verità che è luce proiettata su Dio e sull’uomo, è garanzia di autenticità nella ricerca del vero bene per l’umanità. Prima della conclusione, il pontefice sottolinea con sofferenza la mancanza di fervore che caratterizza i cristiani del “nostro tempo” e che penalizza gravemente l’azione evangelizzatrice della Chiesa. Essa si rivela «nella stanchezza, nella delusione, nell’accomodamento, nel disinteresse e soprattutto nella mancanza di gioia e di speranza». La gravità sta nel fatto che questo stato di torpore trova giustificazione nell’insegnamento conciliare, i cui documenti sono letti frettolosamente e interpretati superficialmente. Esposta ai rischi di un’errata concezione d’inculturazione o ripiegata su se stessa per istinto di conservazione, la Chiesa non propone in modo rispettoso Cristo e non annuncia adeguatamente il Vangelo. Questo scottante argomento, posto alla fine dell’esortazione con lo scopo di suscitare un benefico esame di coscienza e riscoprire la gioia dell’annuncio, lo ritroviamo nella introduzione della Redemptoris missio, a sottolinearne il legame naturale e il logico sviluppo, ma anche a testimonianza di una persistente situazione di stanchezza. Bisogna risvegliare nei credenti lo «slancio missionario delle prime comunità cristiane» (RM 90).
Rispolverando una terminologia accantonata dal predecessore, Giovanni Paolo II dice che «la missione specifica ad gentes sembra in fase di rallentamento, non certo in linea con le indicazioni del concilio e del magistero successivo» (RM 2). A 15 anni dall’Evangelii nuntiandi desidera «invitare la Chiesa a un rinnovato impegno missionario», continuando il magistero dei predecessori a tale riguardo.
Lo
spirito missionario del card. Martini di Piero Gheddo
AsiaNews - Milano - 3 settembre 2012
L'impegno
verso "i lontani" e i non cristiani. L'attenzione alle esperienze
delle giovani Chiese da cui imparare l'entusiasmo della fede. La vera sfida al
cristianesimo viene non dal buddismo, ma dal secolarismo. I suoi dubbi sulla
tenuta di una "moralità laica" senza il sostegno del cristianesimo.
Poche
ore prima che nel duomo di Milano si celebrino i funerali del card. Carlo Maria
Martini, p. Piero Gheddo ci presenta alcuni aspetti preziosi e poco noti della
personalità del defunto arcivescovo di Milano, che mostrano il suo cuore di
evangelizzatore e di profeta nel tentativo di annunciare il Cristo al mondo
secolarizzato e illuminista. In ciò egli ha anticipato i temi della "nuova
evangelizzazione" e dell'Anno della Fede lanciato da Benedetto XVI. Per una
strana manipolazione, proprio quel mondo liberal e illuminista, oggetto della
sua cura, ha fatto di tutto per mostrare un card. Martini dalla "parte del
mondo" e contro la Chiesa di Wojtyla e di Ratzinger. Ancora in questi
giorni si sta manipolando la sua morte, mostrando questa grande figura di fede
come un propugnatore dell'eutanasia, avendo rifiutato l'accanimento terapeutico
(cosa che tutta la Chiesa rifiuta), o un sostenitore delle coppie di fatto. Il
mondo spesso usa la Chiesa per andare contro alla Chiesa. Ha avuto ragione papa
Benedetto XVI a liquidare le ideologiche contrapposizioni fra
"conservatori" e "progressisti" alla morte del defunto
cardinale di Milano, affermando che egli ""ha servito generosamente il
Vangelo e la Chiesa".
L'arcivescovo
di Milano (1980-2002) Carlo Maria Martini è stato un grande della Chiesa
cattolica del nostro tempo, anche se non sempre la sua linea di pensiero e di
pastorale è stata compresa e per questo a volte contestata. Per capirlo bisogna
partire da una delle caratteristiche più evidenti in lui, ma non comuni
nell'episcopato, nel clero e nel Popolo di Dio dell'Occidente cristiano. Era
convinto che chi ha ricevuto da Dio il dono della fede deve spendersi per
comunicarlo ad altri, dialogare e coinvolgere quelli che ancora non conoscono
Cristo o se ne sono allontanati. Direi che è stato un profeta della missione e
spiego perché.
All'inizio del suo episcopato, un parroco della periferia sud-ovest di Milano mi invita a parlare ai fedeli per prepararli alla visita del cardinale, alla quale poi ho partecipato. A pranzo il vescovo chiede al parroco:
- Quanti abitanti hai nella tua parrocchia? Circa 15mila risponde.
- E quanti vengono abitualmente alle Messe domenicali? Più o meno 2mila.
- Per tutti gli altri, la parrocchia cosa fa? Che iniziative avete per raggiungerli?".
- Il parroco risponde con una
battuta: "Eminenza, io e i miei due viceparroci, con le sette suore di due
comunità, ringraziamo il buon Dio che gli altri non vengono. Altrimenti, come
faremmo ad assisterli?". Poi mi diceva: "Sono stato in tre parrocchie,
ma non ho mai sentito il vescovo farmi questa domanda".
I
santi e le Chiese di missione
Nel
1983 quando al mattino andavo spesso in aereo a Roma (e tornavo nel pomeriggio)
per incontri alla Cei su temi missionari o per il "Comitato ecclesiale
contro la fame nel mondo", ero in coda per l'imbarco, quando mi sento
chiamare. Era il card. Martini che mi dice: "Vieni con me, così ci
conosciamo meglio". Siamo saliti sull'aereo passando da un'uscita riservata
ai Vip e ci siamo seduti in posti riservati. Dopo la preghiera personale col
Breviario, rivolgo all'arcivescovo una domanda, risponde brevemente e poi dice:
"Parlami tu della tua vita di missionario giornalista". Ho cominciato
a parlare con entusiasmo infervorandomi, tanto che Martini mi dice: "Perché
ti scaldi tanto? Dimmi con calma questo e quello,,,,". Ricordo questo fatto
perché mi ha stupito la capacità che aveva, lui che sembrava così freddo e
distaccato, di dare confidenza, di farmi sentire a mio agio; e poi anche la
curiosità di conoscere la mentalità dei missionari che vivono in culture e fra
popoli così diversi dal nostro; e cosa convince un pagano a convertirsi a
Cristo e come avviene il passaggio da una religione all'altra, ecc. Insomma, era
l'opposto di come immaginavo, lui faceva domande io rispondevo ed era veramente
interessato al primo annunzio e alle conversioni dei non cristiani che
avvenivano e avvengono nelle missioni.
Nel
1986 mi telefonano dalla Curia per chiedermi se accetto di far parte del
Consiglio pastorale diocesano di Milano per i prossimi sei anni. Rispondo
positivamente ma aggiungo: "Io non so quasi nulla della diocesi di Milano.
Ci vivo da molti anni, ma non seguo la vita della diocesi essendo impegnato
nel conoscere e descrivere il mondo missionario". Poco dopo mi telefona il
card. Martini: "Padre Gheddo, ti metto io nel Consiglio affinché tu porti
in diocesi la vita e le voci delle missioni. Credo che abbiamo molto da imparare
dalle giovani Chiese, ma forse siamo poco attenti a questo. Nei vari temi di cui
parliamo, penso che tu abbia raccolto molti esempi e novità di vita che le
Chiese fondate dai missionari possono oggi dare a noi come stimolo per la nostra
conversione al Vangelo". Ho accettato e il Consiglio pastorale era una cosa
seria. Si fissavano in anticipo i temi e si discutevano prima negli incontri di
decanato e poi nell'incontro mensile del Consiglio stesso, dove si presentavano
interventi scritti, alla Villa Sacro Cuore di Triuggio, dal sabato pomeriggio
alla domenica dopo pranzo e portava facilmente il discorso verso la sua meta
preferita: come la diocesi ambrosiana annunzia Cristo ai non credenti? Una
volta il tema era l'oratorio e si discuteva di catechesi, disciplina, rapporto
prete e dirigenti laici, economia, organizzazione delle varie iniziative. Il
cardinale interviene per dire che anche l'oratorio è un'"opera buona"
della Chiesa e citava quanto disse Gesù parlando della lampada che deve essere
posta sul candelabro: "Così deve risplendere la vostra luce davanti agli
uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al Padre che sta
nei Cieli"(Matt. 5, 16).
Quando
è morto il servo di Dio missionario in Amazzonia Marcello Candia (31 agosto
1983), Martini l'aveva visitato il giorno prima alla Clinica S. Pio X ed era
rimasto impressionato della sua sopportazione alla sofferenza atroce del cancro
al fegato (Marcello lo definirei "l'uomo della croce") e al funerale
ha detto parole commosse. Quando è uscita la biografia "Marcello dei
Lebbrosi" l'ho consegnata personalmente all'arcivescovo. Qualche mese dopo
mi dice: "Ho letto la biografia di Marcello Candia. Bravo, era veramente un
santo! Ma sai il capitolo che mi è piaciuto di più? Uno degli ultimi
intitolato "Santo nonostante se stesso", nel quale parli dei difetti
di Marcello, della sua natura non facile da viverci assieme, dei suoi scrupoli.
Lo rendi un uomo come gli altri, non un santo imbalsamato da nicchia.
Grazie!". E poi è stato il Cardinale Martini che ha appoggiato la proposta
della sua causa di beatificazione, senza il suo intervento forse non sarebbe
iniziata. Ha anche accolto volentieri la proposta di fare la Causa di
beatificazione di Clemente Vismara (in rogatorio per la diocesi di Kengtung in
Birmania dove padre Clemente ha lavorato 65 anni) e ultimamente ha approvato
cordialmente per scritto la proposta di iniziare la Causa di beatificazione di
mons. Aristide Pirovano (1915-1997), che era andato a trovare in Amazzonia
brasiliana.
Alla
metà degli anni '80, Milano aveva una giunta socialista in Comune. Gli ospedali
e le cliniche cattolici erano pesantemente penalizzati da controlli continui. Il
direttore sanitario della "Columbus", ospedale delle Suore della Madre
Cabrini (di cui ero aiutante del cappellano), dott. Pasquale Cotza, mi diceva:
"Tutte le settimane abbiamo controlli dei Carabinieri, della Polizia, dei
Vigili del fuoco, dei Nas. Ci fanno cambiare le porte e altre strutture, hanno
dato perfino una multa salata perché il pavimento della cucina è scivoloso. Se
facessero questi controlli a Niguarda, dovrebbero chiudere tutto
l'ospedale". Le suore, già in crisi di vocazioni, avevano intenzione di
vendere la Clinica e chiedono il parere al Cardinale, il quale viene a trovarle
e fa un discorso chiaro e forte (ero presente): "C'è un piano per
statalizzare gli ospedali cattolici, dobbiamo reagire. Sorelle, non cedete,
l'assistenza sanitaria cattolica ha un valore esemplare in città e ha una
grande tradizione". Le suore non hanno venduto solo grazie al sostegno dato
dall'arcivescovo.
I
media missionari, il buddismo e i non credenti
Quando
invece ci siamo incontrati a Tokyo in Giappone (1985 o 1986), in un intervento
alla Sophia University dei gesuiti si è scusato di non poter parlare in
giapponese. L'ho seguito in vari interventi e nella solenne visita alla Soka
Gakkai, dove tra gli scenari fantastici della scalinata d'accesso e del tempio,
ho potuto scattare foto da manifesto. Ricordo che diceva: "Il buddismo è
interessante come il mondo non cristiano al quale le missioni cattoliche
annunziano Cristo, ma la sfida al cristianesimo e alla Chiesa cattolica si gioca
soprattutto di fronte alla secolarizzazione, relativismo, individualismo e
ateismo consumistico della modernità".
Il
2 dicembre 1992, alla vigilia di San Francesco Saverio, il card. Martini viene
al Pime di Milano ad aprire l'incontro dei missionari dell'istituto impegnati
nei mass media in vari paesi. Diceva che le lettere di San Francesco Saverio
dall'Oriente erano capaci di suscitare interesse e slancio per le missioni e
ancor oggi, aggiungeva, "hanno una forza comunicativa straordinaria".
Poi rivoltosi a noi chiedeva: «Noi vorremmo che la nostra stampa missionaria
fosse sempre così, cioè che avesse sempre questa forza comunicativa del
Vangelo proprio attraverso la comunicazione delle notizie sulla diffusione del
Vangelo. In altre parole, io credo che il popolo cristiano, leggendo le riviste
missionarie, dovrebbero poter esclamare: "Come sono belli i piedi del
messaggero di lieti annunzi che annuncia la pace"...Ora io chiedo a voi:
ridateci questo stupore del Vangelo, datelo alle nostre comunità, datelo non
soltanto alle terre di missione, ma anche a noi. Siate come san Francesco
Saverio tramite fra le Indie, le terre lontane e le terre d'Europa, perché
questo stupore riscaldi il cuore di tutti». Mai mi sono trovato in così
perfetta sintonia col carissimo arcivescovo.
Una
delle iniziative più significative del card. Martini è stata "La cattedra
dei non credenti" iniziata nel 1987: i non credenti (scienziati, filosofi,
studiosi, docenti universitari, giornalisti, ecc.) erano invitati a dialogare
con l'arcivescovo sulla condizione umana (il senso del dolore, orizzonti e
limiti della scienza, l'uomo di fronte al silenzio di Dio, rendiamo ragione
della nostra speranza, la preghiera di chi non crede, ecc.). Mi sono riletto il
volumetto "In cosa crede chi non crede?": il dibattito tra Martini
e Umberto Eco, a cui si sono aggiunte altre voci: Emanuele Severino, Manlio
Sgalambro. Eugenio Scalfari, Indro Montanelli, Vittorio Foà, Claudio Martelli.
Il tema centrale posto da Martini è questo: "Quali ragioni dà del suo
agire chi intende affermare e professare princìpi morali che possano richiedere
anche il sacrificio della vita, ma non riconosce un Dio personale?";
"Dove trova il laico la luce del bene?".
L'arcivescovo
aggiunge: "So che esistono persone che, pur senza credere in un Dio
personale, sono giunte a dare la vita per non deflettere dalle loro convinzioni
morali. Ma non riesco a comprendere quale giustificazione ultima diano del loro
operare"; e soprattutto come la "morale laica" possa risultare
convincente per le grandi masse umane. Insomma, "l'etica ha bisogno della
verità" per avere una fondazione ferma, sicura, che dà speranza anche al
di là della morte; e questa può essere solo trascendente, che supera l'uomo
limitato, debole, peccatore che tutti conosciamo e tutti siamo. Gli Autori
citati rispondono con testi ricchi di suggestioni filosofiche e culturali, a
volte non facili da seguire. Il discorso però rimane su un piano appunto
filosofico-religioso. L'"etica laica" può essere sostenuta con
ragionamenti abbastanza convincenti, ma i concetti espressi in questo libro
andrebbero poi verificati nella realtà dei fatti e soprattutto, come diceva
Martini, non si riesce a capire come la morale laica possa risultare convincente
per le grandi masse umane" (come invece è quella religiosa).
Il
card. Martini, con il suo spirito di apertura agli altri, è riuscito a
conquistare la stima e l'attenzione degli intellettuali e dei mass media più
lontani dalla Chiesa. Presentandosi nella Cattedra dei non credenti, Martini
diceva che c'era in lui il credente e il non credente, "che si interrogano
a vicenda, che rimandano continuamente domande pungenti e inquietanti l'uno
all'altro; il non credente che è in me inquieta il credente che in me e
viceversa". I non credenti ammiravano in lui il suo non giudicare nessuno e
non polemizzare, il non imporre nulla, il suo impegno civile e sociale. La sua
era una fede che "si è fatta prossimo", non un "vogliamoci bene
perché questo solo è importante". No, la fede di Martini era fermissima e
chiara, ma anche aperta alla ricerca del dialogo e del confronto con le ragioni
degli altri.
Non
voleva una fede addormentata, una vita cristiana abitudinaria che conta poco
nella vita. Voleva una fede che non lascia tranquillo il cristiano ma lo mette
di fronte ai non credenti e quindi ad interrogarsi se la propria vita rende
testimonianza a Cristo, se è una luce che risplende e riscalda e illumina,
oppure una fiammella di candela vacillante o un lievito che non sa di niente. La
presenza dei non credenti vicini a noi, nella nostra stessa famiglia e società,
deve interrogarci sui motivi della nostra speranza e sulla forza della nostra
fede. Anche questo è spirito missionario.
Pubblicato
dalla rivista "Liberal", Roma, 1996, pagg. 143.
Rincari alimentari: l'Onu teme una nuova crisi
Misna - 4 settembre 2012
Forti
aumenti dei prezzi del granturco, della farina e dalla soia stanno accrescendo
il rischio di un ripetersi della crisi alimentare del 2007-2008: lo sostengono
in un documento diffuso oggi a Roma tre agenzie specializzate dell’Onu,
evidenziando i pericoli che gravano sui paesi del Sud del mondo importatori di
cibo.
“Dobbiamo
agire subito – sottolineano l’Organizzazione per l’agricoltura e
l’alimentazione (Fao), il Programma alimentare mondiale (Pam/Wfp) e il Fondo
internazionale per lo sviluppo agricolo (Ifad) – per assicurarci che queste
impennate dei prezzi non si trasformino in una catastrofe capace di colpire nei
prossimi mesi decine di milioni di persone”.
Secondo
le agenzie dell’Onu, i rincari sono frutto di fattori congiunturali e
strutturali, dalla siccità che ha colpito i campi del Midwest americano a una
crescita della popolazione mondiale stimato in 80 milioni di persone l’anno.
Nel documento si sottolinea che per ridurre il rischio di un’offerta di
cereali insufficiente bisogna investire nell’agricoltura dei paesi importatori
di cibo. Paesi, sottolineano le agenzie dell’Onu, che hanno spesso “un
enorme potenziale per aumentare la produzione” e in prospettiva garantire
“lavoro e reddito” nelle aree rurali dove vive il 70% dei poveri del mondo.
Altri
impegni necessari, si legge nel documento, sono la riduzione degli sprechi nella
catena alimentare e “una revisione delle scelte sui biocarburanti” quando i
mercati globali sono “sotto pressione”.
Il
testo diffuso oggi è solo l’ultimo di una serie a mettere in guardia dai
rischi di una nuova crisi alimentare. Alla fine di agosto la Banca mondiale ha
stimato che i prezzi del cibo sono aumentati nell’ultimo anno di circa il 6%.
Oltre
13 milioni di bambini in tutto il mondo non vanno a scuola
Agenzia Fides - Madrid - 3 settembre 2012
Si
apre oggi a Madrid il IV Incontro Internazionale contro il Lavoro Minorile,
organizzato dalla Fundación Telefónica con l’appoggio dell’Organizzazione
Internazionale del Lavoro (ILO). L’obiettivo è trovare soluzioni a questo
problema che registra in tutto il mondo oltre 250 milioni di bambini lavoratori
e circa 13 milioni e 215 mila bambini che non vanno a scuola. Il fenomeno è
particolarmente grave nel sudest asiatico e nell’Africa subsahariana. Tra i
temi affrontati nell’Incontro anche le forme di lavoro minorile pericoloso
nell’agricoltura, lo sfruttamento sessuale dei piccoli, metodi innovativi nel
campo dell’istruzione e nuove forme di mobilitazione sociale. Insieme ad
un’ampia rete di ong, la Fundación Telefónica ha dato la possibilità di
frequentare la scuola a 285 mila bambini di 13 paesi dell’Africa subsahariana.
Onu:
nel mondo 775 milioni di analfabeti, 2/3 sono donne
Radiovaticana
- 7 settembre 2012
Circa
775 milioni di giovani e adulti in tutto il mondo non sanno ancora leggere e
scrivere; 122 milioni di bambini in età scolare non hanno la possibilità di
frequentare la scuola, sia primaria sia secondaria, e milioni di loro sono
promossi con un livello inadeguato di competenza in scrittura e lettura. Le
donne - riferisce l'agenzia Sir - costituiscono i due terzi della popolazione
mondiale non alfabetizzata. Sono i dati resi noti dal segretario generale
dell’Onu Ban Ki-moon nel suo messaggio in occasione della Giornata
internazionale dell’alfabetizzazione che si celebra domani.
“L’alfabetizzazione - ricorda Ban - fornisce agli uomini e alle donne gli
strumenti necessari per comprendere meglio il mondo e conformarlo alle loro
aspirazioni. Essa è una fonte di dignità individuale e un elemento propulsore
per un sano sviluppo della società”. La Giornata dell’alfabetizzazione è
“un’opportunità per celebrare questa forza trasformatrice e mobilitarci per
trarne il massimo vantaggio”. Questo mese l’Onu lancerà una nuova fase
dell’iniziativa di “Education first”, centrata su tre priorità: fare in
modo che ogni bambino vada a scuola; migliorare la qualità
dell’apprendimento; promuovere la cittadinanza globale. Ban esorta i leader
mondiali e tutti coloro che sono coinvolti nell’educazione a partecipare
all’iniziativa. (R.P.)
Più
istruzione più pace, parola dell'Unesco
Misna - 6 settembre 2012
Bhutan,
Indonesia, Rwanda, Colombia, Niger e Marocco: questi i paesi a cui oggi saranno
consegnati i premi dell’Unesco per l’impegno profuso nella lotta
all’analfabetismo. Lo riferisce in una nota l’Organizzazione delle Nazioni
Unite per l’educazione, la scienza e la cultura ricordando che la premiazione
rientra nell’ambito delle iniziative per la Giornata internazionale
dell’alfabetizzazione che si celebra il prossimo sabato.
“Coltivare
la pace” è il tema della Giornata e le iniziative ruotano tutte attorno al
concetto che una maggiore alfabetizzazione ha come conseguenza più possibilità
che si affermi la pace. “L’istruzione – si legge in una nota dell’Unesco
– contribuisce alla pace perché fa avanzare i popoli sia a livello di libertà
individuali sia di conoscenza del resto del mondo e, quindi, in un’ottica di
prevenzione dei conflitti”.
Secondo
Irina Bokova, direttrice generale dell’Unesco, “l’istruzione porta con sé
sostenibilità rispetto a tutti gli obiettivi di sviluppo perché essa è la
base di qualunque tipo di apprendimento”.
Tra
i paesi che oggi riceveranno il riconoscimento per gli sforzi fatti, il Marocco
è riuscito a diminuire del 13% il tasso di analfabetismo della popolazione di
età superiore ai 10 anni, passato dal 43% nel 2004 al 30% nel 2011.
Progressi
verso eliminazione bombe cluster
Misna
- 6 settembre 2012
Progressi
significativi per un mondo più libero dalle bombe cluster sono stati compiuti
tra il 2011 e il 2012: lo sottolinea il Cluster Munition Report, il rapporto
pubblicato ogni anno da cinque organizzazioni internazionali impegnate nel
disarmo e in particolare contro mine antiuomo e bombe a grappolo (cluster).
Presentato oggi a Londra, il rapporto evidenzia che soltanto nel 2011 sono state
distrutte 107.000 munizioni e 17,6 milioni di sub-munizioni immagazzinate in
arsenali. Operazioni di bonifica hanno inoltre consentito di disattivare 48.000
sub-munizioni inesplose in dieci Stati e due aree. Le cluster sono contenitori
che si aprono a mezz’aria rilasciando in un’ampia area piccoli ordigni
(sub-munizioni) che non sempre esplodono a contatto con il suolo e che per
questo motivo costituiscono una minaccia anche peggiore delle mine anti-uomo per
la ripresa della vita in aree di conflitto. “Sono ordigni che colpiscono
soprattutto i civili in maniera indiscriminata – dice alla MISNA Giuseppe
Schiavello, direttore della Campagna italiana contro le mine – costituendo un
serio ostacolo per la vita sociale ed economica delle aree contaminate”.
Nel
2011, tre nuovi Stati tra cui l’Italia hanno ratificato la Convenzione di Oslo
contro le cluster, e nei primi sei mesi del 2012 altri tre Stati hanno seguito
la stessa strada (Ungheria, Svezia e Svizzera). Tuttavia, si sono continuate a
registrare vittime (55) in Cambogia, Iraq, Laos, Libano, Sudan e Sahara
occidentale.
“Il
rapporto dimostra chiaramente che la Convenzione di Oslo sta raggiungendo
l’obiettivo di mettere una fine alle sofferenze causate dalle cluster” ha
detto Laura Cheesman, direttrice della Cluster munition coalition, la coalizione
di Ong che riunisce la società civile internazionale su questo fronte.
“Chiediamo a tutti i paesi che ancora non lo hanno fatto di aderire alla
Convenzione – ha concluso Cheesman – tutti devono dare il proprio contributo
per eliminare questi ordigni così da prevenire conseguenze per i civili durante
e dopo i conflitti armati”. Attualmente sono 111 i paesi che hanno aderito
alla Convenzione di Oslo e 75 di questi l’hanno ratificata. Non ne fanno però
parte alcuni paesi chiave come Stati Uniti, Russia e Cina.
Ebola non è una fatalità…
di Giulio Albanese
vita.it
- 8 settembre 2012
Ebola,
una parola quasi impronunciabile, che evoca morte e distruzione. Eppure,
contrariamente a quello che si pensa, non si tratta di una semplice fatalità
del destino. Siamo, piuttosto, di fronte a un fenomeno epidemiologico,
certamente grave, ma anche sintomatico della terribile mancanza di risorse,
soprattutto economiche, ma anche sociali, culturali e professionali di molti
Paesi africani. “È stato dimostrato” – mi ha spiegato un caro vecchio
amico, il dottor Gianfranco Morino, fondatore di World Friends,
un’organizzazione umanitaria che da anni opera a Nairobi (Kenya) –
“che il termine ‘medicina tropicale’ molte volte maschera quella che
invece sarebbe giusto chiamare medicina del sottosviluppo, del mancato sviluppo,
o ancora, meno eufemisticamente, medicina della povertà. Infatti, il tragico
stato di salute delle popolazioni della fascia tropicale è sintomatica non
sempre di fattori climatici dove determinate patologie si manifestano, ma del
fatto che questi Paesi sono soprattutto caratterizzati da una terribile mancanza
di risorse.” Un diritto negato, dunque, quello della salute, che esige un
maggiore impegno a livello locale, ma più in generale su scala planetaria. Sta
di fatto che le cicliche epidemie di Ebola che colpiscono l’Africa,
costituiscono un serio problema per i governi locali. Basti pensare che,
nel corso degli ultimi due mesi, sono stati segnalati due focolai: il
primo, a luglio, nel distretto di Kibaale (Uganda occidentale), il secondo, ad
agosto, nel distretto di Haute Uelé (settore nordorientale della Repubblica
Democratica del Congo). Mentre scrivo queste considerazioni, sembra che il
focolaio ugandese sia finalmente sottocontrollo, in quanto l’ultimo caso
confermato è stato segnalato il 4 agosto. Però, perché la
zona possa dirsi fuori pericolo, devono trascorrere 42 giorni senza che
vengano registrati altri contagi. Per inciso, chi scrive, lo scorso 3
agosto, al suo arrivo all’aeroporto internazionale di Entebbe – a
pochissima distanza dal “Uganda Virus Research Institute” (UVRI) dove
vengono svolte le analisi di laboratorio sui campioni di sangue dei pazienti
presumibilmente affetti da Ebola – non ha trovato alcun ufficiale sanitario
che informasse i passeggeri dell’epidemia in corso nel Paese. Comunque, come
se non bastasse, nel frattempo è esplosa un’altra epidemia di Ebola nel
vicino ex Zaire. Se, da una parte, è stato dimostrato che non
esiste alcun collegamento tra il ceppo ugandese e quello congolese –
trattandosi di due distinti sottotipi del virus – dall’altra, i
misteri che avvolgono questa terribile malattia sono molti.
Anzitutto perché, nonostante le ricerche effettuate in questi anni, non è
ancora chiaro quale sia il vettore di trasmissione. Si sa per certo che la grave
febbre emorragica, spesso fatale per l’uomo, ma anche per e i primati,
non è mortale per i pipistrelli e ciò fa ritenere che questi mammiferi abbiano
un ruolo chiave nel mantenimento dell’infezione. A differenza però del virus
Hiv, i tempi d’incubazione possono andare dai 2 ai 21 giorni (in media una
settimana), a cui fanno seguito manifestazioni cliniche come febbre, astenia
profonda, cefalea, artralgie e mialgie,vomito e diarrea. Ciò rafforza l’idea
che il virus si trasmetta per contatto diretto localizzato, rendendo meno
probabile la trasmissione attraverso le frontiere. Ma attenzione, queste
valutazioni non devono indurre a sottovalutare il fenomeno epidemiologico.
Anzitutto, è difficile monitorare efficacemente territori dove la
mancanza di presidi sanitari efficienti e di infrastrutture di trasporto,
unitamente alla diffusa insicurezza per ragioni belliche, rendono spesso gli
interventi tardivi. Basti pensare che ai primi di agosto, a distanza di circa un
mese dal primo decesso nel distretto ugandese di Kibaale, il capo della
locale unità di crisi anti-Ebola, Steven Byaruhanga, ha dichiarato al Daily
Monitor di Kampala che, a distanza di un mese dal primo decesso avvenuto al
Kagadi Hospital nel distretto di Kibaale, “gli inceneritori non ci sono,
l’elettricità va e viene, le pompe dell’acqua non funzionano, il sistema
fognario è in condizioni penose e il cibo scarseggia”. C’è voluto
l’intervento del Centre of Disease Control (CDC) di Atlanta perché da quelle
parti giungessero finalmente i primi aiuti, in particolare le agognate tute per
consentire ai soccorritori di intervenire evitando il contagio. Oltre a ciò,
riuscire a spiegare a popolazioni con alto tasso di analfabetismo che i
morti non vanno lavati prima del seppellimento, esige uno sforzo comunicativo,
spesso disatteso. Emblematica, a questo riguardo, la dichiarazione di Ignatius
Besisira, parlamentare che rappresenta Buyaga East County nel distretto ugandese
di Kibaale, secondo cui inizialmente, nonostante la sintomatologia nei primi
pazienti fosse di per se stessa allarmante, “la gente era convinta che si
trattasse di un atto di stregoneria”. E potrebbe essere anche vero se, come
recita la saggezza popolare di quelle terre prossime all’Equatore,”la
peggiore stregoneria è l’indifferenza”. Per correttezza, è bene
rammentare che il nome “Ebola” deriva da un fiume della Repubblica
Democratica del Congo, presso il quale nel 1976 si verificò il più fatale dei
primi focolai epidemici, caratterizzato da un elevato tasso di mortalità (90%).
D’allora, sono state riscontrate in Africa numerose nuove epidemie e casi
sporadici, con tasso di mortalità variabile. Attualmente, si conoscono cinque
diversi sottotipi del virus: Zaire, Sudan, Ivory Coast, Bundibugyo e Reston;
ciascuno con una diversa diffusione geografica. I primi quattro sono patogeni
per l’uomo e hanno provocato epidemie in Africa. Invece, il sottotipo Reston,
isolato per la prima volta a Reston, in Virginia (Usa), in macachi provenienti
dalle Filippine, è responsabile di malattia nei primati, mentre nell’uomo
provoca una forma asintomatica. L’infezione si trasmette per contagio
interumano attraverso il contatto con sangue e altri fluidi biologici infetti.
Una cosa è certa: per quanto, dal punto di vista scientifico Ebola rappresenti
ancora una sfida per i ricercatori, il vero problema è che i governi locali
fanno orecchie da mercante. Mi spiego meglio: per quanto essi possano fare
riferimento, quando scatta l’emergenza, su organizzazioni straniere
qualificate come la statunitense Cdc o i coraggiosi Medici Senza Frontiere
(Msf), sottovalutano il diritto alla salute di cui sopra. Nelle loro agende
politiche, i malanni della gente sono l’ultimo dei problemi. In effetti, il
presidente ugandese Yoweri Museveni, come anche il suo omologo congolese Joseph
Kabila, pur disponendo d’ingenti risorse finanziarie, peraltro
amministrate secondo logiche nepotistiche, temono che l’incentivazione dei
servizi sociali aumenti quella domanda di democrazia che potrebbe mettere a
repentaglio le loro leadership. Ebola, paradossalmente, serve anche a questo.
Gli
Hitler d’Africa di Fabio Pipinato
Unimondo
- 7 settembre 2012
I
criminali africani hanno un nome ed un volto. Metà di questi diavoli sono
presenti nella parte orientale della Repubblica Democratica del Congo; non
casualmente in una delle aree più ricche del pianeta con miniere di coltan,
rame, oro, diamanti. Qualcuno di questi assassini si trova già dietro le
sbarre. Conosciamoli da vicino. Bosco Ntaganda, classe 1973, detto Terminator
per la sua ferocia è il primo ad esser stato condannato dal tribunale
Internazionale. Sorriso aperto è stato capace delle ferocie più inaudite:
stupri di massa, arruolamento bambini soldato, sterminio di gruppi etnici. Deve
ancora esser catturato a differenza del suo vecchio capo militare Thomas Lubanga
– complice di violenze efferate – da poco condannato dal Tribunale
dell’Aia. Il primo condannato per le violenze del biennio 2002-2003 ed il
reclutamento di moltissimi bambini soldato sotto i 15 anni costretti a
combattere ed a uccidere. Sentenza: Ergastolo. Assieme finisce dietro le sbarre
anche l’ex capo ribelle Germain Katanga definito anche Simba. Classe 1978.
Comandante in capo delle “Force de résistance patriotique en Ituri (FRPI)”.
Tra il 2002 ed il 2003 più di 8.000 persone morirono e mezzo milione sfollate
causa la guerra in Ituri contro soprattutto la popolazione civile. Fu catturato
in Hotel a Kinshasha dopo che le sue milizie attaccarono i caschi blu della
MONUC causando 15 vittime tra gli stessi. Anche il suo stretto collaboratore
Mathieu Ngudjolo, classe 1970, è imputato per crimini contro l’umanità nella
foresta dell’Ituri.
Il
generale Laurent Nkunda, su cui pende un mandato di arresto internazionale, si
trova al sicuro in Rwanda ove gode di alte protezioni. Già comandante presso il
Fronte Patriottico Rwandese (FPR), gode della fama di esser il maggior
protettore dell’etnia tutsi nell’est del Congo. Human Rights Watch afferma
che le sue truppe sono implicate in molti stupri, torture ed uccisioni
arbitrali.
Tra
i ricercati “eccellenti” v’è il famoso Joseph Kony, leader dei ribelli
dell’Esercito di resistenza del Signore (LRA) e braccato dal 2005 per aver
trasformato in soldati e/o schiavi sessuali almeno 70mila bambini. Kony si
nasconderebbe tra le foreste del Congo nordorientale e la Repubblica
Centrafricana: persino i soldati Usa sono impegnati a cercarlo. Un video choc,
da molti contestato, ha fatto il giro del mondo suscitando un dibattito mai
prima conosciuto e Kony è diventato famoso per le sue efferatezze.
Ci
allontaniamo finalmente dalla regione dei Grandi Laghi e troviamo che nel
novembre 2011 è stato consegnato alla cittadina olandese l’ex presidente
della Costa d’Avorio Laurent Gbagbo, 67 anni, imputato del massacro di 3 mila
oppositori politici. Gli sono contestati quattro capi d’imputazione per
crimini contro l’umanità: “omicidio, stupri e altre violenze sessuali, atti
di persecuzione ed altre azioni disumane”, di cui detiene la “responsabilità
penale individuale in quanto coautore indiretto”. Il procuratore capo della
Corte, Luis Moreno-Ocampo, aveva inoltre garantito che Gbagbo non sarebbe stato
l’unico a dover rispondere dei suoi reati alla giustizia internazionale:
“giustizia sarà fatta per le vittime ivoriane di crimini commessi su larga
scala”. E così fu. Anche alcuni dei suoi più stretti collaboratori sono
stati recentemente arrestati e condannati anche se a pene di gran lunga più
brevi.
Resta
libero e saldamente al suo posto, invece, il presidente sudanese Omar al Bashir,
formalmente ricercato “per genocidio”. Con nonchalance s’è presentato ad
inizio di quest’anno a Tripoli e ricevuto con tutti gli onori dal capo del
Consiglio nazionale transitorio libico Mustafa Abdel Jalil e da una sfilza di
dignitari del governo provvisorio. al-Bashir è quel signore sulla cui testa
proprio il procuratore Moreno Ocampo ha messo due ordini di cattura, uno nel
2009 per crimini contro l’umanità e crimini di guerra, uno nel 2010
addirittura per genocidio. Due mandati che “obbligano” tutti i paesi
firmatari dello Statuto di Roma della Cpi ad arrestare l’imputato - nella
fattispecie al Bashir - nel caso ne abbiano la possibilità. Gheddafi non firmò
la Convenzione e secondo il “diritto internazionale” nulla è dovuto.
Prendiamo atto. Con la stessa nonchalance il genocidario ha fatto domanda al
Consiglio per i Diritti Umani dell’Onu di farvi parte. Il Sudan è uno dei 5
Stati africani aventi diritto. Imbarazzo mondiale.
Lo
scorso giugno, infine, è stato condannato l’ex presidente della Liberia
Charles Taylor. 50 anni di carcere. Una corte speciale internazionale lo ha
riconosciuto colpevole per gravi crimini di guerra – fra cui stupri, omicidi e
saccheggi commessi tra il 1996 ed il 2002. Trattasi di una sentenza storica in
quanto è la prima volta che un Presidente viene condannato. Taylor ha
utilizzato i famosi “diamanti di sangue” per finanziare la guerra in Sierra
Leone. Secondo P. Caglioni “Giustizia andrebbe fatta anche in un’altra
direzione. Penso alle compagnie straniere che hanno immesso i diamanti sul
mercato internazionale, grazie all’intermediazione di Taylor. Senza la
connivenza di queste società, la guerra in Sierra Leone non ci sarebbe
stata”.
Oltre
la metà dei bambini africani è “inesistente”
Agenzia Fides - Johannesburg - 5 settembre 2012
Nascono,
vivono, muoiono ma non risulta che siano mai esistiti: oltre la metà dei
bambini africani ancora non viene iscritta all’anagrafe al momento della
nascita e di conseguenza rimane priva di ogni diritto, risultando cittadino
“inesistente”. E’ emerso nella II Conferenza sul Registro Civile, in corso
a Durban, in Sudafrica, organizzata dal Fondo per l’Infanzia delle Nazioni
Unite (UNICEF). Secondo i calcoli fatti, in una zona rurale povera, dove la
gente vive con meno di 1 dollaro al giorno, un residente dovrebbe pagare 25
dollari per registrare la nascita del proprio figlio in un centro urbano e
ottenere il certificato. Nel XXI secolo sopravvive ancora questo retaggio di
colonialismo che non prevede l’iscrizione dei nascituri all’anagrafe. Tra
gli altri rischi di questa grave mancanza, nel caso in cui i minorenni siano
arrestati, vengono trattati secondo le leggi applicate per gli adulti, visto che
non esistono documenti che certificano la loro età. Il fenomeno è stato
rilevato come particolarmente grave in Somalia, Sud Sudan e Uganda.
Vescovi asiatici a Bangkok per rilanciare l'evangelizzazione nel mondo
digitale
Radiovaticana
- 8 settembre 2012
Si
è concluso oggi a Bangkok, in Thailandia, l’ottavo convegno di studi dei
vescovi asiatici per le comunicazioni sociali (Biscom VIII) sul tema “I media
sociali: la navigazione, il blogging, il fare rete, il gioco e la dipendenza.
Sfide e opportunità per la Pastorale della comunicazione in Asia”.
L’evento, organizzato dall’Ufficio delle Comunicazioni Sociali (Osc) della
Federazione delle Conferenze episcopali asiatiche, ha visto la partecipazione di
rappresentanti di 12 Paesi dell'Asia meridionale. Sull’ importanza di questo
incontro, che si è svolto a ridosso dell’Anno della Fede, padre Joseph
Paimpalli della nostra redazione indiana, ha intervistato suor Angela Zukowski,
religiosa delle Missionarie ausiliarie del Sacro Cuore, docente presso
l'Università cattolica mariana di Dayton, presente a Bangkok:
R.
- Penso che l’Anno della Fede sia un’occasione molto stimolante per dare una
nuova immagine alla Chiesa nel 21.mo secolo, soprattutto attraverso le nuove
tecnologie e i nuovi social network che caratterizzano l’era digitale. Stiamo
vivendo un periodo molto interessante e quello che stiamo cercando di fare
all’Università cattolica mariana di Dayton è di sfruttare questa era
digitale attraverso metodi come l’e-learning per ciò che riguarda la
formazione religiosa. Abbiamo portato a termine un progetto iniziato nel 1996,
che prevede la formazione religiosa on-line non solo per adulti, ma anche per
catechisti e persone della terza età. Ci sono molti cattolici adulti che
vogliono approfondire la conoscenza della loro fede, anche se negli ultimi anni
si sono allontanati, magari perché sono semplicemente incuriositi dai corsi
offerti in questo campo. Dare loro la possibilità di essere on-line e seguire i
corsi attraverso internet, insieme ad altre persone connesse da molte altre
parti del mondo, dà veramente la possibilità di fare una riflessione critica
circa il modo in cui ciascuno può vivere la propria fede e crescere nel
rapporto con Gesù, formando allo stesso tempo una forte e-community in rete.
Ma
quale può essere il ruolo dei “social media” nella Chiesa? Risponde il
giornalista indiano Allwyn Fernades che ha partecipato all'evento:
R.
- I social media sono una nuova realtà che pone alla Chiesa delle nuove ed
enormi sfide, ma anche un’opportunità per farsi conoscere. Il Web 2.0 ha
aperto un nuovo universo interattivo: un universo in cui le persone possono
interagire le une con le altre in tutto il mondo, condividendo informazioni ed
opinioni attraverso parole ed immagini. I social media incoraggiano la gente a
ricercare informazioni, ricercare idee, ricercare persone e a condividere tutto
questo istantaneamente in rete. “Cercare” e “condividere”: sono queste
le due parole chiave del mondo dei social media. Quando parliamo di
“cercare” e di “condividere” non sentiamo forse suonare un campanello?
Non è forse il messaggio di Gesù? Cercare la verità e condividerla; cercare
le buone notizie e condividerle. E’ per questa ragione che ritengo che la
Chiesa abbia molto da dare ai social media: incoraggiare anzitutto la gente a
ricercare la verità nelle loro case, nella loro realtà sociale, nel mondo
politico e quindi condividere le buone notizie con gli altri. E’ per questo
che sono molto felice che anche il Papa abbia utilizzato Twitter. Sono molto
felice di vedere come la Chiesa sia ora presente nei social network. Inoltre
bisogna anche sottolineare che i social network promuovono certamente la
democratizzazione del mondo: sono, infatti, riusciti a ridurre le distanze con
le gerarchie del potere, perché hanno insegnato alle persone come rispettarsi
reciprocamente e rispettare le diverse opinioni, senza preoccuparsi di dare
importanza al loro ruolo. A margine dell’incontro, mons. Chacko
Thottumarickal, vescovo indiano di Indore e presidente dell’Ufficio delle
comunicazioni sociali dei vescovi asiatici, si è soffermato sulla nuova
applicazione della Radio Vaticana per i sistemi Android. “Ora la Radio
Vaticana si sposta con te, ovunque tu vada, puoi avere accesso alle news anche
sul tuo cellulare”, ha detto il presule che ha poi sottolineato come
l’applicazione sia ora disponibile in lingua inglese e italiana, mentre
“successivamente verranno incluse altre lingue”. L’applicazione della
Radio Vaticana per Iphone sarà pronta nelle prossime settimane.
Cartoline dall'Algeria - 88 di p. Silvano Zoccarato
Touggourt
17
settembre 2012
Quale senso di Dio?
Nel dialogo con persone di diversa religione e cultura si è spesso confrontati sull’idea di Dio, del giudizio finale e di altri temi importanti.
Così si pensa di fronte a Dio il teologo Maurice Zundel:
Chi non si è sentito spinto a pregare davanti a un bambino che riposa sulle sue braccia?
E’ la più bella immagine dell’ultimo giudizio, silenzioso incontro con l’innocenza di Dio.
Questo è Dio! Non minaccia, non altolà, non proibizione, non vendetta.
Ma amore in ginocchio che attende dall’eternità il sì del nostro amore senza il quale non può farsi e stabilirsi il Regno di Dio: il contrario di ciò che si immagina.
Signore, aiutami ad essere una persona veramente umana, a fare della mia vita uno spazio senza limiti, dove il mondo intero sia accolto e ogni creatura si senta accolta nella sua nobiltà e dove si respiri la tua presenza.
Fammi trasparente della tua presenza e insegnami ad essere il sorriso della tua bontà.
Per riassumere la mia fede: Credo che l’altro è vivo in me. Credo a un Dio che rischia. Credo alla tragedia eterna dell’Amore crocifisso e alla fragilità di Dio, perché niente è più forte dell’amore e niente è più fragile.
21
settembre 2012
Amare è far vivere Dio
Nei dialoghi con amici di diversa religione l’idea di Dio è la più frequente. Ma questo anche in Italia. Un amico mi scrive: “Ci immaginiamo un Dio a distanza, collocato un po' al di là di noi, al limite della dimensione, sufficientemente metafisico…”
Sant’Agostino invece invita a trovare Dio al cuore della vita: “Ritorna al tuo cuore e da lì al tuo Dio, perché il cammino non è lungo dal tuo cuore a Dio. Tutte le difficoltà vengono perché sei uscito da te: ti sei esiliato dal tuo proprio cuore, ritorna al tuo cuore”.
E’ meraviglioso sentire questa comunione di cuore a cuore con Dio… di essere una sola esistenza, interdipendenti, solidali.
Nel libro di Jean-Marie Ploux Dieu n’est pas ce que vous croyez (Dio non è quello che voi credete) trovo queste riflessioni :
« La parola di Dio ha bisogno dell’umanità. Maria dona il suo corpo perché la Parola nasca in Gesù. Questo è stato vero, a un altro titolo, anche quando Dio ha avuto bisogno di tutta l’umanità, di tutti i profeti, di tutti coloro che hanno accolto la Parola di Dio nel loro cuore e che vivono di Essa. Senza un “sì” degli uomini, non c’è parola di Dio tra loro. Alla fine della enciclica Dio è amore, Benedetto XVI invita a “vivere l’amore e in questo modo a far entrare la luce nel Mondo”.
Helly Hettisun, giovane donna ebrea, assassinata a Auschwitz ha lasciato scritto: “Mi appare sempre più chiara una cosa: non sei tu Dio che puoi aiutarci, ma noi possiamo aiutarti e facendo ciò aiutare noi stessi. E’ tutto quello che noi possiamo salvare in questa epoca ed è la sola cosa che vale, un po’ di te in noi, mio Dio”.
Molta gente ha aiutato Dio negli altri e a renderlo visibile ai nostri occhi perché si erano chiusi.
Un giovane disse un giorno che amare è far vivere Dio…
Dio non agisce come un mago, ma si fa sentire vivo e ci accompagna perché noi siamo più umani in tutto ciò che viviamo”.
26
settembre 2012
Parlare
coi tatuaggi
Lucienne Brousse della congregazione Soeurs Blanches ha appena pubblicato il libro Beauté et identité féminine con foto e disegni dei tatuaggi femminili berberi delle regioni di Biskra e di Touggourt raccolti dalla consorella Eliane Ocre, infermiera in Algeria.
Scrive: “Nelle tradizioni millenarie presenti in tutti i continenti, il tatuaggio “arte del corpo” è un mezzo per comunicare, identificarsi, ornarsi. E’ una sorte di scrittura decifrabile da chi è iniziato. Un linguaggio…!
Questo studio modesto salva dall’oblio i disegni raccolti da Eliane, con un po’ di interpretazione, per quanto è possibile”.
I più frequenti sono: la luna e la stella, la palma, l’uomo, il palo centrale della tenda, l’occhio della pernice, la capra, la gazzella, lo scorpione, il serpente, il pettine per cardare la lana.
Alcuni esempi con spiegazione:
Sul mento: una donna vedova si tatua il mento per ridare vita alla barba del marito come segno di fedeltà. Desidera anche proteggersi dalla sorte cattiva e esorcizzare la sua sofferenza.
Piatti, bicchieri, tavola: sulle braccia la donna ricorda al marito quanto è necessario a una casa ben fornita.
Scanno: sulla mano e sulle braccia la donna dice l’uso di accogliere il marito presentandogli il “piccolo banco” perché si metta comodo, pronta a lavargli i piedi.
Gioco spingendo un sasso coi piedi: La donna interrogata sul suo tatuaggio sulle braccia spiega che da piccola non ha potuto giocare per tutto il lavoro che doveva fare. Ora vuole che le sue figlie possano giocare.
Porta del cofano con chiave: la porta dice accesso a un mondo segreto. Solo l’iniziato può entrarvi. La donna interrogata ha detto che ha confidato le sue pene al suo cuore per trovarvi la forza di superarle e che si confida solo alla persona di cui può fidarsi.
La
Palma. La palma in tante civilizzazioni è segno di fecondità e di
vittoria. Infatti vive lungamente e fruttifica fino alla morte. I Babilonesi,
secondo un rapporto di Plinio il Vecchio vantavano una specie che coi suoi
elementi poteva essere lavorato e dare 360 prodotti.
La
croce a braccia uguali: la croce ha ovunque un senso cosmico. Una mamma che
con la mano segnava suo figlio dalla testa in giù e lungo le braccia, disse:
“Dal nord al sud, ovunque tu vai, la felicità ti accompagni e che tu abbia
una vita sicura e piena”.
Oggi
i cantanti moderni ricordano il proverbio : “Non c’è tatuaggio
senza sangue”, “Bisogna soffrire per essere belle.”
Sui bambini
abbandonati altri dati sono necessari, il traffico di esseri umani
Irinnews – Dhaka - 6 settembre 2012
E'
necessario
Traduzione
ed adattamento a cura di Banglanews
|
I
bambini in Bangladesh, abbandonati dai loro genitori, sono
vulnerabili ai trafficanti, ma affrontare il problema è ostacolato dalla
mancanza di dati sui bambini scomparsi, dicono gli operatori umanitari. "Abbiamo
salvato una bambina da un bordello dopo aver ricevuto una chiamata da un cliente
dello stesso che ha detto che la ragazza gli ha chiesto di salvarla",
ha detto Rahena Chowdhury, un assistente sociale per Aparajeyo Bangladesh, una
organizzazione nazionale dei diritti dell'infanzia. "Non
mi ricordo il nome dei miei genitori o l'indirizzo, ma mi ricordo che mi amavano
molto e mi manca la famiglia", ha detto la quattordicenne Mossamat Monira
Begum. Monira
è stata raccolta in strada e mandata in una Madrasa, una scuola religiosa
islamica, all'età di otto anni. Fuggì dalla scuola dopo essere stata molestata
sessualmente e rimane ora in un rifugio a Dhaka della NGO Aparajeyo Bangladesh.
"Io non voglio più stare senza i miei genitori. Voglio tornare il più
presto possibile ", ha detto Jharna Begum, di sei anni, che vive nello
stesso rifugio. Jharna è stata separata dai suoi genitori quando il governo ha
demolito una bidonville a Dhaka. I
bambini possono soggiornare in questo rifugio, dove ricevono anche un'istruzione,
fino all'età di 18 anni. "Mentre sono qui, continuano a cercare i loro
genitori, con l'aiuto di agenzie umanitarie", ha detto Ruksana Begum,
gestore del rifugio Aparajeyo. |
Operatori umanitari e funzionari
governativi dicono che ogni anno migliaia
di bambini trafficati dal Bangladesh verso altri paesi non vengono denunciati.
Michael McGrath, direttore regionale di Save the Children Bangladesh, ha detto a IRIN che "Non possiamo essere certi sul numero effettivo". "Le statistiche affidabili [solo sui bambini scomparsi] sono quelle che si riferiscono al numero di figli 'salvato' ogni anno, e il numero di casi aperti contro i trafficanti o trafficanti condannati ogni anno.
Tuttavia,
secondo Abdul Quader, responsabile del programma Plan International, nel corso degli ultimi 10
anni circa
200.000 donne del Bangladesh sono state attirate con l'inganno nel settore
sessuale nei paesi limitrofi. Altri confermano un
dato ancora più elevato.
Sui bambini scomparsi in
Bangladesh sono disponibili pochi
dati, la principale fonte di informazione è data dai rapporti di polizia
e dai media.
Shabnaaz Zahreen, uno specialista dell'UNICEF di
Dhaka ha detto che "La
mancanza di consapevolezza tra le masse e l'assenza di un sistema di reporting a
livello nazionale integrato non tiene conto di un gran numero di bambini
scomparsi.
Secondo
Nasima Begum, direttore generale del Dipartimento di Servizio Sociale, "gli
sforzi di coordinamento tra Ministero dell'Interno, Ministero della previdenza
sociale, l'Ufficio di Statistica del Bangladesh e di agenzie non governative
dovrebbero migliorare la qualità della raccolta dei dati sui bambini
abbandonati o dispersi nel Bangladesh ".
Mentre il governo sta facendo progressi nelle zone di raccolta dei dati, ad esempio, il suo tentativo di registrare i dati di nascita online per combattere anche gli alti livelli di matrimonio precoce, McGrath di Save the Children ha detto che "è evidente la necessità di sistemi di monitoraggio più accurati, in modo da poter disporre di statistiche attendibili".
Per combattere il traffico di bambini nel 2010 il governo, in collaborazione con UNICEF e Dhaka City Corporation, ha istituito un numero verde, una specie Telefono azzurro.
Zannatul Ferdous Nishu, un assistente sociale di Aparajeyo Bangladesh, ha detto che dal 2011 l'ONG aveva salvato 312 bambini grazie al servizio di assistenza mediante il numero verde.
Secondo
il Dipartimento di Stato statunitense del 2012 Trafficking in Persons Report, i
bambini del Bangladesh sono vittime della tratta interna per sfruttamento
sessuale, servitù domestica, e lavoro forzato, compreso l'accattonaggio
forzato. Il Bangladesh non è del tutto conforme con gli standard minimi per
l'eliminazione del traffico, tuttavia, sta facendo notevoli sforzi, conclude il
rapporto.
Studenti
donano sangue per protesta contro la corruzione nell'università
AsiaNews - Dhaka - 4 settembre 2012
Da
mesi alunni e insegnanti della più importante università tecnica del Paese
chiedono le dimissioni del rettore e del vice-rettore, per episodi di
favoritismi in base al colore politico. In risposta, il rettore ha chiuso la
facoltà “anticipando” le vacanze per il Ramadan.
Donare
il proprio sangue per rivendicare il proprio diritto allo studio senza ingerenze
politiche, né corruzione: è la forma di protesta scelta da centinaia di
studenti e professori della Bangladesh University of Engineering and Technology
(BUET), la più antica e importante facoltà tecnica del Paese. Da oltre tre
mesi alunni e corpo docente chiedono le dimissioni del Vice Chancellor (Vc, il
rettore), Nazrul Islam, e del Pro-Vice Chancellor (Pro-vc, il vicerettore),
Habimur Raman, accusandoli di fare favoritismi in base all'appartenenza
politica.
Gli
studenti contestano al Vc di aver trasgredito uno dei punti cardine del
regolamento accademico, secondo il quale per assumere un incarico nella
dirigenza della facoltà, non ha importanza il grado di anzianità, ma le
qualifiche acquisite in precedenti esperienze amministrative. Il prof. Raman,
nominato da Islam come suo Pro-Vc, non rientrerebbe in questo profilo, ma
sarebbe stato imposto dal governo per ragioni politiche. Alla richiesta di
presentare le dimissioni, il Vc non ha cercato il confronto e ha invece chiuso
l'intera facoltà il 10 luglio scorso, "anticipando" di 30 giorni le
vacanze per il Ramadan.
Concluso
il mese sacro di digiuno, il Vc ha riaperto il BUET, ma studenti e professori
rifiutano di riprendere le lezioni, e alle aule hanno preferito sit in e cortei.
In tutta risposta, due giorni fa il rettore ha sporto denuncia contro un
centinaio di insegnanti, accusandoli (in modo falso) di atti di vandalismo,
furto e danni agli uffici del Vc e del Pro-Vc. Invece di cadere nella
provocazione, ieri alcuni studenti si sono riuniti fuori dall'università e
hanno raccolto ciascuno una bottiglietta del proprio sangue. Poi, hanno
spruzzato alcune gocce sulle scale di fronte all'ufficio del Vc, parlando di
"spargimento volontario di sangue". Dopo aver tenuto una processione
intorno al campus, anche degli insegnanti si sono uniti a loro e hanno deciso di
donare il sangue.
Rinascimento senza umanesimo
di Fabio Pipinato
Unimondo
- 5 settembre 2012
L'aereo
era semivuoto per lo scalo a Kigali. Pochi intimi sino a Bujumbura.
Eppure
il paese avrebbe i numeri per attirare folle di turisti... Aeroporto nuovo con
corsia Vip. Parcheggio fiorito. Boulevard con nuova illuminazione a pannello
solare, marciapiedi, scoli per le acque torrenziali profondi ampi e puliti,
rotonde e nessun semaforo, colline coperte di foreste e tramonto sul Tanganica.
What else?
“Unitè
– Travail – Progress” è il motto descritto a chiare lettere nel monumento
principale attorniato dalle tombe dei martiri della Democrazia. Il monumento è
in un parco fiorito ove con sassi bianchi son riportate le date 1962 – 2012.
50 anni d’ “indipendenza”....(sofferta).
Nessuno
speculatore edilizio si può avvicinare ai parchi della memoria ove sono eretti
busti piuttosto brutti dei padri della Patria. Il governo li ha coperti; li
cambierà.
Rinascimento.
Scriveva 20 anni fa Jeune Afrique. Erano i tempi del presidente Ndandaye e del
Frodebu (Fronte Democratico Burundese). Il presidente fu ucciso nel 1993 a soli
100 giorni di governo e “gli uccelli smisero cantare”; la popolazione si
sollevò e l’esercito la represse. La gente tagliò gli alberi per barricare
le strade e distrusse i ponti per non far arrivare i militari nelle colline.
Migliaia di morti e milioni di profughi o sfollati. (Ricordo personalmente quel
periodo avendo lavorato per Caritas Rwanda nei campi profughi burundesi
oltreconfine).
Ci
provarono tutti i “grandi vecchi africani” a mediare. Da Nyerere a Mandela.
Era il tempo in cui ben 3 ministri caddero con l’elicottero...causa
“incidente” e non fu un caso che Mandela rifiutò d’andare all’eliporto.
“Forse Sua Eccellenza è stanca...se prende l’elicottero in pochi minuti sarà
già nel Suo hotel”. “Grazie per la Sua gentilezza ma preferisco andare in
auto... Con lei”.
E
così si susseguirono molte mediazioni, nuovi conflitti, altrettanti presidenti
come Buyoya sino all’attuale “pace apparente” con Pierre Nkurunziza unico
candidato alla presidenza. Un ex ribelle. Una sorta di prestanome di una cupola
ben consolidata.
L’opposizione
aveva ritirato i propri candidati ed alcuni si erano dati alla clandestinità,
ma le “elezioni farsa” per la comunità internazionale furono
“relativamente regolari”. La verità sacrosanta è che la popolazione è
stanca di guerre, conflitti, attentati, tentati golpe. Causano fame, miseria,
abbandono di abitazioni, campi, animali e scuole. Non è più disposta a
“prender parte” contro....e sa perfettamente che la situazione attuale ha
ben poco a che vedere con la democrazia ma non vuole certo piombare nel caos
troppe volte conosciuto.
Vuole
vivere; chiede più scuola bus e meno camion militari, più trattori e meno
carri armati.
Ora
il Burundi sta vivendo un rinascimento apparente che ci ricorda i 100 giorni di
Ndandaye. Si lavora per la ricostruzione più estetica che morale. I più si
sentono comunque parte di un sogno, di un qualcosa per... Dal mattino presto
quando il richiamo del Muezzin si confonde con il canto del gallo sino
all’apertura delle molte scuole professionali. Il paese, infatti, necessita di
ottimi muratori, falegnami, elettricisti, idraulici, camerieri e cuochi perché
si vuol recuperare il tempo perso.
Il
paese cresce. Sia in Pil che in altezza perché, almeno nella Capitale, non è
più possibile edificare un solo piano. 9 milioni di abitanti per un territorio
pari alla Sicilia con poco territorio coltivabile, peraltro sempre meno fertile,
obbliga a salire di più piani. Cantieri con impalcature traballanti in ogni
dove (626?), betoniere, cemento e mattoni. L’architettura è un mix culturale:
nordeuropa-afro-india. Non male in centro città; peccato che molti degli
edifici sono stati costruiti con i proventi dei diversi conflitti. Ogni guerra
porta con sé non solo disperazione per i più, ma anche sovrabbondanza per
alcuni; e talvolta nemmeno per pochi. Certe coperture avveniristiche di
palazzine per uffici hanno colori che urlano e che scimmiottano lo sviluppo di
alcune capitali occidentali.
Appena
fuori le direttrici principali tirate a lustro che sembrano fatte più per gli
investitori stranieri che per la gente siamo alle solite: strade sterrate con
voragini e quartieri insicuri.Il paese, per l’appunto, ha anche bisogno di
architetti, avvocati, psicologi, medici ma, soprattutto, di una nuova classe
dirigente. Sia l’università statale – ex gesuiti - che quella regalata dal
governo cinese cerca di preparare il futuro e ci si chiede come mai molte
organizzazioni italiane che molto hanno investito in Burundi non abbiano
anch’esse osato la propria Università.
Qualche
buona politica viene già sperimentata: assistenza al parto gratuita, sanità
free sino ai 5 anni; istruzione gratuita per l’età dell’obbligo; bonifica
delle paludi; privatizzazione del caffè; ricambio delle auto obsolete e con
guida a destra (Dubai import), fibra ottica nelle più grandi direttrici. Tutte
queste riforme, che piacciono molto ai donatori internazionali, hanno fatto
aumentare esponenzialmente la domanda di “scuole primarie” e di “centri di
sanità”. Con il lavoro comunitario interi villaggi hanno costruito la propria
scuola ed il proprio dispensario durante i week – end. Piccone e badile per
permettere ai propri figli il diritto di saper leggere e far di conto. Il
Presidente in testa che lavora davanti ad una telecamera ricorda però il
populismo di Mussolini alla raccolta del grano.
Serve
“energia”. L’Ambasciatore burundese in Italia lo va dicendo da tempo:
idroelettrica, solare, biomassa, eolica perché il paese per crescere non può
permettersi più l’andirivieni della corrente elettrica.
Il
Presidente ha chiesto a tutte le municipalità e province di edificare qualcosa
di “bello, utile e popolare” per i 50 anni. Così è stato. Ad onor del vero
non dovrebbe essere una tantum e solo in occasione di un anniversario.
Inoltre
pretese che tutti gli imprenditori ridipingessero a nuovo i magazzini,
fabbriche, shops che si affacciano lungo le arterie principali. Se non lo
facevano sarebbe stato lo Stato a farlo....con tanto di fattura da presentare al
proprietario. “Avete i soldi – disse – fate qualcosa per il vostro
paese”. Insomma la politica dell’apparire funziona. Belle le facciate; un
po’ meno l’interno.
Stonata
è l’ambasciata a stelle e strisce. Nuova di zecca con muri perimetrali alti 6
metri e dimensioni esagerate che occupano un intero quartiere. Non v’è né
Ministero burundese né casa presidenziale così grande... e ciò vorrà pur
dire qualcosa. I diplomatici Usa offrirono “qualsiasi cifra” per
appropriarsi delle case dei vicini cittadini di Buja per mettere parte del
proprio personale Essi si rifiutarono. Orgoglio afro.
Ma
i burundesi lo sanno bene. Con la stessa velocità in cui si può salire si può
anche scendere e, per questo, non vogliono un’ulteriore guerra.
Il
governo dovrebbe fare azione preventiva e cercare di perseguire un umanesimo che
accompagni il suo apparente rinascimento dando giusta attenzione alla persona.
Non procrastinare ulteriormente il problema dei 36.000 rifugiati in Tanzania che
rivendicano proprietà nel paese. Dovrebbe liberare la Magistratura
dall’influenza politica e, conseguentemente, cessare le esecuzioni
extragiudiziali e le uccisioni di matrice politica come testimoniato da Amnesty
(pdf). Dire basta alle carcerazioni preventive di persone innocenti che restano
anche 4 anni senza dossier. Dovrebbe fare chiarezza riguardo tutte le sparizioni
di borghesi ed intellettuali ed anche dell’ergastolo inflitto al collega
Hassan Ruvakuki, giornalista dell’emittente privata Bonesha Fm nonché
corrispondente di Radio France internazionale (Rfi) più altri giornalisti
incarcerati. Perseguire anziché ostacolare la corruzione e convertire le enormi
spese militari in welfare. Istituire una vera commissione d’inchiesta e non
quella che ha appena decretato che dal 2010 ad oggi non è stata fatta alcuna
violazione dei diritti umani. Non prendiamoci in giro. Secondo le Nazioni Unite
sarebbero almeno 61 i casi di violazioni dei diritti umani e omicidi sommari,
commessi nella totale impunità, nel solo 2011. Abbiamo bisogno di sostanza e
non di apparenza.
Dopo le "religioni fallite" di Mao e di Deng, la Cina cerca Dio
(terza parte) di Liu Peng
AsiaNews - Pechino - 6 settembre 2012
Il
vuoto spirituale diffuso in Cina è dovuto ai 30 anni di ideologia della lotta
di classe, di culto della personalità di Mao, di sacrificio fino alla morte:
una vera e propria religione. Ma essa è fallita e ha dato luogo alla frenesia
del "diventare ricchi", creano un società vuota, che scoppia di
contraddizioni fra ricchi e poveri, città e campagna, inquinamento,
sfruttamento, corruzione. Terza parte dello studio del prof. Liu Peng,
accademico cinese delle scienze sociali.
(ndr: prima e seconda parte sono state pubblicate su Banglanews 535 e 536)
La
Cina si trova nel profondo di una crisi spirituale perché inaridita dal maoismo
e dal dengismo. É questa un'ulteriore tesi del prof. Liu Peng, accademico delle
scienze sociali di Pechino ed esperto di religioni, secondo il quale il punto
debole del potere cinese è proprio la mancanza di fede e di libertà di
religione. In questa terza parte, Liu Peng analizza la storia della Cina, la
discreta libertà vissuta nel periodo feudale e la diffusione del maoismo,
dovuta alle promesse di possesso delle terre, dopo aver cacciato i proprietari
terrieri, e alla presentazione della lotta di classe come una religione e Mao
come il suo dio. Il fallimento economico e umano del maoismo ha portato alle
aperture di Deng e all'enfasi sulle trasformazioni economiche e al
"diventare ricchi" come ideale della vita (un'altra pseudo-religione).
Ma nemmeno questo sazia il desiderio spirituale dell'uomo. A tutt'oggi la Cina
si chiede: In che cosa crediamo?
Il sistema religioso nella Cina antica
A
questo punto, qualcuno potrebbe far notare che i temi detti sopra si applicano
solo a nazioni dove tutti o la maggioranza della popolazione credono in una
religione. Essi non possono essere applicati alla Cina perché, fin dai tempi
antichi, Chiesa e Stato non sono stati [mai] unificati e nessuna religione è
mai stata usata come pilastro spirituale o credo ufficiale.
Questa
annotazione riguarda soprattutto il pensiero confuciano, che è stato il
pilastro spirituale della Cina durante il periodo feudale. Se il pensiero
confuciano - detto anche confucianesimo - è o no una religione, rimane un tema
di accalorate discussioni. Molti studiosi hanno cercato di dimostrare che il
confucianesimo è una filosofia o un differente concetto rispetto alle religioni
stabilite quali buddismo, taoismo, cristianesimo o islam. Queste
giustificazioni, con buona logica e sufficiente evidenza, hanno fatto emergere
molte caratteristiche del confucianesimo, che non appartengono alla religione.
Si può pensare che, derivate da simili analisi, tali conclusioni siano
inoppugnabili. Ad ogni modo, queste giustificazioni sono di fatto costruite
sulla falsa premessa che il confucianesimo è una religione simile alle
religioni stabilite dell'occidente. Tale premessa sottolinea le forme esterne
della religione e guarda con superficialità gli aspetti comuni fra l'essenza
del confucianesimo e la religione dal punto di vista della prospettiva
funzionale della fede.
Durante
il periodo agricolo feudale, era naturale enei migliori interessi dei
governanti feudali cinesi mantenere il confucianesimo come credo e sistema di
valori, anche se non era formalmente chiamato una religione. È chiaro che
sebbene le società feudali in Cina non hanno adottato taoismo o buddismo come
loro religioni ufficiali, né hanno dichiarato "religione" il loro
credo confuciano, essi hanno [comunque] consolidato il loro potere mediante un
complesso strutturato di pilastri spirituali e un sistema di fede.
A
confronto con il sistema uniforme di credo seguito dai governanti feudali, la
gente comune del periodo feudale ha goduto di maggiore libertà nello scegliere
queste credenze. Coloro che desideravano combinare la loro fede spirituale con
gli appelli politici e "governare gli affari di Stato e mettere ordine il
Paese sotto il cielo in modo pacifico" potevano entrare nel cerchio
ufficiale e salire sulla ribalta politica superando gli esami imperiali. Coloro
che erano interessati più amete spirituali che politiche, potevano divenire
studiosi o uomini di lettere scrivendo libri e costruendo teorie. Coloro che per
i loro bisogni spirituali consideravano insufficiente il sistema ufficiale di
credenze, potevano volgersi verso religioni stabilite quali il buddismo, il
taoismo, come qualcosa di complementare. La gente comune, esclusi coloro che
praticavano i riti di Confucio e Mencio, potevano creare anche varie forme di
credo popolare. Tutte queste credenze hanno dato luogo nell'antica Cina a un
sistema di fedi a più livelli e multidimensionale. Il confucianesimo, il
sistema ufficiale ed ortodosso promosso dall'imperatore, era in cima. Le
religioni stabilite di buddismo e taoismo erano nel mezzo, le credenze popolari
erano alla base.
Persone
di classi differenti andavano d'accordo fra loro senza problemi, ognuno
prendendo ciò di cui aveva bisogno e facendo ciò che essi consideravano
giusto. Ciò che teneva insieme queste fedi a tre livelli era la cultura cinese
tradizionale, qualificata dai caratteri cinesi. In breve, sebbene il periodo
feudale della storia cinese ha testimoniato cambiamenti di dinastie e invasioni
straniere, esso non ha sperimentato cambiamenti radicali nel sistema di fede
della società. Non vi erano conflitti tra la famiglia e la nazione, la corte e
la popolazione, l'individuo e la società in termini di identificazione di fede
e di orientamento nei valori. Anche se le dinastie e gli imperatori cambiavano,
esse rimanevano le stesse. In tal modo, la Cina antica non ha sperimentato una
"perdita di fede".
La
fede in Cina nel XX secolo
La
Rivoluzione del 1911 ha rovesciato l'ultima dinastia feudale della Cina, ha
dichiarato la fine del millenario sistema confuciano di governo ed ha aperto per
la Cina un nuovo capitolo nella storia. Nello stesso tempo, è entrata in Cina
la cultura occidentale, portando cambiamenti sconvolgenti nell'ambito del
pensiero e dell'ideologia cinese. Nel 1919, al grido di "Abbasso il
confucianesimo", da parte degli intellettuali progressisti, il Movimento
della Nuova cultura ha messo le basi per la trasformazione della fede nella Cina
contemporanea. Come risultato, sono crollati gli idoli spirituali che avevano
dominato il pensiero cinese per diverse migliaia di anni. E i cinesi hanno
iniziato a domandarsi: "In che cosa dobbiamo credere ora?".
Come
individui, la gente comune poteva continuare a credere in confucianesimo,
buddismo, taoismo, o magari cristianesimo [protestante - ndr], cattolicesimo, o
religioni popolari. Ma per la nazione o lo Stato, l'antico sostegno spirituale
offerto dal confucianesimo doveva essere sradicato. Gli intellettuali radicali
hanno presentato alla Cina "Mr Democracy" e "Mr Science"
[democrazia e scienza - ndr], nella speranza che questi concetti avrebbero
potuto rimpiazzare il sistema di credo feudale. Ondate di nuove idee e nuovi
pensieri, una dopo l'altra, sono cominciate ad entrare. I cinesi si sentivano
smarriti per la distruzione dei fondamenti spirituali dell'antico feudalesimo,
ma allo stesso tempo erano eccitati e timorosi della rapida crescita di così
tanti "ismi". La sofferenza della gente è aumentata con la salita e
la caduta dei presidenti dell'appena fondata Repubblica di Cina; con gli
svergognati politici e signori della guerra; le invasioni straniere, il
disordine sociale causato dal collasso del sistema feudale. Ogni persona era
costretta a domandarsi: "Dove sta andando la Cina?".
È
a questo punto che marxismo e comunismo sono stati introdotto in Cina,
attraverso la rivista New Youth, fondata da Chen Duxiu e Li Dazhao,
rappresentanti della cultura progressista. In termini di fede, il marxismo, con
la sua ricerca di giustizia sociale e la fine dell'oppressione e dello
sfruttamento, era una luce splendente nella Cina burocratica e corrotta dei
primi del '900, e ciò offriva speranza per un'indipendenza nazionale e un
rinascita del popolo cinese.
Ad
ogni modo, la via del successo per il marxismo e il comunismo in Cina non era
facile. I contesti sociali e storici sono molto diversi da quelli che hanno dato
la luce alla Rivoluzione d'Ottobre del 1917 in Russia. In quanto Paese agricolo,
dominato dai proprietari terrieri, la Cina non sembrava offrire la giusta base
per far crescere il marxismo e il comunismo e far partire una rivoluzione
proletaria. Mao Zedong, il grande statista emerso al momento giusto, ha capito
in pieno le enormi differenze esistenti fra Europa e Cina, le élite
intellettuali e i lavoratori e i contadini; fra l'idealismo e l'istinto
utilitaristico. Invece di sottolineare e ripetere dottrine marxiste, Mao ha
inventato una versione cinese del marxismo basato sulla situazione presente
della Cina, assumendo tutto il potere politico, motivando i contadini, lanciando
una rivoluzione agraria e usando le aree rurali per circondare le città.
La
storia ha mostrato che versione maoista del marxismo si è dimostrata esatta in
modo completo. Attraverso complicate e feroci lotte interne nel Partito, il
Partito comunista cinese alla fine è giunto all'accordo o al riconoscimento di
Mao Zedong come il leder rivoluzionario cinese con maggiore autorità. Ma pochi
hanno notato il significato profondo del facile slogan che Mao ha usato per
motivare i contadini analfabeti, e cioè: Fa' cadere i despoti locali e
ridistribuisci la terra". Perfino oggi, molte persone non riescono a
comprendere perché sapienti professori non sono riusciti ad ottenere il
sostegno dei contadini, mentre Mao è riuscito a formare un esercito
rivoluzionario e a costruire delle basi rivoluzionarie. La chiave del successo
di Mao sta nella sua basilare teoria marxista, così super-semplificata che
ognuno poteva capirla e convincersi ad usarla in una lotta per la propria
sopravvivenza. Concetti quali plusvalore, partito politico e Stato erano troppo
sofisticati da capire per dei contadini. Ciò di cui avevano bisogno era uno
slogan popolare, facile da capire. "Fa' cadere i despoti locali e
ridistribuisci la terra" era insieme l'appello politico del Partito
comunista e lo scopo della partecipazione dei contadini alla rivoluzione.
Questo
scopo ha cambiato la prospettiva di vita per milioni di persone, ed è divenuta
il credo spirituale per cui hanno lottato. La questione se, dopo aver fatto
cadere i despoti, la terra sarebbe stata davvero ridistribuita, e se davvero
l'avrebbero posseduta, è qualcosa che non preoccupava i contadini, tutti
desiderosi [solo] di cambiare la propria situazione. Con simili strenui
sostenitori della versione cinese del marxismo, la rivoluzione cinese è andata
avanti ed è giunta infine al successo.
Naturalmente,
Mao permetteva a coloro che entravano nell'esercito rivoluzionario di mettere la
loro fede solo nel guadagno di un pezzo di terra e di lottare per vendette
personali. Egli aveva capito che le fedi stabilite hanno continuo bisogno di
migliorare e che l'oggetto della fede aveva necessità di essere sistematizzato
e santificato. Egli aveva anche capito che per distinguere se stessa dai
banditi, l'armata rossa doveva avere una missione chiara che incarnava la santità
della religione e serviva come una fede da perseguire con volontà e sacrificio.
Il
marxismo non era una religione, ma bisognava dargli l'apparenza di una
religione. Ogni soldato di questa armata rossa doveva credere in modo assoluto e
incondizionato alla correttezza dello scopo rivoluzionario ed essere pronto al
sacrificio della sua vita in ogni momento per la causa rivoluzionaria guidata
dai leader comunisti. Tale causa deve essere presentata come "sommamente
bella" e "sommamente magnifica", così da dominare [richiedere]
le vite di milioni di persone. Se paragonata a un simile sommo scopo, tutta la
persona, inclusa la sua vita, diviene insignificante e trascurabile. Prendere
parte alla rivoluzione guidata da Mao richiedeva una trasformazione completa, da
una persona comune a un seguace leale del marxismo cinese. La trasformazione era
un processo di accettazione e riconoscimento di questa nuova fede come una
religione, attraverso cui la gente avrebbe stabilito un nuovo credo e tratto
significato per la loro vita. . "Fa' cadere i despoti locali e
ridistribuisci la terra" non era più uno strumento per interessi
personali, ma parte di una grande "causa". I partecipanti a questa
"causa" non erano più comuni contadini che volevano fare fortuna o
prendersi una vedetta, ma idealisti diretti verso uno scopo a lungo termine,
dotati di credo e ideali rivoluzionari.
Nel
1949, col supporto di alcuni milioni di strenui sostenitori armati del marxismo
cinese, Mao ha assunto il potere nazionale con successo e fondato la Repubblica
popolare cinese. Le parole chiavi usate per descrivere le rivolte sociali di
larga scala e le trasformazioni che hanno avuto luogo dal 1911 a 1949 possono
essere ben descritte come "rivoluzione militare" (comprese le attività
di difesa nazionale durante la guerra Sino-giapponese). Questa magnifica
rivoluzione militare, durata oltre 30anni, con il coinvolgimento di centinaia di
milioni di persone era la migliore espressione di fede politica cinese in quel
periodo. Essa era targata "marxismo" (che comprendeva patriottismo e
nazionalismo); il suo contenuto era "liberazione" e il suo interprete
più autorevole era Mao.
Tale
rivoluzione aveva la sua base in una fede sostenuta da centinaia di milioni di
persone; uno scopo fondato su questa fede; una ragione convincente per unire il
popolo cinese nella lotta; un forte esercito di ambiziosi idealisti. La
rivoluzione cinese guidata da Mao non è stata solo un successo militare. È
stata anche un successo in termini politici, di spirito e di credo. Tali
successi hanno contribuito alla vittoria totale del Partito comunista cinese nel
1949. A confronto, i "Tre principi del popolo" sostenuti dal
Kuomintang non sono mai divenuti l'oggetto di una fede per centinaia di milioni
di contadini e operai, e non si sono mai trasformati in una religione. I
"Tre principi del popolo" si sono dimostrati solo uno slogan, non una
fede o una religione. Le élite del Kuomintang gridavano questi slogan, ma non
ci credevano sul serio e non hanno avuto l'intenzione di compierli, anche se vi
erano alcuni pochi idealisti desiderosi di sacrificarsi per la realizzazione di
questi principi. Come conclusione, per il Kuomintang i "Tre principi del
popolo" non erano che una bandiera su una vecchia ribalta politica. Le basi
di fede, i pilastri spirituali del Kuomintang erano in effetti vuote parole. E
un partito senza fede è destinato a fallire.
La
fondazione della Repubblica popolare cinese nel 1949 è stata il successo di una
rivoluzione definita come "liberazione" (liberazione di classe,
liberazione nazionale, liberazione del Paese). Come mantenere nella gente la
passione rivoluzionaria, la lealtà verso i leader rivoluzionari, la fede nella
causa rivoluzionaria era una questione ben presente nella mente di Mao. Per
risolvere questo problema egli ha fatto della "lotta di classe" il
punto centrale della vita politica dal 1949 al 1976, lanciando un movimento
politico dopo l'altro e ottenendo il risultato di fare gradualmente della lotta
di classe l'oggetto della fede del popolo. Secondo Mao, ciò che il popolo ha
conquistato col sangue e col sacrificio della vita, può ancora essere tolto dai
nemici di classe nascosti in esso, che attendono di colpire ancora. Il
cosiddetto nemico pianificava di far "soffrire una seconda volta" il
popolo dei lavoratori. Per questo i rivoluzionari devono mantenere alta la lotta
di classe, perché "se la lotta di classe è sostenuta, tutti i problemi
possono essere risolti".
Il
pericolo posto dal nemico che complotta di colpire ancora e la necessità della
lotta di classe dovevano essere sottolineati "ogni anno, ogni mese, ogni
giorno".
Dalla
"Campagna dei tre-contro", la "Campagna dei cinque-contro",
la "Campagna di lotta contro Hufeng", il "movimento contro la
destra", il "movimento contro i pro-destra" dei primi anni '50,
fino al "movimento delle quattro purghe" degli anni '60e la
Rivoluzione culturale, la Cina è stata intrappolata in una serie incessante
di movimenti e di lotta di classe. "Ci sono 700 milioni di persone, come
non osare a intraprendere la lotta?". E siccome la lotta ha bisogno
continuo di essere guidata, Mao è divenuto l'unico ad aver diritto di
interpretare il marxismo cinese, con una revisione continua del suo contenuto
riguardo allo scopo rivoluzionario e alla fede.
Mao
ha anche lanciato una purga contro "il clan dei revisionisti nemici del
Partito". Ciò richiedeva la partecipazione di un gran numero di idealisti
e gli sforzi da parte dei leader a tutti i livelli di convertire la causa
rivoluzionaria in una religione e far sì che i leader rivoluzionari fossero
seguiti come leader religiosi. La persona che più ha capito le intenzioni di
Mao è stata Lin Biao, il leader militare incaricato dell'esercito. Egli è
stato il primo a spingere verso il culto di Mao come un idolo e ad elevare i
pensieri di Mao a quelli di una dottrina religiosa. Egli ha promosso in modo
fanatico il maoismo nell'esercito ed era stato designato successore di Mao (la
sua caduta non viene discussa qui).
Nel
1966, dopo il preludio di una serie di movimenti politici, Mao ha lanciato
personalmente "la Grande Rivoluzione culturale proletaria", spingendo
al culmine la lotta di classe cinese. La Cina ribolliva. Essa divenne il centro
dei movimenti comunisti internazionale, il mare rosso della rivoluzione
proletaria. In questo mare rosso, la classe borghese e tutti i "vecchi
pensieri, vecchie culture, vecchi costumi, vecchie abitudini" sono stati
rovesciati. Lo scopo della rivoluzione era ora la "liberazione dell'umanità".
Il ritmo quotidiano della vita delle persone comprendeva cantare inni
rivoluzionari a lode di Mao; tenere alto con religioso fervore le "tre
lealtà, quattro infinità"; il "lottare contro ogni brandello
di pensiero egoista", e "mantenere nel profondo del cuore la scintilla
della rivoluzione". La "infinita devozione, infinita convinzione"
verso Mao giunse al suo culmine e la fede in Mao e i pensieri di Mao divennero
una religione totale. Mao aveva acceso una "bomba atomica spirituale"
in Cina, il cui immenso potere di spirito e fede aveva scioccato il mondo
intero.
Nel
1976, la morte di Mao e la caduta della "Banda dei Quattro" pone fine
alla Rivoluzione culturale. La lotta di classe " per portare avanti la
rivoluzione sotto la dittatura del proletariato" che aveva avviluppato la
nazione fin dal suo inizio, era giunta al termine.
Oggi,
guardando indietro a quei giorni folli, coloro che sono sopravvissuti a quella
"rivoluzione" hanno emozioni contrastanti. La fanatica e irrazionale
"rivoluzione" ha distrutto la gioventù, la vita, le famiglie di molte
persone, divorato innumerevoli giovani e donne che vi erano leali. La cosiddetta
"rivoluzione" è stata senza dubbio una catastrofe per la storia della
nazione cinese. Eppure, per quanto questa "rivoluzione" sia stata
sbagliata, i partecipanti sono stati sinceri e pii nella loro fede. La pietà ha
raggiunto livelli assurdi e alla fine ha portato a conseguenze disastrose. È
corretto dire che l'abuso e gli eccessi di tale fede assoluta nel comunismo, nei
leader, nel Partito e nella nazione hanno portato poi alla perdita di fede e
alla sfida contro le convenzioni. Avendo sofferto di febbre politica per troppo
a lungo, la gente era stufa ed esausta e voleva una pausa.
Nonostante
l'eredità di Mao (adesso sono 30 anni dalla sua morte, ma vi sono ancora
persone che si sforano di restaurare la fede quasi religiosa nel maoismo; esso
è divenuto perfino il principio guida del Partito comunista nepalese al momento
di prendere il potere), gli annuali sommovimenti politici e le lotte di classe
incessanti hanno condotto l'economia nazionale sull'orlo del collasso,
impoverito la forza produttiva e lasciato la Cina con una profonda mancanza di
beni e di materiali. La febbre verso Mao si è abbassata e Mao è stato rimosso
dall'altare (presente) nel cuore dei suoi adoratori.
Nel
1978, in conformità con la volontà di centinaia di milioni di persone, Deng
Xiaoping ha cambiato la lingua del discorso politico cinese dalla "lotta di
classe" alla "riforma e apertura" e ha condotto la Cina in una
nuova era. Questa è stata una trasformazione storica nella Cina contemporanea.
Nel 1992 Deng è andato per un giro di ispezione nel sud della Cina ed ha
gridato di nuovo l'appello alle riforme. Centinaia di milioni di cinesi, che
ricordavano le riforme di mercato di 14 anni prima, hanno abbracciato la riforma
e l'apertura. Un detto comune era: "In una popolazione di un miliardo di
persone vi sono 900 milioni di businessmen". Gente da tutti gli strati di
vita era attivamente impegnata nel commercio. Se si domandava qual era la loro
fede, ognuno a quel tempo avrebbe risposto senza esitazione che essi credevano
nel "diventare ricchi". Tutti nella nazione condividevano questo scopo
comune, cioè prendere beneficio dalle riforme e diventare ricchi.
Durante
gli anni '80 e '90 la gente in Cina è stata incoraggiata ed eccitata sulle
prospettive della riforma. Il marxismo tradizionale non era più il cuore della
fede del popolo, ma il popolo cinese non mancava di fede. Anzi, ciò che il
popolo cinese credeva può essere riassunto in questo slogan: "sostenere la
riforma e l'apertura, tendere alla crescita della Cina e unirsi per una vita di
benessere".
Dopo
tutto, la riforma è una ridistribuzione degli interessi, e perciò la fede
fondata sul perseguimento degli interessi materiali era destinata ad avere vita
breve. Al contrario del maoismo, che ha trasformato il perseguire la "causa
rivoluzionaria" in una fede di stile religioso, la riforma e l'apertura di
Deng non sono divenute una fede quasi religiosa per l'intera nazione. Ciò non
significa che la gente non desiderava possedere le cose del mondo; al contrario,
il fatto che o scopo della loro vita era ora "diventare ricchi", li
privava della causa di "santità". Dopo tutto, la devozione nel
"diventare ricchi" non è un sacrificio che offre sostegno morale e
spirituale. La ricerca di beni materiali senza il sostengo di motivazioni nobili
e senza atti di carità non sono altro che "adorare il vitello d'oro".
Dopo
la morte di Deng, il Partito comunista cinese ha cambiato due volte la sua
leadership nazionale. La speranza e il desiderio in questa nuova era da parte di
milioni sono stati sbriciolati dalla cruda realtà di una ingiusta distribuzione
dei profitti. Alcuni responsabili ufficiali, in combutta con le classi ricche
emergenti si appropriano delle risorse di capitale e confiscano le proprietà
che appartengono al popolo e alla nazione. La polarizzazione fra ricchi e poveri
è accelerata ela corruzione ufficiale è un problema crescente. Le
caratteristiche principali dello sviluppo economico della Cina sono la crescita
del Pil, lo sfruttamento delle risorse, l'inquinamento dell'ambiente, i
conflitti di interessi e l'incredibile arricchimento da parte di qualcuno.
Coloro che sono ricchi d'un tratto trovano in se stesis un profondo deficit di
spirito e fede, perché capiscono che "il denaro non è onnipotente" e
la felicità non è assicurata dalla ricchezza. L'abbondanza materiale non può
risolvere il problema della povertà spirituale. Molti ricchi si lamentano
perfino, dicendo che "io sono così povero che non ho altro che
soldi". La gente inizia a comprendere che i soldi non solo l'unico scopo
della vita. "Diventare ricco" può essere una necessità , ma ciò che
essi desiderano davvero è una vita piena di significato, basata sulla
ricchezza. E così la questione diventa: "Qual è il vero significato della
vita?". La risposta offerta dai testi scolastici cade subito a causa dei
violenti su e giù del passato. La domanda sulla fede si presenta così a tutti
in modo molto tranquillo. Un individuo deve considerare quale religione, quale
pensiero, quale teoria dovrebbe essere il suo pilastro spirituale. La nazione
deve considerare quale sistema di fede ha la capacitò di unire la volontà e la
fiducia di 1,3 miliardi di persone fino al punto di impegnarsi e fino a volere
sacrificarsi per esso.
Di
certo, è ormai passata l'età della rivoluzione violenta e della lotta di
classe sostenuta dal marxismo, dal leninismo e dal maoismo. Con la dissoluzione
dell'Urss e la sparizione delle nazioni comuniste dell'Europa dell'Est, gli
scopi della "causa suprema della grande internazionale comunista", per
"liberare tutta l'umanità dalle amare sofferenze" sono caduti nel
dimenticatoio. Allo stesso tempo, "adorare il vitello d'oro" è
logorante nella natura e non è capace di sostenere un sistema di credo. Nel
2009, 30 anni dopo le riforme e l'apertura, la Cina è ancora una volta davanti
alla questione: "In che cosa crediamo?".
Cina-Egitto,
i soldi non fanno Primavera di Gerolamo Fazzini
MissiOnLine
- 31 agosto 2012
Il
primo viaggio all'estero del neo-presidente egiziano Morsi è stato in Cina. Un
Paese che ha soffocato sul nascere la Rivoluzione dei gelsomini. Nel sangue.
«Il
Presidente egiziano Mohamed Morsi ha scelto la Cina per la sua prima visita
ufficiale fuori dal mondo arabo, con l'intento di rafforzare i legami con
Pechino e rilanciare gli investimenti nel Paese. Morsi è stato accolto nel
Grande palazzo del Popolo dal suo omologo cinese Hu Jintao, che ha apprezzato la
sua scelta di volare a Pechino per il suo primo viaggio fuori dai confini del
Medio Oriente». Fin qui l’agenzia Afp. Che dà conto anche delle
dichiarazioni dei due interlocutori: «Il fatto che abbiate scelto la Cina come
uno dei primi paesi da visitare dimostra che il vostro Paese riserva grande
importanza allo sviluppo dei rapporti bilaterali», ha sottolineato Hu. Per
tutta risposta Morsi ha detto: «L'Egitto e la Cina vantano entrambi una civiltà
antica, che costituisce una buona base per i nostri scambi».
Come
mai il leader di uno dei principali Paesi del Mediterraneo, dove ha preso il via
la Primavera araba, sceglie proprio la Cina come interlocutore? Forse che
Pechino si è dimostrata, negli ultimi mesi, più sensibile alle istanze di
democrazia, libertà e apertura, come accaduto in Nord Africa?
No,
tutt’altro. Come ha scritto la Boston Review nel settembre 2011 «a febbraio e
marzo anche la Cina sembrava sfiorata da questo terremoto (la Primavera araba,
ndr) e mostrava qualche cenno di risveglio. Ma la rivoluzione dei gelsomini non
ha attecchito. Ben presto ha fatto notizia soprattutto l’implacabile
repressione politica e il fragoroso silenzio dell’opinione pubblica».
E
proprio “Cina, la primavera mancata” è il titolo di un libro (ed. L’asino
d’oro, pp. 150, 12 euro) firmato da quattro giornalisti italiani che hanno
vissuto in presa diretta gli eventi dei mesi scorsi, con la dura repressione
che ha stroncato la Rivoluzione dei gelsomini. La prefazione al volume, molto
interessante, è di Ilaria Maria Sala, una firma che i lettori di Mondo e
Missione e i navigatori di MissiOnLine ben conoscono. Ebbene, se Egitto e Cina
hanno vissuto in modo diametralmente opposto le vicende degli ultimi mesi, qual
è il collante del loro dialogo? Presto detto: il vil denaro.
Stando
ai dati del ministero del Commercio cinese, l’interscambio commerciale tra i
due Paesi ha toccato gli 8,8 miliardi di dollari lo scorso anno, con un
incremento del 40% rispetto al 2008. Dopo l'incontro tra Morsi e Hu, i due Paesi
hanno sottoscritto diversi accordi nei settori dell'agricoltura, delle
telecomunicazioni, del turismo e della ricerca scientifica; Pechino ha anche
promesso di fornire al Cairo le auto per le forze di polizia, mentre la China
Development Bank ha sottoscritto un accordo per 200 milioni di dollari di
credito alla National Bank of Egypt.
Guarda
caso, in concomitanza alla visita di Morsi si è tenuto a Pechino un forum
congiunto di imprenditori a cui partecipano circa 80 uomini di affari egiziani.
Nelle
ditte cinesi legate alla Samsung “gli operai sono trattati come bestie”
AsiaNews - Pechino - 5 settembre 2012
Dopo
la sentenza che l’ha condannata per violazione dei brevetti industriali, un
nuovo scandalo colpisce il colosso coreano: nelle aziende fornitrici in Cina i
diritti dei lavoratori vengono calpestati. Lo denuncia un gruppo americano, che
ammette: “La situazione è la stessa per tutte le aziende del settore, non è
limitata alla Samsung”.
Dopo
la sentenza americana che l'ha condannata per violazione dei brevetti
industriali, la Samsung è di nuovo nell'occhio del ciclone per la drammatica
situazione dei diritti dei suoi lavoratori all'interno delle fabbriche cinesi.
La violazione delle norme sul lavoro è stata denunciata dal China Labor Watch,
un'associazione con base negli Stati Uniti che monitora la situazione degli
operai cinesi, la quale ha accusato la Heg Electronics (succursale cinese della
Samsung) di trattare "come bestie" gli operai.
La
società cinese assembla cellulari per il colosso coreano nella città cinese di
Huizhou: secondo il rapporto del China Labor essa utilizza manodopera con età
inferiore ai 16 anni, costringe gli operai a straordinari non pagati e trattiene
il salario mensile (circa 250 dollari) ai lavoratori che chiedono migliori
condizioni. Inoltre sarebbero frequenti "gli abusi verbali e fisici"
da parte degli ispettori che lavorano nella fabbrica. Sotto inchiesta altre 5
fabbriche sparse per la provincia dell'Henan.
Da
parte sua, la Samsung ha annunciato di aver già avviato l'ispezione di 250
ditte fornitrice cinesi: le ispezioni verranno effettuate su 105 ditte cinesi
che hanno contratti di esclusiva con Samsung, mentre altre 144 aziende cinesi
dovrano fornire una documentazione che provi il loro allineamento alla
legislazione sul lavoro. "Stiamo mettendo in pratica un piano rigoroso - fa
sapere Samsung - che eviti eventuali violazioni". La prima ispezione verrà
effettata da una squadra di 100 addetti a partire dalla fine del mese.
Le
condizioni denunciate dal China Labor all'interno delle fabbriche legate alla
Samsung sono più o meno le stesse di tutto il sistema industriale cinese: il
governo comunista non permette ai sindacati di operare sul proprio territorio e
le violazioni ai diritti dei lavoratori vengono denunciate da anni. Kevin
Slaten, portavoce del gruppo, conferma: "Nell'industria elettronica queste
cose accadono dovunque, non sono ristrette alla Samsung".
Difficile giustificare la presenza di truppe ruandesi in Congo
Nouvel Observateur - 6 settembre 2012
Traduzione
ed adattamento a cura di Banglanews
Per
la Repubblica Democratica del Congo, che fatica a controllare il proprio
territorio, è difficile da giustificare la presenza sul suo territorio di
soldati ruandesi, la cui esistenza è stata improvvisamente rivelata al pubblico
una settimana fa, alimentando le voci e le teorie di un complotto.
Autorità
congolesi, le cui truppe sono in grado di guadagnare terreno contro i ribelli
nella parte orientale della M23 hanno recentemente e nuovamente accusato il
Ruanda di sostenere i ribelli, naturalmente smentiti da Kigali, che parla di
"malafede" di Kinshasa.
L'annuncio
del 31 agosto, sul ritorno in Ruanda di circa 300 soldati ruandesi posizionati
nel vicino Zaire, ha causato confusione.
RDC
e Ruanda hanno deciso di dire che i soldati ruandesi hanno operato, insieme ai
militari congolesi, in un battaglione misto distribuito nella provincia
congolese del Nord Kivu (est). Questo è stato deciso a seguito di un'operazione
militare congiunta nel 2009 per combattere i ribelli hutu delle Forze
democratiche per la liberazione del Ruanda (FDLR), i cui elementi hanno
partecipato al genocidio ruandese del 1994.
Ma,
secondo Kinshasa, un centinaio di soldati ruandesi al massimo dovrebbe
partecipare a questa operazione e tornare al loro paese, mentre Kigali parla di
circa 357 uomini ...
Assistenza
M23?
Lunedi,
il portavoce del governo congolese, Lambert Mende, ha denunciato una
"invasione": "L'esercito ruandese ha approfittato del ritiro dei
suoi agenti dei servizi segreti (...) per contrabbandare alcuni dei suoi
elementi che hanno consentito al gruppo M23 di aggredire
"le FARDC (forze armate della RDC)".
Mushikiwabo,
Ministro degli affari esteri del Ruanda ha detto che invece questa è la prova
della malafede della RDC.
"In
primo luogo, perché le autorità congolesi in questa psicosi vogliono trovare
un colpevole che, guarda caso, non è mai congolese. Ogni volta che c'è
un problema in Congo, il colpevole se non è il Ruanda, è il Congo Brazzaville o l'Uganda.
Questo è il vero problema del Congo ".
Nella
Repubblica Democratica del Congo, l'annuncio della partenza di soldati ruandesi
provoca anche tensioni. Una coalizione di avversari, che hanno espresso sorpresa
per la presenza di queste truppe, ha "raccomandato" al Parlamento di
avviare un "impeachment" del presidente Joseph Kabila per "alto
tradimento" per la sua gestione della crisi nell' est del paese.
A
sua volta, il governo ha accusato di "alto tradimento" l'avversario ed
ex ministro Lumbala fuggito in Sud Africa e sospettato di ripetuti viaggi in
Ruanda.
Ebola
in Congo: può diventare un'emergenza globale"
mediacongo.net - Kinshasa - 6 settembre 2012
Traduzione
ed adattamento a cura di Banglanews
Le
Nazioni Unite hanno lanciato un appello per due milioni di dollari per
combattere l'epidemia di febbre emorragica del virus Ebola, altamente
contagiosa, che ha ucciso 14 persone dalla metà di agosto nel nord-est della
Repubblica Democratica del Congo (RDC) .
L'Organizzazione
Mondiale della Sanità (OMS) e il Fondo delle Nazioni Unite per l'Infanzia
(UNICEF) hanno lanciato un "appello congiunto per i fondi a sostegno di
questa lotta che ammontano a 2 milioni di dollari", ha detto il Dr. Léodegal
Bazira, rappresentante dell'OMS nella RDC. "Chiediamo inoltre a tutti i
partner di unirsi nella lotta contro questa epidemia, che, se non controllata in
modo rapido, è un evento di emergenza sanitaria che può rapidamente diventare
globale", ha poi aggiunto. I fondi dovrebbero aiutare "il governo a
organizzare questa lotta per fornire i mezzi per combattere questa epidemia. È
una lotta che molti paesi, non solo Repubblica democratica del Congo, non possono
assumersi da soli", ha sottolineato il rappresentante delle Nazioni Unite.
Un
ceppo meno virulento in Uganda
La
Repubblica Democratica del Congo è colpita dal virus Bundibungyo teoricamente
meno virulento, mentre in una regione limitrofa dell'ovest dell'Uganda, si
tratta di un ceppo che ha afflitto il Sudan e che ha causato 18 morti.
Due
focolai di epidemia
Nella
Repubblica Democratica del Congo, l'epidemia è scoppiata a metà agosto nella
Provincia Orientale con nove morti, quasi
tutti nella città di Isiro, su 11 casi. Il 3 settembre, sono stati registrati
28 casi, otto confermati in laboratorio, sei casi probabili, 14 casi sospetti.
"L'epidemia sembra avere il suo
epicentro nella città di Isiro, con un secondo focolaio nella città di
Viadana, che si trova circa 70 km daa Isiro" ha detto il Dott. Léodegal
Bazira.
Triplicati
i casi in due settimane
Il
medico non vuole essere allarmista, anche se il numero di casi è triplicato
in due settimane: "Personalmente non indicherei la situazione come
catastrofica, ma senz'altro grave e che può degenerare se non viene subito
presa in considerazione in modo corretto. " Il Ministero della Sanità,
OMS, il Centro per il Controllo delle Malattie (CDC-Atlanta) e Médecins Sans
Frontières (MSF) stanno lavorando a stretto contatto per la lotta contro la
malattia.
Nessuna
cura, nessun vaccino
La Repubblica Democratica del Congo ha conosciuto
otto epidemie di ebola, che hanno ucciso secondo l'Oms tra il 25 e il 90% dei
pazienti. Nel 1995, il suo ceppo
"Zaire", il più virulento, ha causato più di 350 vittime in Bandundu
(ovest). Ad oggi, non esiste alcun trattamento o vaccino.
La
malattia si trasmette per contatto diretto con sangue, fluidi corporei (sudore,
feci ...), rapporti sessuali e per la cattiva manipolazione di cadaveri
contaminati. E 'caratterizzata da febbre, vomito, crampi addominali, diarrea con
sangue e gengive sanguinanti.
Ucciso teologo, timori guerra civile
di Lucia Sgueglia
La Stampa - Mosca - 1 settembre 2012
Ucciso
in Daghestan il più autorevole dei teologhi sufi, rappresentante dell'Islam
moderato e "sincretico", integrato col potere filorusso. Rischia di
detonare nuovamente il conflitto coi salafiti, in grande crescita nel Caucaso.
L. Sgueglia che vi ha trascorso tanto tempo, prova a sbrogliare la matassa e
spiegare perché l'omicidio potrebbe segnare un punto di svolta.
L’ultima “vedova nera” del Caucaso è di etnia russa, la prima che si
ricordi nella storia. Ex attrice di teatro e ballerina di break dance,
convertita all’islam radicale. La vittima, lo “sceicco” Said Effendi
Atsayev, 75, era un famoso teologo sufi: ai suoi funerali, mercoledi notte nel
villaggio di Cherkei, sono accorsi 150mila seguaci. Carichi di rabbia. “È
come se i protestanti avessero ammazzato il papa di Roma”, azzarda la
giornalista Yulia Latynina paventando una guerra civile. I “protestanti”
sono salafiti, seguaci della corrente rigorista dell’islam sunnita, quella di
Bin Laden per capirci. Ormai adottata ufficialmente dalla guerriglia caucasica.
E sempre più diffusa nella regione, anche tra i fedeli pacifici che non
appoggiano la guerriglia armata. Specie tra i giovani. E soprattutto in
Daghestan, la repubblica più grande, popolosa e religiosa.
Atsayev,
75, era venerato come un santone, visitato ogni giorno da decine di fedeli
devoti, cartoline col suo volto sono in vendita in tutta la
repubblica.Un’antica tradizione dell’islam caucasico, come la danza mistica
zikr, che le confraternite ballano in cerchio. Prediletta anche dal discusso
leader della vicina Cecenia Ramzan Kadyrov, che ha fatto erigere sui monti un
grande mausoleo di marmo sulla tomba della madre di Kunta Hagi, il “santone di
famiglia”, dove prega regolarmente.
Per
i nuovi imam del Caucaso, che dopo la fine dell’Urss hanno studiato nei paesi
arabi, il culto degli sceicchi è idolatria, contrario al vero Islam. E i leader
sufi sono spesso accusati di “collaborazionismo” col governo filorusso e le
sue politiche repressive verso i fedeli “non conformi” - dalla delazione al
fatto che la maggior parte dei membri delle forze di sicurezza sono sufi. Fino a
poco fa i non allineati li chiamavano “wahabiti”: dal 1999 (seconda guerra
cecena) in Daghestan sono fuorilegge, equiparati in pratica a terroristi.
Giustificando così rapimenti, torture per estorcere “confessioni”, massicce
operazioni militari per “eliminare”, anche preventivamente, i
“sospetti”: cioè chiunque portasse barba lunga, hijab, non beva alcool. È
il “metodo Putin” nella lotta al terrorismo, costato a Mosca miliardi di
rubli, un business anche per gli “eliminatori”, che non vanno per il
sottile. Tredici anni dopo, gli attentati sono diventati quasi quotidiani in
Daghestan, l’estremismo è aumentato. 185 le vittime solo nei primi 6 mesi del
2012, anche tra le forze dell’ordine: un bollettino di guerra.
La
presunta kamikaze, Aminat Kurbanova, 30 anni, la cui fotografia è stata diffusa
dalle autorità immediatamente, vero nome Alla Saprykina. prima di farsi
esplodere in casa di Effendi (entrata fingendosi sua devota, ha ucciso altri 5
presenti venuti ad ascoltare la predica, tra cui un 12enne), recitava al Teatro
Drammatico russo nella capitale daghestana Makachakala, adagiata sul mar Caspio.
Avrebbe cambiato fede per amore di un militante islamista – anche lui, pare,
ex attore. Militanti indipendentisti, secondo le autorità, erano anche il
secondo e il terzo marito di Kurbanova - tutti uccisi come terroristi. Ora Mosca
vuole istituire un controllo speciale sulle convertite. E il governo del
Daghestan pensa già a ronde speciali in ogni città e villaggio per tenere a
bada i fondamentalisti.
Intanto,
tra i giovani caucasici l'adesione al salafismo ormai è una sorta di moda,
specie nei villaggi di montagna. Ma anche nella laica Makhachkala, dall’anno
scorso c’è un campionato di calcio halal (link). Fioriscono nuove madrasse,
spiagge e scuole separate. Poco fuori la capitale, sta sorgendo la prima gated
community “tradizionalista” – pubblicizzata su Facebook: “la cosa più
importante – sono i tuoi vicini”. Sul web, oltre ai soliti siti che
propagandano la jihad, c’è tutto un nuovo mondo di forum, chat e social
network in cirillico frequentati dai giovani, dove si insegna alle ragazze come
indossare il niqab, ai ragazzi a interpretare il Corano senza mediazioni. Più
ribellione moralizzatrice contro il sistema clanico e clientelare dei padri, che
fede nel terrore: in Daghestan corruzione, brutalità della polizia, illegalità
unita a impunità, e disoccupazione giovanile sono da record mondiale. Ma anche
una nuova forma di opposizione politica, secondo sharia. Non tutti vogliono la
separazione da Mosca, l’Emirato: cittadini russi, non vedono incompatibilità
con la Costituzione federale, che è multietnica e multiconfessionale. Ma per
molti, la Russia è sempre più aliena.
L’ultimo
presidente daghestano, Magomedsalam Magomedov, nominato dall’ex zar Medvedev,
aveva intrapreso una via nuova, creando Commissioni statali per il dialogo tra
sufi e salafiti, e il reintegro nella società dei militanti pentiti. Un unicum
in tutto il Caucaso. Proprio Atsayev era stato fautore di un accordo di pace tra
le parti. Ora la sua morte (il quarto omicidio di religiosi moderati in un anno
in D.) per molti metterà fine all’esperimento, segnando il ritorno al
“metodo Putin”. Magari nella versione autoritaria cecena, dove è
schiacciato ogni dissenso. I leader salafiti si sono subito dissociati
dall’omicidio: “L’obiettivo è proprio il dialogo”, hanno scritto in
dichiarazioni pubbliche diffuse sul web, suggerendo indirettamente una mano
“altra”.
L’attacco
è arrivato proprio nel giorno in cui Putin era in Tatarstan, nella Russia
Centrale, dove un mese fa una bomba ha ferito il capo mufti locale e ucciso il
suo vice.Lì, il capo del Cremlino ha invitato alla “concordia religiosa ed
etnica” per evitare il collasso della Russia.Nel frattempo, come se non
bastasse, sempre dal Daghestan misteriosi “guerriglieri pesantemente armati”
hanno sconfinato in Georgia prendendo in ostaggio alcuni locali che stavano
facendo un picnic. A un mese dalle elezioni a Tiblisi, e a 4 esatti anni dalla
guerra in Sud Ossezia. Il presidente Saakashvili ha subito inviato l’esercito,
mostrando tutto in tv:11 militanti uccisi, ma anche 3 vittime tra le truppe
georgiane. Il leader antirusso è sicuro: “Una provocazione orchestrata dal
nostro nemico”.
Mindanao, bambino tribale di 11 anni muore nella guerra per il controllo delle
miniere
AsiaNews - Zamboanga - 5 settembre 2012
Jordan
Manda era figlio del noto attivista tribale Timuay Locencio Manda, leader della
comunità di Subaden (Zamboanga del Sur). Il ragazzo è stato aggredito insieme
al padre nel tragitto fra la casa e la scuola da un gruppo di uomini armati.
Fonti di AsiaNews denunciano i soprusi della Toronto Ventures Incorporation
(Tvi) multinazionale canadese. Con la complicità dei politici essa difende i
terreni confiscati illegalmente ai tribali con un esercito privato formato da ex
militari.
"La
questione delle miniere è una guerra che coinvolge politici, governo centrale e
multinazionali straniere. Le uniche vittime sono i tribali che vivono in stato
di totale povertà e guardano inermi la confisca dei loro terreni". È
quanto affermano fonti di AsiaNews a Zamboanga del Sur, dove ieri mattina è
stato ucciso Jordan Manda, ragazzo di 11 anni, figlio di Timuay Locencio Manda,
noto attivista per i diritti degli indigeni locali e leader della comunità di
Subaden. L'agguato è avvenuto mentre l'uomo stava portando i figlio a scuola.
Sulla strada i due sono stati affiancati da un gruppo di uomini armati che hanno
sparato contro l'auto, uccidendo il bambino. Il padre è rimasto ferito. Secondo
le associazioni per i diritti umani, il leader tribale è stato punito per la
sua campagna contro lo sfruttamento minerario del sottosuolo. Nei giorni scorsi
il governo ha concesso tre nuove autorizzazioni a compagnie minerarie per
esplorare il sottosuolo nell'area di Zamboanga. Gli attivisti ora chiedono una
moratoria immediata per tutte le attività minerarie nella penisola di
Zamboanga.
Le
fonti di AsiaNews spiegano che i problemi sono iniziati con l'arrivo della
Toronto Ventures Incorporation (Tvi), importante compagnia mineraria canadese,
giunta nelle zona nel 1997. "Grazie alla collaborazione del governo di
Glorya Majapagal Arroyo - spiegano - la Tvi si è impossessata della
Pinukis Range Forest, cacciando via tutti i tribali e piazzando un vero e
proprio esercito privato, la Blue Gard, formato da ex militari e persone senza
scrupoli. I tribali pagano due volte la presenza di questa multinazionale
straniera sul loro territorio". Con l'appoggio dei politici locali, la
compagnia ostacola con tutti i mezzi lo sfruttamento dei giacimenti da parte di
piccole società gestite dagli indigeni. In questi anni essa ha inquinato con
mercurio e cianuro le falde acquifere, l'aria e i campi, rendendo impossibile
anche coltivare o allevare animali.
Nel
2011 la Tvi è stata costretta ad abbandonare la zona, ma ha lasciato sul posto
il suo esercito privato che non permette a nessuno di esplorare i terreni.
"Molti minatori - raccontano le fonti - sono ritornati sulla montagna, ma
hanno enormi difficoltà a condurre la propria attività". Essi sono
aiutati solo dai missionari e da alcuni giovani che con le loro motociclette
portano loro cibo, benzina, attrezzi. In luglio quattro ragazzi sono stati
fermati da una pattuglia della Blue Gard. Uno è stato ucciso, gli altri tre
sono scomparsi. La gente del luogo teme che siano stati gettati nelle cisterne
di cianuro.
Con
la salita al potere del presidente Benigno Aquino, l'azione della compagnia
canadese è stata giudicata illegale. Secondo la legge filippina i tribali hanno
la priorità di sfruttare i giacimenti minerari. Le compagnie straniere che
vogliono investire nel settore devono prima convocare i capi tribù e le
amministrazioni locali e presentare il loro programma, che deve essere firmato
dalla maggioranza della popolazione. I locali hanno il diritto di opporsi al
loro progetto e rivendicare l'usufrutto del terreno. Se tale documento non viene
firmato le compagnie straniere diventano di fatto proprietarie dei terreni. In
combutta con le società multinazionali, i politici locali ostacolano la
presentazione di questa documentazione, minacciando e a volte eliminando
fisicamente chiunque aiuti i tribali. I funzionari locali non hanno alcuna
convenienza a trattare con gli indigeni. Essi sono poverissimi e non hanno i
soldi per pagare la "tangente" necessaria per sfruttare i terreni e
favoriscono il gioco delle multinazionali.
Nel
2008, a Lakewood (Zamboanga del Sur) i tribali hanno trovato degli sponsor messi
a disposizioni da uomini d'affari giapponesi e cinesi, che in cambio del 40% del
ricavato offrono denaro e attrezzature. Purtroppo le autorità locali non hanno
ancora firmato il permesso per iniziare i lavori. Alcuni politici di Manila
hanno però appoggiato l'iniziativa, creando una società compartecipata fra
minatori e investitori cinesi.
La
Chiesa è stata più volte accusata di finanziare, con "milioni di
dollari" provenienti dall'estero le piccole cooperative indigene. Alcuni
sacerdoti ricevono minacce morte e continuano a ricevere pressioni.
"Fra
pochi mesi - concludono le fonti - vi saranno le elezioni per la poltrona di
governatore della provincia e tutto gira intorno alla miniera. I candidati
sfruttano i problemi dei tribali per guadagnarne i voti, ma una volta saliti al
potere girano loro le spalle, perché è più conveniente appoggiare le società
straniere".
In
questi anni, 36 attivisti sono morti o scomparsi a causa del loro impegno in
favore dei diritti dei tribali. Fra le vittime anche p. Fausto Tentorio,
missionario del Pontificio Istituto Missioni Estere, ucciso il 17 ottobre 2011
ad Arakan, nella provincia di North Cotabato (Mindanao). (S.C.)
I due miracoli del Ghana
di Davide Maggiore
Articolo
21 - 30 agosto 2012
Petrolio
e primarie: sta anche in queste due parole il segreto del Ghana, emerso da
alcuni anni come capofila tra i Paesi dell’Africa occidentale, per stabilità
politica e per crescita economica. Certo, quest’ultima, pur tenendo conto dei
punti di partenza in alcuni casi disastrosi, e delle enormi disuguaglianze che
restano, è ormai propria di diversi Stati del continente, ma raramente si
accompagna ad una vita politica dinamica e pacifica.
Lo
stesso Barack Obama nel suo primo, e finora unico, viaggio da presidente in un
Paese dell’Africa subsahariana, ha riconosciuto l’importanza dell’esempio
del Paese della “Stella Nera. “In Ghana ci mostrate una faccia dell’Africa
troppo spesso trascurata da un mondo che vede solo emergenze e bisogno di carità”,
aveva detto il presidente degli Stati Uniti rivolgendosi al parlamento di Accra,
a luglio 2009.
Parte
di questo volto nuovo riguardava, secondo Obama, gli “impressionanti tassi di
crescita” dell’economia: nel 2010 erano stati circa dell’ 8 per cento,
secondo la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale. E basandosi sui
primi dati dell’anno successivo, il governo aveva stimato un’ulteriore
crescita per il 2011, di ben il 20 per cento, contro una più prudente stima del
Fondo Monetario Internazionale, che ha parlato ‘solo’ del 13,6 per cento. Su
questo risultato incidono certamente i prezzi in crescita delle materie prime di
cui il Paese è ricco, in particolare cacao e oro. Ma il petrolio gioca un ruolo
chiave: proprio nel 2010 è iniziata la produzione nel giacimento offshore
‘Jubilee’, tra i più ricchi scoperti nel mondo negli ultimi anni. E già
nel 2011 il Ghana ha esportato greggio per una cifra pari a 2,8 miliardi di
dollari: ancora una frazione di quanto realizzato da colossi petroliferi
africani come Nigeria e Angola, ma abbastanza per dare il via a nuove
esplorazioni, giudicate molto promettenti da Aidan Heaney, fondatore della
Tullow Oil.
Il
petrolio, però, non può rappresentare la soluzione di ogni problema del Ghana:
come molte altre economie africane, il paese si trova a fare i conti con una
distribuzione delle risorse molto sbilanciata verso l’alto, e anche il reddito
medio pro capite è ancora vicino alla soglia di povertà. Senza contare che lo
sfruttamento dei campi petroliferi di Jubilee ha provocato tensioni anche ad
alto livello nel 2010, quando l’amministrazione dell’allora presidente John
Atta Mills (morto per malattia nel luglio scorso) si era opposta all’accordo
tra l’impresa texana Kosmos e la multinazionale statunitense ExxonMobil.
Questa avrebbe dovuto rilevare dalla prima alcune quote del giacimento, ma aveva
deciso di ritirarsi dopo mesi di resistenze. Facilitando così, secondo i
critici, i piani del governo, ‘sponsor’ di altri acquirenti, provenienti da
oriente: coreani, cinesi, indiani.
Ad
impedire al Ghana di andare incontro a una nuova versione di quella che è stata
definita “la maledizione delle risorse”, causa di instabilità e scontri in
molte parti dell’Africa, potrebbe intervenire la seconda parola chiave,
emblema della democrazia: “primarie”. E’ con questo metodo, infatti, che
entrambi i grandi partiti del Paese (il National Democratic Congress, già
guidato da Atta Mills, e il New Patriotic Party, d’opposizione) nominano per
statuto i loro candidati alle elezioni, che vengono selezionati da un gruppo di
‘grandi elettori’ scelti a livello locale. Eppure, la morte di Atta Mills
rischia di complicare le cose: a prendere il posto dell’anziano leader è
stato il vice presidente John Mahama, come previsto dalla costituzione,
confermando così che la stabilità del Ghana non è a rischio, come non lo era
stata nel 2008, al momento dell’elezione di Atta Mills. La sua vittoria era
stata accettata quasi senza polemiche, e comunque senza violenza, dal NPP e dal
suo candidato Nana Akufo-Addo, sconfitto per pochi voti dopo aver chiuso in
testa il primo turno elettorale.
La
‘semplice’ successione di Mahama nelle vesti di candidato presidenziale del
NDC (e di nuovo avversario di Akufo-Addo, che ha ottenuto la ricandidatura per
il NPP) sembra tuttavia andare incontro a più problemi. Alla nomination
aspirava infatti anche Nana Konadu Rawlings, moglie dell’ex presidente (con un
passato da militare golpista) Jerry Rawlings: la donna era però stata battuta
da Atta Mills nelle primarie del NDC. E tuttavia, secondo alcune voci, la coppia
Rawlings, ancora influente nel paese, potrebbe decidere di sostenere un terzo
candidato.
Le
elezioni del prossimo dicembre, quindi, metteranno ancora alla prova il nuovo
‘modello’ ghanese, e non solo dal punto di vista politico: già negli scorsi
anni infatti, come ha rivelato il sito WikiLeaks, alcune imprese americane –
protagoniste di importanti investimenti nel Paese – si erano dette preoccupate
per la possibilità, poi scongiurata, di un’instabilità politica ad Accra,
ormai da anni ‘accogliente’ nei confronti delle iniziative statunitensi.
Naturale quindi che Washington (e non solo) guardi con interesse alla probabile
prosecuzione del ‘miracolo’ del Ghana. Tanto che il confronto politico ha
trovato una interessante convergenza tra numerosi esponenti politici: dire
subito come saranno usate le nuove risorse che verranno dal petrolio. Un
problema posto dall’astro emergente della politica ghanese, la figlia del
padre della patria, Samia Nkroumah: ma non solo da lei.
L’alfabetizzazione come garanzia di pace; il 64% degli analfabeti sono donne
e bambine
Agenzia Fides - Città del Guatemala - 6 settembre 2012
“La
Alfabetizzazione e la Pace” sarà il tema della Giornata
dell’Alfabetizzazione di quest’anno che metterà in evidenza il collegamento
tra i sistemi democratici instabili, i conflitti e la mancanza di istruzione. A
questo riguardo, è importante il lavoro svolto finora dalla guatemalteca Radio
Tezulutlán, diretta nei primi anni di trasmissione da Mons. Juan Gerardi, che
venne assassinato il 26 aprile 1998. L’emittente fa parte della Pastorale
Sociale della Diocesi di Las Verapaces e ha giocato sempre un ruolo fondamentale
nella difesa dei diritti delle popolazioni indigene e nella loro promozione.
Attraverso i suoi programmi di promozione umana, conoscenza e difesa dei diritti
delle popolazioni indigene, di formazione nei settori dell’agricoltura,
dell’alimentazione, della medicina e i programmi educativi, offre un valido
servizio sociale destinato alle comunità rurali, alle donne, ai giovani e ai
bambini, che sono sistematicamente emarginati dalle istituzioni statali e dai
mezzi di comunicazione di carattere commerciale. Il progetto radiofonico va
avanti nei dipartimenti di Alta y Baja Verapaz nel nord del Guatemala, dove
oltre il 50% della popolazione, prevalentemente indigena, vive in stato di
povertà, con un tasso di analfabetismo di circa il 60%. Nel paese
l’esclusione sociale e la mancanza di opportunità hanno favorito la
diffusione del narcotraffico, con tutte le sue conseguenze negative. Nonostante
nell’ultimo decennio le persone analfabete siano diminuite, ci sono ancora nel
mondo 793 milioni di adulti, dei quali il 64% donne e bambine, che sono privi
degli elementi di base per la lettura e la scrittura.
L’esempio di Madre Teresa, contro gli aborti selettivi femminili
di Nirmala
Carvalho
AsiaNews - Mumbai - 4 settembre 2012
Domani
è la memoria liturgica della beata e l'anniversaio della sua morte. Le parole e
l’esempio della Missionaria della Carità devono aiutare l’India a
contrastare un fenomeno che sta alterando la composizione della popolazione.
Membro della Pontificia accademia per la vita: “Madre Teresa difendeva la
dignità e la santità della vita, dal suo concepimento alla morte naturale.
L’aborto, su bambini e bambine, distrugge questa sacralità”.
Alla
vigilia della festa di Madre Teresa, il suo spirito "deve spingerci a
combattere contro aborti selettivi, feticidi e infanticidi femminili". Così
il dr. Pascoal Carvalho, membro della Pontificia accademia per la vita, invita a
riflettere su quello che egli definisce "il malessere della società
indiana", un fenomeno in costante aumento che rischia di alterare la
composizione della popolazione del Paese. In India e nel mondo, spiega il
medico, "Madre Teresa è rispettata per il suo amore verso ogni essere
umano, e per la sua difesa della dignità e santità della vita dal suo
concepimento, fino alla sua morte naturale". Proprio per questo, la
giornata di domani - anniversario della morte della beata e sua memoria
liturgica - rappresenta il momento migliore per ripensare la lotta contro tutto
quello che promuove "una cultura di morte".
Secondo
l'ultimo censimento del governo (2011), in media nascono 914 bambine ogni 1000
maschi. Un dato allarmante, perché proprio negli anni in cui il governo ha
adottato diverse misure e campagne di sensibilizzazione sul tema, lo squilibrio
tra maschi e femmine è aumentato: nel 2001 infatti, la sex ratio era di 927
femmine ogni 1000 maschi. Dal 1994, con l'approvazione del Pre-Natal Diagnostic
Technologies (Pndt) act, in India è illegale l'uso di particolari esami per
determinare il sesso del feto. In base alla legge, i medici devono presentare
una lista delle pazienti su cui, per ragioni di pura salute, hanno condotto tali
test. Tuttavia, il Pndt non è servito a frenare la diffusione di aborti
selettivi e infanticidi femminili, e ha anzi favorito la diffusione di
cliniche clandestine.
"Questo
disturbante fenomeno - spiega il dr. Carvalho - è in parte legato a ragioni
culturali: una società patriarcale che da sempre preferisce il figlio
maschio". In questo contesto, "la femmina è considerata un peso,
soprattutto economico: per contrattare un buon matrimonio, la famiglia della
futura moglie deve assicurare una dote consistente". Ma una volta sposata,
la donna non sarà rispettata finché non darà alla luce un bambino: per
questo, sottolinea il medico, "il feticidio femminile ha anche implicazioni
sociali: svuota la donna di ogni valore e la rende succube dell'uomo. È una
grave violazione dei diritti umani, e il lato più oscuro della nostra società".
L'opera
della Missionaria non si ferma però solo alle violenze contro neonate e
bambine. Nel suo discorso di accettazione del Nobel per la Pace (1979), ella
disse: "Milioni di bambini muoiono intenzionalmente, per volontà delle
loro madri. Perché se una madre può uccidere suo figlio, cosa ci impedisce di
uccidere noi stessi, o un altro?". La lotta contro i feticidi femminili,
nota il dr. Carvalho "deve allora rivolgersi contro ogni forma di aborto,
perché [l'aborto] distrugge il rispetto e la sacralità della vita. Madre
Teresa ha promosso il valore della vita umana con le parole e con i fatti.
Qualsiasi vita umana: anche quella di chi non è ancora nato. Ripetiamoci le sue
parole: 'se un bambino non è al sicuro nel grembo di sua madre, dove mai potrà
esserlo nel mondo?'".
Piccoli passi per ridurre la malnutrizione infantile, ma il problema resta
molto grave
Agenzia Fides - Giakarta - 6 settembre 2012
In
Indonesia 1 bambino con meno di 5 anni su 3 soffre di malnutrizione, sia nella
forma acuta che in quella cronica, arresto della crescita e deperimento. Anche
se, stando alle ultime statistiche del 2010, dal 1990 al 2010, il tasso di
malnutrizione cronica si è ridotto del 2%, questo fenomeno contribuisce alla
metà delle morti dei piccoli indonesiani prima che abbiano compiuto il loro
quinto anno di età. Tuttavia, in questo ventennio, il numero complessivo di
minori malnutriti con meno di 5 anni di età è aumentato, anche a causa
dell’incremento della popolazione, da 179 a 237 milioni, oltre ad essere
raddoppiati i piccoli con meno di 5 anni di età. Quelli che riescono a
sopravvivere possono subire alterazioni nello sviluppo cerebrale e rallentamenti
nella capacità di apprendimento, avere difese immunitarie precarie ed essere a
maggior rischio di diabete, obesità, malattie cardiache e ictus.
Il
governo sta provvedendo a favorire la promozione dell’allattamento al seno e
delle norme igieniche, oltre alla tempestiva alimentazione complementare nei
bambini piccoli, somministrando vitamina A, ferro e integratori di zinco. Le
statistiche nazionali per un arcipelago fatto da 17 mila isolotti, circa 900 dei
quali permanentemente abitati, nascondono gravi disparità regionali. Nella
Provincia orientale di Nusatenggara, circa 2 mila km ad est della capitale
Giakarta, il 34% dei bambini è sottopeso, tasso simile a quello della Provincia
occidentale di Nusatenggara che è del 30%, rispetto alla media nazionale del
18%. Queste zone sono soggette alla scarsità di generi alimentari e,
soprattutto nei periodi di siccità, la malnutrizione rimane motivo di grande
preoccupazione. Un altro grave problema nel paese che contribuisce alla morte di
minori è la scarsa conoscenza delle misure sanitarie di base e alla mancanza di
servizi igienico-sanitari. L’alimentazione precaria e la mancanza di acqua
pulita sono fattori determinanti. Nel 2010 le cause principali della morte dei
piccoli con meno di 5 anni di età sono state la polmonite, con il 14% di
decessi, le nascite premature con il 21%, il 6% dovute a lesioni, e il 5% a
morbillo e diarrea. Secondo gli esperti, il 48% di questi decessi avviene nei
primi 28 giorni di vita. Stando all’Indonesia Health Profile del 2010, l’80%
della popolazione del paese ha accesso a fonti di acqua potabile, ma solo il 52%
utilizza servizi sanitari “sicuri”.
Ancora sbarchi sulle coste siciliane. Don Nastasi: l'indifferenza uccide
Radiovaticana
- 8 settembre 2012
Proseguono gli sbarchi di migranti sulle coste italiane: nove nel trapanese, una ventina nell’agrigentino e ancora, più di trenta, a Lampedusa, dove intanto continuano le ricerche di una cinquantina di dispersi nel naufragio avvenuto tra giovedì e venerdì. La vicenda resta da chiarire, ma probabilmente oltre 100 migranti tunisini sono stati abbandonati dagli scafisti presso lo scoglio di Lampione e solo pochi di loro sono riusciti a nuotare verso Lampedusa. Il bilancio è di 56 sopravvissuti e un cadavere emerso.“Sull’isola c’è preoccupazione, ma questo non frena la spinta umanitaria della gente”, racconta il parroco Don Stefano Nastasi, al microfono di Gabriella Ceraso:
R.
- La prima reazione che ha avuto la gente è stata quella di portare l’aiuto
che potevano dare, così hanno fatto anche pescatori e sommozzatori locali.
Questa immagine dà la dimensione di una comunità che riesce a conservare quel
tratto di umanità che nessuno mai le potrà togliere.
D.
- Però lei dice che c’è anche paura. Nell’isola questo è un momento di
grande affollamento turistico…
R.
- Più che paura è una preoccupazione, ma la preoccupazione credo che sia un
po’ relativa perché non dovrebbe più accadere quello che è successo
l’anno scorso, cioè un ingolfamento di migranti sia per numero, sia per
vittime. E' pur vero che durante l’estate sono già avvenuti recuperi in modo
ordinario, semplice e regolare. Non mi pare opportuno dare un allarme che poi
non c’è.
D.
- Don Stefano, ovviamente, lei può immaginare che le reazioni sono state tante
e si è detto, ancora una volta, che il punto è più pattugliamenti, più
controlli coordinati e poi più politiche che aiutino anche i flussi regolari.
Qual è la cosa più importante da fare e soprattutto cosa è possibile poi
effettivamente farla?
R.
- Considerando che i controlli ci sono, se c’è una cosa curiosa e strana è:
come mai di tanto in tanto riesce a sfuggire qualche situazione del genere?
Quello che manca è una politica, o delle politiche, a livello di comunità
europea. Non basta soltanto dare fondi, serve una politica più complessa e
condivisa, in modo da aiutarci a vivere il tempo che si apre avanti a noi in
modo più sereno. Non possiamo sempre improvvisare.
D.
- Ieri l’arcivescovo di Agrigento, mons Francesco Montenegro, ha usato il
termine “indifferenza”, che è la cosa che più addolora…
R.
- L’indifferenza è quella dimensione che uccide l’altro e uccide nel tempo
anche noi. Lo condivido perfettamente.
Cluster,
quella legge "dimenticata" per fermare i finanziamenti
Misna
- 6 settembre 2012
“Le
bombe cluster bandite dalla Convenzione di Oslo – ratificata anche
dall’Italia – non possono essere più finanziate con i soldi provenienti da
paesi che l’hanno sottoscritta, e non basta sventolare la crisi per
giustificare la cecità umanitaria che caratterizza alcune prese di posizione
seppur velate: di bombe cluster la gente muore e forse è bene che la gente
sappia che finanzia omicidi in paesi in cui magari sottoscrive adozioni a
distanza”: colpiscono e sono dure le parole di Giuseppe Schiavello, direttore
della Campagna italiana contro le mine, che oggi alla Camera dei Deputati di
Roma ha partecipato alla presentazione di una proposta di legge per contrastare
il finanziamento di qualunque attività collegabile alle mine antiuomo, alle
munizioni e submunizioni cluster.
L’Italia
che si presenterà per la prima volta come Stato parte al prossimo vertice di
Oslo (dall’11 al 14 settembre) nella sua legge di ratifica della Convenzione
ha chiaramente accolto il principio che anche il supporto finanziario alla
produzione, detenzione e commercio delle munizioni a grappolo sia un
comportamento da sanzionare penalmente. Da esso non può dunque essere escluso
il tema del supporto finanziario di banche nazionali a aziende estere
attualmente coinvolte nella produzione di ordigni con effetti indiscriminati.
“La
proposta di legge giace da due anni nella Commissione finanza e tesoro senza
neanche essere stata calendarizzata. E’ quanto mai illuminante il fatto che
addirittura le banche, in genere recalcitranti su alcuni argomenti, si muovano
più velocemente delle istituzioni” conclude Schiavello ricordando il
volontario disimpegno dei principali istituti bancari italiani dal finanziamento
di società coinvolte nella fabbricazione di cluster.
Riviste
missionarie, il futuro oltre la crisi di Chiara Zappa
Avvenire
- 6 settembre 2012
Un
tempo erano le avanguardie: radicali sul fronte del messaggio evangelico,
pioniere nell’attenzione, anche mediatica, verso quel "terzo mondo"
che hanno contribuito a rappresentare in modo meno stereotipato e più profondo.
Le riviste missionarie, alcune delle quali dalla storia ultracentenaria,
costituiscono un’esperienza fondamentale all’interno del panorama
informativo italiano: con il loro sguardo "di prima mano" sugli esteri
e su tante frontiere riconosciute spesso in anticipo – dal variegato fronte
dei diritti umani al dialogo tra fedi e culture –, esse rappresentano un
patrimonio a cui anche il resto della comunicazione continua a guardare e ad
attingere.
Eppure,
anche la stampa missionaria oggi si trova a fare i conti con le sfide epocali
lanciate da una contemporaneità complessa: quella della crisi economica, che
stringe forzatamente i cordoni della borsa (a maggior ragione per iniziative che
non siano decisamente "profit"), ma anche quella, ben più profonda e
strutturale, dei nuovi media, che stanno forgiando uno scenario comunicativo
inedito, in cui non sono cambiate solo le modalità di trasmissione delle
notizie, ma anche gli stessi attori dell’informazione: basti pensare ai social
media come Facebook o Twitter. In questo contesto completamente rivoluzionato,
allora, c’è ancora spazio per le riviste "dei missionari"?
La
provocazione è stata lanciata proprio dalla più antica testata italiana del
settore, il mensile del Pime Mondo e Missione diretto da Gerolamo Fazzini, che
alla spinosa questione ha dedicato il servizio speciale dell’ultimo numero. A
partire anche da alcuni dati inequivocabili: la scelta di qualcuno di cessare le
pubblicazioni, come Afriche della Sma e Missioni Francescane, o quella di
diradare le uscite, compiuta ad esempio da Amico (rivista per ragazzi della
Consolata) o da Missionari del Pime. «Perché e come continuare a fare
informazione e comunicazione missionaria oggi? Con quali obiettivi?», è stata
la domanda di partenza, rilanciata da Mondo e Missione (che oggi distribuisce in
media 7.500 copie mensili) in primis agli altri protagonisti di questo variegato
mondo, in cui opera un numero notevole di giornalisti professionisti.
«Noi
abbiamo un approccio all’informazione non consumistico, che cerca di essere più
aderente alla verità e più approfondito, a sostegno di stili nuovi di vita.
Abbiamo ancora una parola diversa da dire», mette in chiaro padre Luigi
Anataloni, coordinatore della Federazione della stampa missionaria italiana
(Fesmi, che riunisce 42 testate) e direttore di Missioni Consolata (53 mila
copie, inviate a chi fa donazioni all’istituto). Senza però negare l’entità
delle difficoltà da affrontare: «Abbiamo calcolato che, con l’innalzamento
delle tariffe postali, le riviste della Fesmi pagano un milione di euro in più
alle poste», tanto per dirne una. Ma c’è dell’altro: l’essere «ancora
troppo deboli sull’on-line», ad esempio, o non riuscire a «proporre una
maggiore collaborazione tra le riviste, senza che ciascuno perda la propria
identità».
I
numeri, tutti insieme, in effetti sarebbero da "massa critica":
centinaia di migliaia di lettori – tra cui quelli delle testate di Missio,
l’organismo della Cei per la pastorale missionaria: Popoli e Missione, Il
ponte d’oro e La strada, dirette dal comboniano Giulio Albanese –,
accomunati da una forte sensibilità ai temi della promozione umana e della
giustizia. Ma unire le specificità dei singoli istituti, diversi dei quali
realizzano più di una pubblicazione, non è facile. E, per certi versi, sarebbe
un impoverimento.
«Oggi
riusciamo a far circolare molta più informazione, ma la rivista soffre»,
racconta padre Franco Moretti, fino a luglio direttore della comboniana Nigrizia
(18 mila copie di tiratura, 12.500 delle quali in abbonamento). In compenso, le
realtà riunite oggi nella Fondazione Nigrizia sono variegate e interessanti:
tra l’altro ci sono i siti Nigrizia.it e Bandapm.it, Afriradio, il Centro di
produzione audio e video… «Ci vorrebbe un giornalista qualificato a tempo
pieno anche per l’on-line - sostiene padre Moretti - ma costa troppo». Il
budget - con la difficoltà nella raccolta pubblicitaria e il calo delle
donazioni, effetti della crisi - è senz’altro il tallone d’Achille comune.
Ma la forza del messaggio non smette di cercare vie di espressione. Con le sue
2.500 copie (di cui 2.000 in abbonamento), Missione Oggi, dei Saveriani, è la
più piccola tra le riviste missionarie italiane: «Non è un magazine di
attualità, ma un periodico di riflessione e di opinione che si è
progressivamente ricavato un suo spazio», spiega il direttore, padre Mario
Menin. Il pubblico? Soprattutto «gente di un buon livello culturale, impegnata
nell’ambiente ecclesiale, in movimenti di solidarietà, in campagne per la
pace e la giustizia».
Orientata
sul Continente nero è invece Africa, la rivista dei Padri Bianchi. Con un
occhio alternativo: si raccontano «i volti meno conosciuti e più curiosi
dell’Africa, con uno sguardo sulle Chiese del Continente. L’idea è di
staccarci dai cliché di un’Africa fatta di povertà e tragedie», racconta il
direttore padre Paolo Costantini. Per farlo, si sperimentano anche strumenti
nuovi, come il concorso fotografico "Africa in movimento", che
permette al pubblico di votare le immagini più belle tramite Facebook.
Proprio
le nuove tecnologie sono uno dei fronti su cui sta provando a misurarsi Popoli,
(6 mila copie, quasi tutte in abbonamento) la testata dei gesuiti, un
"editore" un po’ peculiare nel panorama missionario, come nota il
direttore Stefano Femminis: «Il nostro taglio più generalista e in qualche
modo più "laico" ci consente di entrare in contatto con una fascia di
lettori non necessariamente inseriti nella vita ecclesiale». Una linea che si
riflette nelle scelte fatte in campo multimediale: circa 2.300 persone sono in
contatto con Popoli attraverso Facebook e Twitter, mentre 1.500 sono iscritte
alla newsletter settimanale. «Nel 2011 siamo stati la prima rivista cattolica
italiana ad attivare su iPad un’edizione bimestrale», continua Femminis.
Bilancio? «Luci e ombre. Da un lato sembra strategico essere presenti in un
mondo dalle grandi potenzialità di crescita. Dall’altro, una presenza
incisiva richiederebbe investimenti che sembrano fuori portata». E allora, come
istituti missionari, «perché non provare a unire forze e competenze in un
settore totalmente nuovo come questo?».
Foreste alle multinazionali: denuncia e inchiesta
Misna - 4 settembre 2012
Più
del 60% delle foreste della Liberia è stato dato in concessione a società
private, che molto spesso le sfruttano in modo illegale: lo ha denunciato oggi
l’organizzazione non governativa Global Witness, una settimana dopo l’avvio
a Monrovia di un’inchiesta disposta dal presidente Ellen Johnson Sirleaf.
In
un rapporto gli esperti di Global Witness sostengono che negli ultimi anni
spesso gli abusi sono stati favoriti da una particolare tipologia di permesso
per l’uso privato delle terre. Pensato a beneficio dei piccoli agricoltori, il
permesso sarebbe diventato lo strumento attraverso il quale società straniere
hanno tagliato alberi, realizzato profitti milionari ed evaso il fisco.
Tra
il 1989 e il 2003 in Liberia il commercio del legname finanziò e alimentò la
guerra civile. La conquista della pace, però, non ha risolto il problema.
Secondo un rapporto della Banca mondiale intitolato “La crescita
dell’interesse mondiale per la terra”, la Liberia è uno dei paesi
dell’Africa più interessato dal fenomeno del cosiddetto ‘land grabbing’:
l’accaparramento di terre da parte di privati, non interessati allo sviluppo
locale ma solo alle risorse naturali e al profitto.
Twal: Terrasanta, basta estremismi
di Lorenzo Fazzini
Avvenire - 6 settembre 2012
Fouad
Twal, patriarca latino di Gerusalemme, è uomo cordiale e dal sorriso largo, pur
in mezzo alle preoccupazioni che inquietano i cristiani del Medio oriente.
Parlare con lui di Gerusalemme fa presentire la sacralità di una città che,
come dal titolo del convegno cui partecipa in questi giorni a Villa Cagnola di
Gazzada (Varese), sta «tra la terra e il cielo».
Il
titolo del suo intervento suona così: «Gerusalemme, patria comune per tutti i
cristiani e cuore del mondo». È ancora tale oggi la sua città?
«Certo,
dal momento che qui hanno avuto luogo tutti gli eventi centrali della nostra
salvezza. E anche perché in questa località tutte le grandi religioni
monoteistiche hanno la loro capitale spirituale. Tutti vengono qui a pregare,
cristiani, ebrei e musulmani. E si può dire che per amore di questa città la
gente è anche disposta a uccidere. In diverse situazioni di recente ho parlato
e sentito parlare della centralità di Gerusalemme: all’Incontro mondiale
delle famiglie a Milano in molti hanno fatto riferimento alla
"famiglia-modello", quella di Nazareth. Al Congresso eucaristico di
Dublino ho sottolineato che non ci sarebbe un 50° Congresso internazionale se
non ci fosse stata l’ultima cena di Gesù a Gerusalemme. A breve al Sinodo a
Roma parleremo della nuova evangelizzazione: ma per affrontare quella
"nuova" dobbiamo rifarci a quella "vecchia": un piccolo
gruppo di discepoli che costituivano una piccola comunità che viva
nell’amore, nella solidarietà, unita in una causa da difendere, il Cristo
risorto».
Oggi
però dal punto di vista socio-politico il Medio oriente, o meglio Gerusalemme e
dintorni, non sembrano più «il cuore del mondo». Qual è il suo giudizio
sulla congiuntura politica?
«La
situazione è ferma, il focus del Medio oriente oggi non sono più Israele o i
Territori palestinesi ma la Siria. L’attenzione poi, nel mondo cristiano, ora
si concentra tutta sull’imminente viaggio del Santo Padre che soggiornerà in
Libano tre giorni. Comunque, non sono ottimista sul processo di pace: la
situazione è in stallo e nulla si muove. Speriamo che l’appello del Santo
Padre possa smuovere verso la pacificazione e la riconciliazione. Siamo molto
preoccupati per quel che sta succedendo in Siria e temiamo che la violenza possa
estendersi anche in altre parti del Medio oriente».
È
notizia di oggi quella riguardante un episodio triste di profanazione di un
monastero da parte di integralisti ebrei …
«Sì,
martedì mattina alcuni vandali estremisti israeliani hanno tentato di bruciare
la porta del monastero dei trappisti di Latrun e imbrattato i muri con frasi
ingiuriose contro Gesù. Sono contento che le autorità israeliane e quelle
musulmane hanno condannato questo atto vandalico gravissimo. Ma penso che la
condanna a voce non sia sufficiente, non basta: bisogna far seguire delle
conseguenze. Queste persone devono capire la gravità di quello che hanno fatto.
Anche questo triste episodio ci fa capire come l’educazione abbia un risvolto
centrale: lo capiamo bene in questi giorni mentre le nostre scuole, che
accolgono studenti di diverse religioni, stanno riaprendo. Questo integralismo
ebraico mi preoccupa, come ogni estremismo del resto: negli ultimi tempi sono
avvenuti atti vandalici contro la chiesa anglicana di Akkro e la distruzione di
un cimitero cristiano nel Sud di Israele. Non siamo solo noi preoccupati: questi
fatti inquietano anche la società israeliana, ogni estremismo è qualcosa di
grave. Di fronte a questi fatti mi domando: ma è normale che ciò accada?».
Nei
giorni scorsi ha suscitato grande eco la morte del cardinale Martini, grande
amante della Terra Santa e di Gerusalemme in particolare …
«Come
patriarcato abbiamo mandato un telegramma al cardinale Scola in cui abbiamo
ricordato la grande figura del cardinale Martini e la sua presenza a
Gerusalemme. Per noi il suo stare qui è stata una grazia: era una figura di
vero patriarca, saldo nella fede, fermo, felice e sicuro nel suo carisma.
Predicava spesso ritiri spirituali ai sacerdoti nella chiesa delle suore di San
Giuseppe. Ha vissuto la complessità della Terra santa dal punto di vista
politico ma senza parlare il linguaggio della politica, restando invece sulla
dimensione della spiritualità. Il nostro è un ricordo molto grato. Spero che
dal cielo continui a ricordarsi di questa Terra, che è stata anche la sua».
Proteste anti-Rohingya: i monaci sfidano i divieti e tornano in piazza
AsiaNews - Mandalay - 5 settembre 2012
Centinaia
di religiosi buddisti si uniscono ancora alla popolazione per manifestare contro
la minoranza musulmana. Le autorità locali vietano nuove dimostrazioni nel
timore di violenze. Ma le marce per le vie della città potrebbero durare anche
“una decina di giorni”. Per i monaci la protesta è un modo per esprimere la
propria “forza politica”.
Continuano
le proteste dei monaci birmani contro i Rohingya, a dispetto dell'ordine
impartito dalle autorità che intima la sospensione delle manifestazioni per
ragioni legate alla sicurezza. Ieri per il terzo giorno consecutivo centinaia di
religiosi buddisti si sono uniti alla gente comune, per esprimere
"solidarietà" al presidente Thein Sein, che ha lanciato nei giorni
scorsi una controversa proposta intesa a deportare la minoranza musulmana al di
fuori del confini del Myanmar (cfr. AsiaNews 04/09/2012 Monaci buddisti col
presidente Thein Sein: Cacciate i Rohingya dal Myanmar). Le dimostrazioni a
Mandalay, seconda città per importanza della ex Birmania, potrebbero continuare
- raccontano fonti di AsiaNews - "per una decina di giorni", anche se
i funzionari governativi locali cominciano a mostrare insofferenza verso queste
manifestazioni di piazza che rischiano di sfuggire al loro controllo. Il Myanmar
non riconosce i Rohingya come etnia, ma li considera immigrati clandestini
provenienti dal vicino Bangladesh, Per le Nazioni Unite sono almeno 800mila gli
esponenti della minoranza musulmana stanziati nella ex Birmania e rappresentano
uno dei gruppi più perseguitati al mondo. Secondo quanto riferisce Radio Free
Asia (Rfa), per i monaci l'adesione alla protesta è un modo
"importante" per esprimere il proprio "peso" e la
"forza politica" anche in virtù del fatto che non è permesso loro di
votare.
Tuttavia,
nelle strade di Mandalay comincia a montare la tensione in seguito all'ordine
impartito dalle autorità locali che proibiscono nuove manifestazioni. Un
segnale che indica - nonostante il cammino di riforme promosso dal governo
centrale - ancora quanto siano "limitati" i diritti civili in Myanmar
e quanto sia, di contro, ancora forte il timore delle amministrazioni e delle
forze di polizia di perdere il controllo o concedere troppa libertà al popolo.
Almeno
5mila monaci buddisti birmani hanno aderito alla marcia di protesta -
autorizzata da funzionari e polizia - che si è tenuta il 2 settembre per le vie
di Mandalay. I religiosi hanno sfilato assieme alla popolazione, per sostenere
la controversa proposta di Thein Sein all'agenzia Onu per i rifugiati (Unhcr)
che chiede la "deportazione" di centinaia di migliaia di musulmani
Rohingya dai centri di accoglienza a nazioni estere, perché "non fanno
parte della nazione birmana".
Si
tratta della più grande manifestazione di piazza dalla Rivoluzione zafferano
del settembre 2007, anch'essa guidata dai monaci birmani - iniziata come
protesta per il caro-carburante - e repressa nel sangue dalla giunta militare
allora al potere.
Il
Myanmar, composto da oltre 135 etnie, ha avuto sempre difficoltà a farle
convivere e in passato la giunta militare ha usato il pugno di ferro contro i più
riottosi. I musulmani in Myanmar costituiscono circa il 4% su una popolazione di
60 milioni di persone. Secondo l'Onu, nel Paese vi sono 800mila Rohingya,
concentrati in maggioranza nello Stato di Rakhine, teatro nelle scorse settimane
di violenze e scontri - che hanno causato decine di vittime - fra la maggioranza
buddista e la minoranza musulmana. Un altro milione o più sono dispersi in
altre nazioni: Bangladesh, Thailandia, Malaysia.
Carestia in Niger? Sì,
ma... di Massimo A.
Alberizzi
Corriere
- 26 agosto 2012
Tutti parlano di carestia e d’aiuti. Tutti sanno perfettamente che si tratta di una situazione strutturale e non congiunturale. Diciamo la verità: è più facile – forse anche redditizio – far venire dei viveri da distribuire piuttosto che impegnarsi in riforme agrarie che richiedono decine d’anni per ottenere dei risultati probanti.
Prima affermazione. Ogni villaggio ha degli oriundi che vivono in una
città e le piogge del Sahel dipendono dal monsone che le distribuisce su dei
“corridoi” geografici. Ogni anno uno o diversi corridoi avranno poche
piogge. Gli oriundi e in particolare i funzionari statali, negli anni 60 e 70,
inviavano dei viveri ai loro villaggi d’origine. Dopo la firma del primo
programma d’aggiustamento strutturale nel 1989 e la svalutazione di 50% del
franco cfa nel 1994, i primi aumenti salariali sono arrivati nel… 2011… |
Sono nati dei nuovi bisogni: il cellulare, il
motorino, ecc. In poche parole gli oriundi non hanno più i mezzi per aiutare le
famiglie rimaste al villaggio.
Ecco dunque una delle spiegazioni possibili: Una
povertà generalizzata che limita ormai l’aiuto reciproco nella famiglia.
Seconda affermazione.
Il contadino non ha grande interesse a coltivare del
miglio. Sconcertante affermazione!
Una persona, in stagione delle piogge, non può
coltivare a mano più di un ettaro. Questo ettaro, se la pluviometria è buona,
produrrà 350 kg di miglio, pagato al contadino sui 70 cfa il kg. Un reddit
annuale di 24.500 cfa. Un piccolo commerciante, seduto dietro un traballante
tavolino con caramelle e sigarette, se guadagna 100 cfa il giorno, guadagna di
più che a coltivare miglio. Investire per un attrezzo a trazione animale, anche
se sovvenzionato, annulla il guadagno di almeno uno o due anni, senza contare i
costi dell’animale. Il contadino si equipaggia invece di carrette a trazione
asina perché in questo modo può trasportare per conto terzi oggetti e persone.
Il contadino sa fare molto bene i propri conti economici: coltiva per mangiare e
non (se può trovare un’altra attività economica più redditizia) per
commercializzare.
Terza affermazione.
Qualsisi aumento della produzione è legato alla
proprietà terriera. Senza un’avanzata rilevante sulla risoluzione dei
problemi fondiari, non ci saranno terreni disponibili “sicuri” per chi vuole
investire in agricoltura. Acquisire delle tecnologie per aumentare la produzione
agricola senza la certezza di poter lavorare un terreno per un certo numero
d’anni, è una scommessa difficile da accettare. Il Niger ha acqua un po’
dappertutto, in superficie o a piccole profondità.
Bisognerà,un giorno, avere il coraggio di sostenere
che la terra irrigabile deve essere coltivata tutto l’anno. Questo attraverso
una legislazione appropriata, anche se l’applicazione richiederà diversi
anni. L’importanza sta nel “principio” che aprirà la strada a dei decreti
applicativi e porterà ad un dialogo / discussione necessario alla riflessione
comune.
Quarta affermazione.
L’Occidente, Europa o Stati Uniti, non è stato
capace d’assicurare un’agricoltura senza sovvenzioni. Sarebbe illusorio
pensare che questo sia possibile in Africa e in particolare in Niger.
La sovvenzione, anche se attenta e orientata con
precisione, sarà indissociabile da uno sviluppo agricolo e dalle migliorie da
apportare alle tecnologie.
Senza un aumento della domanda e dei prezzi
accettabili, il contadino non ha alcun interesse ad investire in equipaggiamenti
costosi o a migliorare la propria produzione agricola. Quando la domanda esiste,
l’impossibilità di avere delle terre con un minimo di garanzie di durata
(acquisto o affitto), scoraggia ogni investimento.
Negli ultimi decenni, molti progetti di cooperazione
si sono investiti per un aumento della produzione agricola. I risultati, per gli
stessi motivi, sono… poco interessanti.
Al contrario si tratta di intervenire per far
aumentare la domanda che “tirerà” la produzione. Per fare questo è
necessario promuovere l’installazione, a livello regionale o in zone precise,
di strutture intermediarie di trasformazione e conservazione della produzione.
Cosa fare a livello agricolo.
Analizziamo la situazione di una zona ad un
centinaio di chilometri da una città, dove à stata promossa la piccola
irrigazione per ottenere un aumento della produzione. Il contadino:
a) Vende la produzione, quando può, a degli
intermediari che la trasportano verso la città e pagano malissimo il
produttore.
b) Migliora la propria alimentazione con gli
invenduti, ma si abitua ai nuovi gusti e, fuori stagione, acquisterà, per
esempio, del concentrato di pomodoro d’importazione, perdendo gran parte dei
guadagni, se non tutti.
c) Adatterà la propria produzione ai profitti che
può ottenere. Se vende male per uno o due anni, diminuirà la produzione.
L'installazione d’unità di trasformazione
darebbe:
a) Possibilità di conoscere in anticipo il prezzo
d’acquisto da parte della struttura (in rapporto a quantità, qualità e
data), quindi incitazione a produrre di più e meglio.
b) Miglioramento della situazione dei mercati
regionali. La produzione locale è trasformata regionalmente e tornerà
parzialmente sui mercati nei momenti di carestia.
c) Creazione di posti di lavoro e, quando possibile,
le strutture funzioneranno con energie alternative pulite.
d) Possibilità per i donatori di trovare
localmente, invece di importare, parte delle derrate necessarie per sovvenire ai
bisogni del paese in caso di carestie.
Queste imprese di trasformazione dovranno essere
sovvenzionate nello stesso modo che l’Unione Europea sovvenziona la propria
agricoltura attraverso la PAC, adattando evidentemente gli interventi alle
situazioni locali.
La sovvenzione
dovrà tenere conto anche delle tecnologie, dighe,
sistemi d’irrigazione ecc. Il passaggio ad una gestione / manutenzione locale
dovrà essere immediato in modo da confrontarsi con i problemi reali ma
sostenuto dall’esterno (stato e donatori) per molti anni.
Gli altri fattori
Ho volutamente trascurato alcuni fattori aggravanti.
Per il momento le terre irrigabili disponibili possono facilmente coprire i
bisogni alimentari del doppio della popolazione del Niger. L’aumento
vertiginoso della popolazione è e sarà certamente un grosso problema nel
prossimo futuro.
Le risposte non si troveranno attraverso la
sensibilizzazione o le centinaia di seminari che si tengono ogni anno in questi
paesi, fiato e carta sprecati.
Educazione, formazione, informazione e comunicazione
sono armi potenti non ancora abbastanza utilizzate.
Perché i canali televisivi europei non sono
distribuiti gratuitamente? Perché non s’installano delle televisioni di
villaggio ad energia solare come già esistevano negli anni 70?
Cristiani e indù in fuga
di Giulia Cerqueti
Famiglia
Cristiana - 26 agosto 2012
La
polizia l’ha arrestata con l’accusa di blasfemia, strappandola a sicuro
linciaggio da parte di una folla di estremisti islamici. Ora, rischia
l’ergastolo. Anche se si tratta di una bambina, affetta da sindrome di Down.
Rimsha Masih ha 11 anni, è cristiana, vive nell’area di Umara Jaffar a
Islamabad. L’accusa contro di lei: avere bruciato le pagine di un libro
islamico usato per imparare a leggere il Corano.
La
Ong locale Cristiani in Pakistan ha respinto l’accusa. Ma, intanto, trecento
famiglie cristiane di Umara Jaffar sono state costrette a fuggire per paura di
violenze e ritorsioni e la situazione nell’area è di alta tensione. Come
sottolinea l’agenzia Asianews, il fatto è particolarmente grave e allarmante:
per la prima volta la legge sulla blasfemia – che dal 1986 punisce chi è
accusato di offendere il Corano e la religione islamica – viene applicata
contro un minore.
In
Pakistan i cristiani, circa 4 milioni di abitanti concentrati soprattutto nel
Punjab, sono spesso vittime di soprusi e discriminazioni. Nel 2008 il Governo di
Islamabad aveva introdotto un ministero per le Minoranze religiose, ma nel 2011
Shahbaz Bhatti, primo ministro cattolico nel Paese, è stato assassinato dai
fondamentalisti per la sua battaglia contro la legge sulla blasfemia.
Dal
2011 è stato creato un ministero per l’Armonia nazionale. Ma per le minoranze
in Pakistan la vita è difficile: molte famiglie indù fuggono in India per
scongiurare il pericolo che le loro figlie vengano convertite a forza
all’islam e costrette a sposare uomini musulmani.
4
milioni sono i cristiani in Pakistan, su una popolazione di 180 milioni di
abitanti. Sono perlopiù di etnia punjabi
Oltre
un milione sono i cattolici pakistani
Il 90% dei bambini di strada consuma droghe: è allarme per le fasce più
vulnerabili
Agenzia Fides - Asunción - 4 settembre 2012
Il
90% dei bambini paraguaiani che vivono nelle strade è dipendente dalle droghe.
Questa la triste realtà emersa da uno studio realizzato dalla Segreteria
nazionale per l’Infanzia e l’Adolescenza denominato Programma di Assistenza
Integrale a bambini, bambine e adolescenti di strada. Dalla sua prima fase
risulta che in Paraguay il 90% dei piccoli tra 12 e 16 anni di età, senza casa
e che vivono in situazioni di vulnerabilità, ha problemi di dipendenza e
finisce per troncare i vincoli familiari per vivere in strada e pulire i vetri
delle automobili al fine di sopravvivere. Negli ultimi mesi è stato registrato
un numero ancora più elevato di ragazzi che dormono in strada, nei mercati
popolari e in altri luoghi di Asunción. L’analisi ha mostrato la dura realtà
dello stato di avanzamento del consumo di droga nel settore giovanile e in molti
casi il conseguente rifiuto dell’interessato di sottoporsi al trattamento per
la disintossicazione. Secondo i coordinatori del Programma, il luogo principale
dove si radunano i piccoli e i giovani è la piazza centrale della città, nota
come uno dei centri dove si fa maggiore uso di droghe.
Oltre un milione di bambini a rischio alimentare e sanitario a causa della
crisi
Agenzia Fides - Damasco - 7 settembre 2012
In
Siria, e nei paesi vicini dove si sono rifugiati, è allarme minori per la
scarsità di generi alimentari e di strutture sanitarie. Sono decine di migliaia
i piccoli coinvolti nel conflitto interno in corso da un anno e mezzo privi di
accesso all’acqua potabile, all’alimentazione e assistenza sanitaria
adeguate. A causa degli scontri bellici, molti minori rifugiati e le loro
famiglie non hanno potuto ricevere le vaccinazioni di routine o altri servizi di
controllo della salute. Ad Aleppo ieri è stato registrato un ennesimo massacro
di piccole vittime. Secondo un responsabile regionale per la Sanità del Vicino
Oriente dell’UNICEF, la situazione è molto grave, perché durante le crisi i
minori sono le vittime più vulnerabili alle epidemie e alla malnutrizione, in
particolare quelli che vivono nei campi profughi come quello di Zaatari, nel
nord della Giordania. L’organizzazione dispone nel paese di 8 unità mediche
mobili, grazie alle quali è riuscita ad assistere 175 mila persone ad Aleppo,
Damasco, Daraa, Hama e Homs. Dai controlli fatti, il quadro globale è
allarmante, soprattutto a Damasco e nelle periferie che circondano la capitale.
Si stima che 1,3 milioni di bambini siano vittime della grave crisi politica e
militare interna, e che sin dall’inizio siano coinvolti attivamente negli
scontri. Diverse organizzazioni a tutela dei diritti umani, come Human Rights
Watch, Amnesty International o l’Osservatorio Siriano per i Diritti Umani,
hanno denunciato casi concreti di arresti, torture e assassini di minori
coinvolti in manifestazioni o catturati negli scontri tra l’Esercito Siriano
Libero e le forze governative. (AP)
Ora
rischia tutto il Medio Oriente di Annachiara Valle
Famiglia
Cristiana - 26 agosto 2012
Esiliato
e amareggiato. Matrudzaalan, il nome che padre Dall’Oglio ha scelto per la sua
e-mail, dice, in una parola sola, lo stato d’animo del Gesuita espulso dalla
Siria lo scorso giugno. Il rifondatore di Deir Mar Musa el-Habasci (Monastero di
San Mosè l’Abissino), nel deserto a nord di damasco, esperto di dialogo e
sostenitore della democrazia, è appena tornato in Italia dopo un tour in
Norvegia, Canada e Stati Uniti. «Ho incontrato l’opposizione siriana
all’estero, le organizzazioni per la pace, ministri e funzionari dei Governi e
dell’Oinu. A tutti sto dicendo che è urgente aprire un dialogo tra i siriani
e appoggiarli nella lotta per la democrazia, senza tralasciare l’uscita dalla
violenza e la riconciliazione».
In
Siria da oltre 30 anni, padre Dall’Oglio ha parlato più volte di «democrazia
consensuale». Che cosa intende esattamente?
«Che
bisogna aprire un accesso alla democrazia matura in un Paese mosaico, la Siria,
dove tutti i cittadini sono minoranza. I sunniti non sono un blocco unico. Fra
loro ci sono i Fratelli Musulmani, soggetto politico emergente, e altri come i
curdi o i beduini. Ci sono poi sunniti che, a causa delle relazioni con il
Golfo, in particolare con l?Arabia Saudita, fanno parte del mondo wahabita
salafita. Solo alcuni si situano in un’area “Al Qaida”, terrorista. Si
tratta di movimenti musulmani radicali che escludono, a volte, ideologicamente
(takfir) il resto dell’islam. Accanto alla massa dei musulmani più o meno
secolarizzati e tiepidi, ci sono i sunniti sufi, mistici e folclorici. I sciiti
sono alawiti (il clan presidenziale al potere), ismaeliti (quelli dell’Agha
Khan), duodecimani (come in Iran e nel Sud del Libano) e drusi. C’è
un’antica e variegata minoranza cristiana e una, purtroppo ormai piccolissima,
presenza ebrea. Noi dobbiamo inventarci una democrazia consensuale per una Siria
plurale, pia e tollerante».
In
questi giorni di aspri scontri quale può essere la strada per la democrazia?
«Occorre
perseguirla con l’appoggio della comunità internazionale. Ho visitato molti
gruppi di siriani all’estero per favorire il dialogo tra loro, per creare le
condizioni culturali per superare la guerra civile in corso. Alcuni cristiani,
purtroppo, si stanno facendo strumentalizzare dall’ideologia di regime e
negano l’insurrezione e la Primavera araba. Questo “negazionismo” sarà
una tragedia per i cristiani, utilizzati come avversari della rivoluzione e,
quindi, identificabili come nemici del popolo siriano. E’ doloroso registrare
che questo negazionismo menzognero gode d’un qualche impatto in Occidente
perché può contare su una certa islamofobia che è già nei cuori di tanti».
Non
c’è una vera minaccia islamica?
«L’islam
è parte essenziale della convivenza umana globale. Di qui l’importanza
dell’evoluzione dei gruppi musulmani divenuti protagonisti politici. Ci sono
derive patologiche come in Egitto e in Turchia. I cattolici dovrebbero dedicare
più attenzione a queste realtà. Scrivevo a Kofi Annan che si devono investire
soldi per tirare fuori i giovani dalla violenza politica. Ricordo i miei
compagni di scuola di Ordine Nuovo e delle Brigate Rosse trascinati al
terrorismo. Oggi ci sono i giovani musulmani, ma anche giovani cristiani,
coinvolti nella violenza di Stato delle milizie di Assad o, al contrario, in
gruppi radicali, clandestini a bordo della rivoluzione. Fermiamo la guerra
subito! Le potenze regionali favoriscano la pace in Siria e non pensino di tirar
alcun profittodalla guerra civile».
Come
pensa si evolverà la situazione?
«Si
ha l’impressione che la banda degli Assad speri che la situazione regionale
– per esempio una guerra fra Israele e Iran – consenta di perseguire la
repressione fino alla fine. Sarebbe un massacro. In seconda istanza vogliono
guadagnare tempo contrastando al massimo l’insurrezione che avanza. Il regime,
nel ritirarsi, distrugge città e paesi in modo da indebolire il nemico in vista
di regolamenti futuri. Infine, si potrebbe arrivare a una sorta di Kossovo
siriano, tra l’Oriente e il Mediterraneo, appoggiato dall’Iran e dalla
Russia. L’Iran costituirebbe dunque un arcipelago sciita: il Sud del Libano,
l’Ovest siriano, il Sud iracheno, il Bahrain, un pezzettino di Afghanistan,
l’Est della penisola arabica. Lo staterello costiero siriano sarebbe
sostenibile con l’appoggio russo e con le risorse offshore in petrolio e gas,
senza contare l’acqua da vendere all’assetato retroterra».
Non
è, però, quello che si augura
«No.
Chi vuole il bene della Siria vuole un Paese unito, libero e neutrale. Gli Stati
Uniti stanno intervenendo timidamente, anche perché Obama non può farsi
rinfacciare in periodo pre-elettoraled’aver abbandonato del tutto i siriani
alle zanne del regime, appoggiato dagli avversari geostrategici dell’America.
Dovrebbero, però, intervenire decisamente le Nazioni Unite. Ci vuole una fly
zone con l’invio di caschi blu. Ma la comunità internazionale è ricattata
dai veti della Russia e della Cina. Questa situazione non potrà protrarsi perché
se Russia e Iran ci mettono tutto il loro peso, se non c’è un accordo
geostrategico per una Siria neutrale, se non ci sono i caschi blu nelle zone
sensibili e se non ci si mette d’accordo per un’evoluzione democratica del
popolo siriano, allora si va verso una spaccatura sanguinosissima. Sarà divisa
la Siria, ma anche l’Irak ed il Libano, con una parte sunnita a rischio di
deriva radicale e un’altra legata mani e piedi all’Iran».
E
i cristiani in tutto questo?
«Una
larga parte lascia il Paese. Una maggioranza, per paura, avrebbe preferito non
cambiare il sistema. Alcuni sono per la rivoluzione anima e corpo, altri fanno
l’impossibile per assistere le vittime, proteggere gli orfani, aiutare le
famiglie. Sono molto orgoglioso di questi cristiani di base che mettono innanzi
tutto la solidarietà civile ed umana. Occorre anche un intervento diplomatico
del Vaticano, con risvolto ecumenico in relazione con gli ortodossi vicini a
Mosca, specie in vista del viaggio papale in Libano a metà settembre. Un
intervento che andrebbe anche incontro a chi ha più paura dell’islam, perché
gli estremismi si combattono dando la parola al dialogo, affermando la
democrazia e la libertà per tutti».
Un
popolo in fuga
Sempre
più grave la situazione in Siria. Il Rapporto dell’Onu (che ha nominato
inviato speciale l’ex ministro degli Esteri algerino Lakhdar Brahimi in
sostituzione di Kofi Annan) accusa le forze siriane e le milizie fedeli al
regime di Assad di “crimini di guerra e contro l’umanità”. E cresce
il numero dei siriani che fuggono da questo inferno. In Turchia ne sono arrivati
60 mila e il Governo di Ankara ha annunciato la costruzione di altri campi per
ospitare almeno 100 mila rifugiati. In Grecia ne sono attesi altri 15 mila.
Secondo l’Alto Commissariato Onu per i rifugiati (Unhcr) in Libano, Turchia,
Giordania e Irak ci sono già oltre 150 mila profughi. Alcuni approdano anche
sulle nostre coste, come in Calabria dove son sbarcate 200 persone.
Particolarmente delicata è la situazione dei bambini per i quali l’Unicef
continua ad intervenire appellandosi anche alla generosità degli italiani. Per
sostenere la campagna “Io sto dalla parte dei bambini siriani” si può
andare sul sito www.unicef.it o usare i
social network Facebook e Twitter
La Caritas: “Nei villaggi liberati dagli Shabaab ancora gravi violazioni dei
diritti umani”
Agenzia Fides - Mogadiscio - 8 settembre 2012
Continua
l’offensiva delle forze keniane e dell’AMISON (Missione Africana in Somalia)
insieme alle truppe del governo di transizione somalo a Chisimaio, la città
portuale della Somalia meridionale, ultima importante roccaforte degli
integralisti Shabaab. “Ci si aspetta una nuova ondata di profughi e di
rifugiati dalla Somalia a causa dei combattimenti nell’area di Chisimaio”
dice all’Agenzia Fides Maria Grazia Krawczyk, responsabile di Caritas Somalia.
“La
situazione nell’area intorno alla città rimane fluida, con diversi villaggi
che non sono ancora pienamente controllati dalle truppe del governo somalo”
afferma la signora Krawczyk. “Dalle testimonianze che ci pervengono
dall’area, nei villaggi ‘liberati’ dall’esercito non si riscontra un
cambiamento delle condizioni di vita degli abitanti: cambia chi detiene il
potere ma i problemi rimangono, soprattutto per quel che concerne il rispetto
dei diritti umani (e in particolare di quelli delle donne)”.
“Sembra
inoltre che dove gli Shabaab hanno perso terreno si sono risvegliate le tendenze
claniche. L’esercito e il governo, non essendo coesi, si stanno dividendo
seguendo le tradizionali linee claniche. Gli Shabaab, con la loro ideologia
basata sull’islam politico, avevano messo da parte i clan, ma dove il potere
degli Shabaab è venuto meno sono riemersi i capi tradizionali. I giochi di
potere tra i diversi clan influenzeranno enormemente l’elezione del Capo dello
Stato, il 10 settembre” conclude la responsabile di Caritas Somalia.
Il
Presidente verrà eletto dal Parlamento, nominato ad agosto dagli anziani dei
diversi clan. (L.M.)
Vescovi cattolici a Colombo: basta violare i diritti umani
di Melani
Manel Perera
AsiaNews - Colombo - 6 settembre 2012
La
Conferenza episcopale elenca alcuni abusi all’ordine del giorno nel Paese.
Violenze sui carcerati, che spesso finiscono in omicidi; danni al settore
dell’educazione; intimidazioni contro i contadini. Quanto sta accadendo crea
“un senso di perdita dei valori umani e religiosi” della società.
Prigionieri
delle carceri srilankesi vittime di percosse e violenze, che spesso portano a
ricoveri d'urgenza, quando non alla morte. Minacce e ritorsioni sui contadini
che non forniscono quantità sufficiente di riso. Riforme (mancate) che
rischiano di affossare il settore educativo del Paese. Sono solo alcuni degli
abusi denunciati dai vescovi cattolici dello Sri Lanka. In un comunicato
ufficiale, la Conferenza episcopale (Cbcsl) chiede al governo e agli organismi
competenti di "trovare una soluzione politica" che risolva i problemi
e assicuri il rispetto dei diritti umani di tutti i cittadini.
Firmatari
del comunicato sono il card. Malcolm Ranjith, presidente della Cbcsl, e mons.
Norbert M. Andradi, segretario generale. "Abusi simili - affermano i
vescovi - creano un senso di perdita nei valori umani e religiosi della società
srilankese". Quanto avviene nelle prigioni nazionali infatti, è anzitutto
una "violazione delle leggi internazionali, secondo le quali tutti i
prigionieri devono essere trattati con dignità, garantendo la loro
sicurezza". In più, sottolineano, "per la fede cristiana, tutti gli
uomini sono fatti a immagine e somiglianza di Dio [Genesi 1:27]. Per questo,
essi dovrebbero essere trattati con dignità e rispetto in ogni momento".
Quanto
sta accadendo nel Paese nel settore dell'educazione, è motivo di ulteriore
preoccupazione per la Cbcsl. Da oltre due mesi infatti, i professori sono in
sciopero per chiedere al governo maggiori diritti e libertà. Colombo però, ha
risposto con la chiusura di tutte le facoltà (tranne quelle di medicina),
inasprendo ancora di più il braccio di ferro. "Il governo - spiegano i
vescovi - deve affrontare le questioni poste dai docenti senza rimandare ancora,
perché a farne le spese sono i giovani dello Sri Lanka".
Infine,
la Cbcsl ha espresso "profonda preoccupazione" per quanto sta
accadendo ad alcuni contadini della North Central Province: impiegati nelle
risaie, quest'anno non sono riusciti a fornire la quantità richiesta di
raccolto, anche a causa del ritardo delle piogge monsoniche, e hanno subito
gravi intimidazioni. "Il governo - conclude il comunicato dei vescovi -
deve lavorare per una soluzione politica. Dopo tutto quello che ha passato,
questa nazione chiede una pace duratura".
Marikana: “il rilascio di parte dei minatori è un passo importante”
Agenzia Fides - Johannesburg - 4 settembre 2012
“Il
rilascio di buona parte dei minatori arrestati dopo gli scontri del 16 agosto è
un passo importante per pacificare gli animi” dice all’Agenzia Fides Sua
Ecc. Mons. Kevin Dowling, Vescovo di Rustenburg (Sudafrica), nel cui territorio
rientra la miniera di platino di Marikana, dove permane lo stato di agitazione
dei minatori dopo gli scontri con la polizia del 16 agosto che hanno provocato
44 vittime (vedi Fides 28/8/2012). La giustizia sudafricana ha rilasciato 162
dei 270 minatori arrestati, dopo la sospensione della loro incriminazione per
omicidio dei loro colleghi.
Nel
frattempo continuano i negoziati per la cosiddetta pacificazione tra i sindacati
e la società mineraria con la mediazione del governo. “La trattativa
continua, ma una delle sigle sindacali ha affermato che occorre concentrarsi
sulla questione salaria - dice Mons. Dowling -. I minatori chiedono un forte
aumento salariale, passando dagli attuali 4.000 Rand mensili a 12.500”.
“Finora
però non si è trovato un accordo tra i diversi gruppi sindacali, che sono a
loro volta divisi. D’altro canto la società mineraria preme perché il lavoro
nella miniera riprenda al più presto, perché si trova in difficoltà
finanziaria. Speriamo quindi che si raggiunga presto un accordo, magari entro la
serata di oggi” conclude il Vescovo.
Condanne a morte, si muove la società civile
Misna - 4 settembre 2012
La
Corte suprema, il presidente della Repubblica, la nuova Costituzione o la società
civile: secondo un editoriale pubblicato dall’Agenzia di stampa del Sud Sudan,
sono queste le vie attraverso le quali giungere a una moratoria o a
un’abolizione delle condanne a morte nello Stato più giovane del mondo. Il
testo è stato pubblicato pochi giorni dopo l’esecuzione di due condanne nella
prigione centrale di Juba. Gli autori sono l’avvocato e attivista Elizabeth
Ashamu e il direttore della Società per gli studi di giurisprudenza del Sud
Sudan, David Deng.
La
tesi è che lo Stato divenuto indipendente nel luglio 2011 può e deve aderire
alla “tendenza globale” verso l’abolizione delle condanne a morte, una
tendenza resa evidente dalle risoluzioni per una moratoria approvate più volte
dall’Assemblea generale dell’Onu.
Secondo
gli autori, le vie per raggiungere questo obiettivo sono diverse. Anzitutto la
Corte suprema può bloccare l’esecuzione delle sentenze sulla base della
mancata assistenza legale degli imputati, un fatto molto comune in Sud Sudan.
Ogni condanna deve poi essere autorizzata dal capo dello Stato, che ha il
diritto di rifiutarsi di firmare. Una terza via è rappresentata dal passaggio
dalla Costituzione transitoria in vigore dal 2011 a una Carta definitiva, in
fase di elaborazione. La pena di morte, si ricorda nell’editoriale, fu
introdotta dai colonizzatori inglesi a inizio ’900; una sua abolizione,
sottolineano gli autori, sarebbe compatibile con le tradizioni e le “leggi
consuetudinarie” delle comunità del Sud Sudan.
#OSJUBA.
Una visione open per lo sviluppo del Sud Sudan di Daniela Bandelli
Unimondo
- 6 settembre 2012
Può
Juba, la capitale del paese più giovane al mondo, segnato da decenni di guerra
civile e con indicatori economico sociali drammatici, diventare un modello
pionieristico di sviluppo basato sull’Open source? Cioè sulla filosofia del
libero accesso, condivisione e redistribuzione di strumenti e contenuti digitali
da dove sono nati i software e i sistemi operativi liberi con codice sorgente
replicabile e modificabile dagli utenti, Wikipedia, licenze come Creative
Commons, nuove forme di giornalismo partecipativo e il crowdmapping. È ciò che
stanno valutando i cyber-attivisti di r0g, organizzazione con sede a Berlino,
attraverso un processo di dialogo con la società civile e le istituzioni
sud-sudanesi, africani della diaspora, organizzazioni che si occupano di
ricostruzione post-conflitto ed esperti di tecnologie per la comunicazione e
l’informazione (TIC).
La
prima tappa verso la realizzazione della visione che r0g ha chiamato #OSJUBA è
stata toccata il 21 e 22 giugno. La seconda è in programma per il 27 settembre,
durante la settimana berlinese dedicata ai social media. Lo scopo degli incontri
è analizzare iniziative del “mondo non-proprietario” in vari settori e
definire una strategia in linea con le aspirazioni della popolazione del Sud
Sudan, stato costituito poco più di un anno fa dalla separazione da Khartoum.
Nel neo paese africano, dei 9 milioni di abitanti più della metà vive in
condizioni di povertà, l’aspettativa di vita è tra le più basse al mondo e
il 48 per cento dei bambini sotto i cinque anni è malnutrito. Il cammino da
compiere sulla strada delle libertà civili è ancora lungo e la libertà di
stampa ancora troppo limitata.
Secondo
Irene Panozzo, giornalista freelance, storica e analista che da dieci anni segue
da vicino le vicende del Sudan, è presto per parlare di strategie di sviluppo
quando nel paese ci sono gravi emergenze da tamponare. “Mancano scuole e
ospedali, infrastrutture, insegnanti e operatori medici. Dall’indipendenza a
oggi, c’è stata un’inflazione dell’80 percento circa. Ci sono alcune
ribellioni in corso, centinaia di migliaia di ex sfollati interni che dal Nord
hanno deciso di rientrare nel Sud, sudsudanesi che magari nel Sud non hanno mai
vissuto, che parlano solo arabo e che dall’ambiente cittadino in cui sono
cresciuti (Khartoum soprattutto) si trovano a «tornare» ai villaggi
d’origine dove non hanno lasciato niente. Ci sono altri 150 mila circa nuovi
profughi che sono arrivati nell’ultimo anno in Sud Sudan, in alcuni degli
stati al confine con il Nord, a causa del conflitto negli stati sudanesi del
Kordofan meridionale e del Nilo Azzurro. La situazione nei campi profughi,
creati a ridosso del confine in zone che durante la stagione delle piogge sono
completamente allagate e quindi sostanzialmente isolate, è drammatica: in due
campi in cui opera Medici Senza Frontiere il tasso di malnutrizione e mortalità
è molto al di sopra della soglia d’emergenza» spiega l’esperta che si
chiede: “In una situazione del genere a cosa può servire l’open-source?”.
Consapevole
della fragilità del paese, della necessità di soddisfare bisogni primari e
delle pesanti deficienze in campo sanitario, educativo e nella gestione delle
risorse è anche Stephen Kovats, fondatore di r0g, che in un articolo
dell’Association for Progressive Communication riconosce come il Sud Sudan sia
probabilmente il posto più difficile in cui realizzare qualsiasi cosa.
“Riuscire a fare bene a Juba però può creare enormi opportunità per la
nazione in erba”, dice lungimirante.
Tra
i progetti che potrebbero rientrare nella strategia di #OSJUBA spiccano la
piattaforma di mappatura partecipativa sviluppata da Ushaidi in Kenya, che ha
recentemente annunciato di avere in cantiere una versione migliorata chiamata
appunto Juba. L’organizzazione tedesca Open-oil potrebbe adattare al contesto
sudanese wiki e ad altre creazioni interattive sperimentate altrove, per
promuovere politiche di gestione delle risorse petrolifere trasparenti e a
beneficio dei cittadini. Sempre in campo energetico, l’austriaca Artesian
potrebbe portare nelle comunità non coperte da corrente elettrica SOLPAC,
piccoli generatori solari a basso costo in quanto sviluppati appunto con
metodologia open-source. Possibile anche il coinvolgimento dell’Ong
internazionale Tactical Technology Collective, specializzata nell’utilizzo di
informazioni per il cambiamento sociale, e i giornalisti dell’Ong tedesca
Media in Cooperation and Transition con corsi per freelance sull’informazione
in situazioni di post-conflitto. Tutti progetti che sarebbero realizzati con
fondi pubblici tedeschi e con il sostegno di fondazioni e partner privati.
“Per concretizzare la visione #OSJUBA vogliamo coinvolgere diversi attori
della comunità internazionale impegnati nei vari settori dello sviluppo e
creare un modello di supporto decentralizzato in cui sviluppatori e utenti
collaborino per trovare soluzioni tarate sulle specificità del contesto. In
questo modo la sostenibilità del progetto non dipenderà da un’unica agenzia
o impresa”, spiega Kovats. “Certo, il successo di questa strategia dipende
da quanto la visione di una capitale fondata sull’open-source sarà condivisa
e appoggiata dalla volontà delle istituzioni locali e dalla messa a punto di
politiche idonee a garantire ai cittadini la libertà di espressione, di accesso
e condivisione delle informazioni – aggiunge -. Infine, altra sfida da
cogliere è insegnare a persone analfabete (il 27 percento degli adulti) o che
non hanno familiarità con internet e le TIC a utilizzare reti e piattaforme”.
Tutte
incognite di un processo tortuoso, i cui frutti nessuno si illude maturino in un
giorno. D’altra parte, non è nell’impatto a breve termine che si misura il
successo di esperimenti partecipativi come quello tentato dagli attivisti
berlinesi, il cui proposito è piuttosto quello di innovare i principi e le
pratiche della cooperazione allo sviluppo iniettandovi la filosofia open.
Verità e giustizia per gli yanomami
di Alessandro Armato
MissiOnLine
- 6 settembre 2012
Gli
indios denunciano un massacro operato da cercatori d'oro brasiliani illegali. Ma
il governo di Caracas sostiene che non ci sono prove
Il
governo venezuelano sostiene di non avere trovato prove del massacro di indigeni
yanomami che, secondo alcuni testimoni oculari, avrebbe avuto luogo lo scorso 5
luglio, nella zona sudorientale dello Stato di Amazonas, ad opera di cercatori
d'oro illegali provenienti dal Brasile (garimpeiros) muniti di elicottero, armi
da fuoco ed esplosivi.
Tuttavia
le organizzazioni indigene dello Stato di Amazonas e alcune organizzazioni
internazionali in difesa dei diritti umani, come Survival international,
ritengono che la notizia possa avere fondamento e chiedono verità e giustizia.
Non
esiste la possibilità di comprovare il numero esatto di vittime, ma si parla di
un'ottantina di persone assassinate nella comunità di Irotaheri, sull'alto
fiume Ocamo, vicino al confine col Brasile. I sopravvissuti sarebbero tre, tutti
scampati alla tragedia perché al momento dell'assalto dei garimpeiros stavano
cacciando.
Il
massacro sarebbe stato scoperto da membri della comunità Hokomawe, che si
stavano recando in visita a Irotaheri. Costoro avrebbero visto corpi
carbonizzati, lo shapono (capanna comunitaria) bruciato e avrebbero trovato i
tre sopravvissuti, assieme a cui avrebbero poi intrapreso un cammino di
diversi giorni per poter dare la notizia, fatto questo che spiegherebbe il
grande ritardo con cui sono stati resi noti i fatti.
Luis
Shatiwe Yanomami, uno dei leader dell'organizzazione yanomami Horonami, sostiene
che ci sono numerosi cercatori d'oro che lavorano illegalmente nelle terre
indigene yanomami e che sono ormai tre anni che la sua organizzazione lo
denuncia. Gli indigeni hanno lanciato un appello alle autorità venezuelane
affinché avviino urgentemente un'indagine.
Fatti del genere sono già avvenuti in passato. Nel 1993 alcuni cercatori d'oro hanno attaccato la comunità yanomami di Haximu, in Brasile, uccidendo 16 persone. El nel 2008 cinque yanomami della comunità di Momoi sono morti intossicati dal mercurio usato dai garimpeiros per cercare l'oro. Nel caso in cui il massacro dovesse essere dimostrato, si tratterebbe dell'ennesimo episodio di violenza contro indigeni amazzonici da parte di gruppi interessati alla loro terra e alle ricchezze che contiene.