PRIMORDIAL – A Journey’s End (Misanthropy
– 1998)
Disco
intriso di passionalità epica, "A Journey’s End"
percorre magistralmente territori folk, intimi, rabbiosi e malinconici.
Gli irlandesi Primordial scrivono uno splendido capitolo di metal
passionale, quasi teatrale, avvolto di pesanti atmosfere. La title
track parla già da sola: inizio con arpeggi folk da lacrime
agli occhi e un crescendo inesorabile e battagliero. Da respirare
in silenzio, preparandosi alla scoperta più profonda ed inesplorata
di noi stessi.
SIRRAH – Acme (Music for Nations – 1996)
Questi
sette ragazzi polacchi stupirono non poco con l’uscita di questo
"Acme", riprendendo ed elaborando il Gothic metal in maniera
molto personale. Non il massimo dell’originalità le tre
voci (femminile, maschile pulita e growling) che cavalcano la moda
del momento, ma splendidamente malinconica ed intima la musica, snodata
su riffs autunnali delle chitarre, arricchita dalla presenza di una
viola che impreziosisce le composizioni lasciandoci addosso una splendida
tristezza intrisa di ricordi persi su una panchina di un parco a pensare,
sotto il cadere di foglie gialle e morte.
ARCTURUS
– Aspera Hiems Symfonia (Ancient Lore Creations – 1997)
Quando
il black-metal abbandona la sua gabbia di genere limitante e diventa
arte. Gli Arcturus, che altro non sono che una riunione di alcuni
membri di band culto come Ulver, Mayhem e Covenant, abbandonano ogni
schema prefisso dal genere e spaziano esplorando atmosfere e territori
sempre nuovi, provocanti, a volte fuorvianti ma di sicuro fascino
ed impatto. Pagani ed epici ma incredibilmente melodici e maledettamente
geniali, i norvegesi si ritagliano uno spazio unico ed inarrivabile
nell’ambito underground, consci della loro originalità.
Culto.
KATATONIA – Brave Murder Day (Avantgarde Music
– 1996)
Mani
nei capelli, vetri rotti, chiodi arruginiti, luce filtrata da una
tenda sporca, atmosfere sulfuree e senza speranza. Riprendo alcune
immagini dal booklet del CD per spiegare con poche parole questo capolavoro
del gruppo svedese. Non c’è luce, non c’è
via di scampo in "Brave Murder Day", e pure quando l’aerea
"Time" sembra ridarci un minimo di vita, subito i Katatonia
ti riportano con le spalle inchiodate al muro, facendoti respirare
l’atmosfera di morte e nullità che le loro composizioni
sporche, depressive nella loro minimalità sanno farti entrare
nel cervello come un invisibile e devastante morbo che ti divora nota
dopo nota. Guardatevi dentro, potrebbe essere l’ultima volta.
DIMMU BORGIR – Enthrone darkness triumphant
(Nuclear Blast – 1996)
Quello
che i Dimmu Borgir stavano per partorire non lo si poteva immaginare
nemmeno con lo splendido precedente "Stormblast" che fondeva
black metal grezzo e pagano con partiture tastieristiche classiche.
Ed invece con "Darkness Enthrone Triumphant" i norvegesi
vanno oltre: suono pulito, potente, produzione finalmente all’altezza
ed espressione compositiva convincente. "Spellbound" ed
"Entrance" sono perle di cattiveria contornate dalle cornici
epiche e barocche della tastiera dell’inarrivabile Stian Arstad
che condisce quasi tutte le canzoni dell’album con unicità
e sapienza. Magistrale l’impatto e l’orchestrazione degli
arrangiamenti, possiamo considerarlo come il "manifesto"
del black metal sinfonico, ora diventato terreno fertile per gruppi
banali e patetici. Ora, di questi Dimmu Borgir, si sono persi le tracce.
Senza più Stian, ora Shagrath e soci giocano a fare i cloni
dei Cradle of Filth, come se non bastassero già loro. Peccato.
BURZUM – Filosofem (Misanthropy – 1996)
Misantropico,
nichilista e licantropo, il nazi-bricconcello Burzum riesce a dare
alle stampe grazie alla magnanima etichetta inglese "Filosofem"
dopo essere entrato in galera per scontare tutte le sue malefatte.
Oggetto di culto e venerazione per i ragazzini del tempo intenti ad
imitarne le gesta, Burzum passa in secondo piano dal punto di vista
musicale dove è già nell’underground con alle
spalle tre album dal contenuto discutibile. Ma indiscutibile è
la sua genialità malata che esprime in tutta la sua fierezza
e perversione in questo lavoro: allucinante, morboso, claustrofobico
e distorto, "Filosofem" è arrangiato al computer,
e le atmosfere cadenzate e oppressive, quasi marziali richiamano alla
sub-cultura del Conte affascinato dalla storia e fierezza teutonica
(i titoli norvegesi tradotti in tedesco già dicono tutto).
Simbolo del nazionalismo e del paganesimo più sfrenato, il
nostro figlio di Odino ci lascia incollati all’ascolto, in precario
equilibrio tra incubo e cupa realtà. L’opener "Dunkelheit"
ci accompagna in un limbo ipnotico dove siamo tenuti in equilibrio
precario solo dalla nostra sanità mentale. Da ascoltare al
buio, deglutendo piano.
DARK TRANQUILLITY – The Gallery (Osmose –
1995)
Con
questo album, per nulla facile, possiamo considerare l’inizio
del fortunato corso della band svedese. Death metal melodico sì,
ma accattivanti riffs ultratecnici al vetriolo e come se non bastasse
l’esordio alla voce di Stanne, rubato agli amici colleghi In
Flames, e che risulta essere un arma forse azzardata, ma vincente.
Se infatti non risulta di facile assimilazione, la voce di Mickael
alla lunga finisce per dare una impronte decisa ad ogni taccia, un
carattere, uno spunto. Con lo scambio di vocalist quindi, sembrano
averci ben guadagnato i Dark Tranquillity, a scapito degli In Flames,
destinati a scrivere buoni album senza costrutto. Ancora presenti
in "The Gallery" le origini folk della band, che si esaltano
ad esempio nella title track, come nella malinconia "Mine is
the grandeur". Un album da ascoltare un po’ per volta,
sforzandosi di coglierne la geniale essenza.
EDGE OF SANITY – Infernal (Black Mark Rec. –
1997)
L’ultimo
capitolo di Dan Swano alla corte degli Edge Of Sanity da lui formati
e abbandonati, non poteva che avere epilogo migliore. "Infernal"
è un lavoro strutturato in maniera efficace e prodotto ottimamente
da Tatgren. Anche se il buon Dan si stava già defilando, la
sua impronta in song come "Damned", "Hollow" ed
"Inferno" rimane riconoscibile e indelebile. In altre tracce
invece si nota già lo stile che gli E.O.S. prenderanno dopo
la sua dipartita: un death violento e veloce, corrosivo in stile Hypocrisy,
che sembra avere senso solo in questo album (in quanto ben amalgamato
nel complesso delle tracce) e non nei sucessivi della band. Epitaffio
che ci fa ricordare ancora una volta, come se ce ne fosse bisogno,
che non possono più esistere gli Edge Of Sanity" senza
Dan Swano, che ci commuove e delizia ancora nell’ultima traccia,
con una prestazione vocale e strumentale da ricordare. "The last
song", mai titolo fu più veritiero. Arrivederci buon Dan.
END OF GREEN – Infinity (Nuclear Blast – 1995)
La
giovanissima età della band tedesca in questione ha il grande
merito di questo prodotto. "Infinity" è infatti un
lavoro intriso di malinconia e di mal di vivere, ma suonato con passione
e semplicità. La voglia di uscire dalle proprie paure, la continua
richiesta di aiuto ad un Dio inesistente, l’autunno e le sensazioni
che ci scava dentro, sembrano essere le ossessioni del quartetto,
che ci delizia con tracce mai stancanti, che sembrano sul punto di
morire, per poi tornare quasi a splendere. Una continua altalena di
emozioni nell’equilibrio precario della vita e della quotidianità.
Scegliete con loro dunque il vostro "Nice day to die". Sinceri
e passionali.
THE GATHERING – Mandylion (Century Media –
1995)
Non
c’è dubbio che con "Mandylion" i The Gathering
scrissero una buona fetta della storia del goth-rock, non solo per
le 8 tracce splendide e inimitabili, ma perché riuscirono a
fare ridimensionare il successivo e ottimo "The Nighttime Birds.
Le escursioni vocali di Anneke spaziano esplorando ogni singola emozione,
e se nella irresistibile cavalcata iniziale "Strange Machine"
si spingono su territori decisamente epici, le successive tracce si
fanno più sensibili, più ricercate, fino a "Leaves",
struggente e commovente. Le due versioni di "In Motion"
sono due perle che non possono lasciare il segno, mentre la strumentale
e visionaria title-track ci regala uno squarcio di Africa, come la
maschera sulla copertina, per poi incedere inesorabile con arabeschi
tastieristici da danza tribale e battagliera. Episodio considerevole
è pure "Sand And Mercury" dove la voce di Anneke
una volta tanto non si erge a colonna portante, ma si "limita"
a disegnare origami che non fanno altro che impreziosire la seconda
parte della traccia quasi psicadelica, e più vicina a quello
che i Gathering sono oggi. Perla.
MASSIVE
ATTACK – Mezzanine (Circa/Virgin – 1998)
Non
si può certo limitare l’immensa e splendida attività
dei Massive Attack, con il grandioso "Mezzanine" ma è
comunque una tappa obbligata per chi da sempre li ha seguiti, e per
chi si vuole avvicinare alle sonorità trip-hop con i maestri
del genere. Oscuro, perverso, acido, commovente e ossessivo, "Mezzanine"
ci regala una dopo l’altra perle del calibro di "Angel",
"Inertia Creep" e "Man Next Door", avvalendosi
inoltre delle performances aeree ed eteree della vocalist dei Cocteau
Twins Elisabeth Fraser, guest d’eccezione in "Teardrop"
(famosissimo a tutti il video con il feto che galleggia nella placenta
cantando commuovendoci), "Black Milk", la conclusiva "Group
Four" ed una "Dissolved Girl" che da sola quasi racchiude
tutta la capacità dei Massive di ricamare percorsi trip con
una naturalezza e un impatto unici. Geniali.
SATYRICON – Nemesis Divina (Moonfog –
1997)
L’arte
più pura di gratuita cattiveria espressa in musica. I Satyricon
toccano il loro picco più alto con "Nemesis Divina",
dopo le splendide perle black, epiche e medioevali di "Shadowthrone"
e "Dark Medioeval Times", Satyr e la sua band sfogano rabbia
pura senza pietà, per nessuno. L’armageddon è
vicino già con l’opener "The Dawn At The New Age",
dove le sfuriate black iniziali lasciano il posto alle cadenze epiche
e marziali in coda. E’ sempre un alternarsi di furiosi assalti
sonori, di screaming rochi e violenti della voce di Satyr, di atmosfere
nordiche e fiere. Pure nelle ultraviolente "Forhekset" e
"Du Som Hater Gud", Satyr trova il modo di farcirne il finale
con assoli di piano inquietanti, sotto il tappeto violento della chitarra
e della batteria di Frost. L’album si chiude con una cadenzata
e sadica marcia degna di poveri schiavi, accompagnati da aperture
tastieristiche da paura. Una frustata in faccia. Indelebile.
EMPEROR – In the Nightside Eclipse (Candlelight
– 1994)
Si
può avere appena sedici anni e confezionare un album che ha
fatto la storia del black metal? Sì, se la band in questione
sono gli Emperor dei primi anni ’90. Isahn, Samoth, Faust e
Techort, nel pieno di una discutibile adolescenza, fatta di gesta
anti-cristiane e dichiarazioni da ragazzini invasati, riescono a mettere
su un disco quella rabbia e quel fuoco sacro e nordico che bruciava
loro dentro. Lasciando perdere i contenuti lirici fin troppo espliciti,
le loro successive vicende giudiziarie, nonché gli Emperor
di adesso, lontana copia di quelli che bruciavano chiese, non posso
che inchinarmi a tanta maestria ed espressione di cattiveria sinfonica,
epica, fredda al punto giusto, battagliera e fiera. La registrazione
approssimativa non riesce a fare perdere mai di vista le capacità
della band. Un esempio? Ascoltatevi la conclusiva "Inno a Satana"
per capirlo.
OPETH
– Orchid (Candlelight – 1995)
Come
un passaggio di testimone. La scoperta da parte di un Dan Swano in
rotta oramai con gli Edge of Sanity di questa giovane band svedese,
segna la sua quasi scomparsa dalla scena, ma resta sua la produzione
per questo album di esordio di una band fenomenale, che ai nostri
giorni sta riscuotendo tutta quella parte di considerazione dei media
e dei magazines, che ai tempi di "Orchid" gli fu negata,
forse per la complessità del lavoro. Il death metal progressivo
è solo una riduttiva etichetta per il quartetto che finisce
per esplorare, tra arpeggi folk e richiami di psicadelia pinkfloydiana,
molto più del lecito e del dovuto a qualsiasi band. Ma per
loro tutto questo non è solo possibile, ma assemblato alla
perfezione, tra suite di oltre dieci minuti, e cambi di ritmo continui
che potrebbero spiazzare se non fossero eseguiti con tale naturalezza
e precisione. Ascoltatevi gli assoli di basso del jazzista De Farfalla,
tanto per fare un esempio. "Orchid" è tutto questo:
dove il metal non può arrivare ci sono gli Opeth. Grandiosi.
SAMAEL –
Passage (Century Media – 1996)
Di
anni ne sono passati oramai, ma il suono che pervade il tappeto sonoro
di "Passage" è quanto di più moderno ci possa
essere. Nel lettore CD fa ancora da cornice a futuristiche visioni
che non fanno che ampliare l’immaginario lunare e da fine del
mondo che gli svizzeri disegnano con maestria in ogni singola canzone
dell’album. Superato il periodo poco ispirato di death-metal
band, in "Passage" la band di Xytras compie uno splendido
e azzeccato salto di qualità. Come se Wagner e Mozart potessero
scrivere canzoni metal. Forte è l’impatto, il songwriting
è semplice e immediato, le tastiere compongono tappeti sonori
classici e apocalittici sui quali le chitarre fanno da complemento,
e la voce roca e rabbiosa di Vorph corona e decora malignamente ogni
intera traccia. Energetico e negativo, evoluto e maligno.
ANATHEMA – The Silent Enigma (Peaceville –
1995)
Il
capolavoro per eccellenza. Un disco immortale e inarrivabile che ancora
oggi non ha eguali, di un genere che oramai ha fatto la sua storia.
Storia che gli Anathema hanno scritto con "The Silent Enigma".
Fin troppo limitante per chi si avvicina a quest’album l’etichetta
gotic-dark-doom che in molti potrebbero dare ad un primo, superficiale
ascolto. In realtà questo silenzioso enigma ti penetra lentamente
nelle vene, e come una droga non ne puoi più fare a meno. Molti
episodi e coincidenze hanno fatto sì che nascesse questo capolavoro,
inaspettato e ancora oggi sottovalutato. Orfani del vocalist Darren
White proprio all’inizio delle registrazioni, il microfono passa
ad uno dei fratelli Cavanagh, chitarrista dalla voce sicuramente meno
versatile di White ma ispirata e sofferente. La giovane età
della band, non provoca scompensi e immaturità ma arricchisce
tutta l’opera dell’ispirazione e del dolore necessarie
alla finalizzazione di questo ambizioso album. "Restless oblivion"
è una esplorazione dell’io più intimo, che cavalca
l’onda emozionale dell’anima e ci travolge con la sua
crescente rabbia sfociante in partiture dark e orchestrali da brivido.
La voce di Cavanagh si fa violenta e disperata per poi lasciare spazio
alla rassegnazione poetica di "Shroud of frost". Dolori
esistenziali e la voglia di uscire dal grigiore interiore sembra essere
il tema portante di tutto il lavoro. "The sunset of Age"
ci riporta ad una sorta di angoscia per il tempo che passa e ci lascia
inermi. Il basso di Patterson disegna dei trip allucinogeni senza
alcun ritorno, mentre Douglas alla batteria fa sfoggio di classe quasi
jazz disegnando impertinenti tappeti, sfruttando il massimo anche
dai piatti e dalla incosciente età. "Nocturnal emission"
è forse l’episodio più claustrofobico e misantropo
dell’album, sporco ed ansimante, con un finale obscure-dark
da ricordare. Cavanagh interpreta ogni canzone, ogni stato d’animo;
nessuna sfumatura viene lasciata al caso in "The Silent Enigma",
ma ampliata in contesti sensoriali che non possono lasciare indifferenti.
"Cerulean Twilight" vede ancora Patterson protagonista da
metà alla fine del brano, lasciandoci a bocca aperta. Variegata
delle emozioni più varie e contrastanti è invece la
title-track, che dagli arpeggi dark barocchi inizia un crescendo verso
la sofferenza fino a sfociare nella splendida "A Dying Wish"
dove lo spirito incline al suicidio e della analisi della disorientata
realtà che ci circonda è portata all’eccesso,
condita da aperture gotiche e sinfoniche magistrali. La conclusiva
"Black Orchid" altro non è che un saggio strumentale
dello spirito che questi ragazzi hanno inciso indelebilmente, e chi
ha assorbito e visto la propria anima accostarsi alla loro anche per
un attimo, non potrà che amare questo album e portarselo dentro.
Per sempre.
DISSECTION
– Storm of the light’s bane (Nuclear Blast – 1995)
La
dimostrazione che si può non essere norvegesi e comporre una
pietra miliare di puro e freddo black metal sta tutta qui. Dopo l’esordio
fortunanto di "Somberlain" gli svedesi Dissection, orfani
della loro mente Zweeslot riescono a scrivere un album che resterà
nella storia. Mai copertina fu più azzeccata; Necrolord ci
mostra quello che è il suono di questa band: una fredda e potente
macchina di morte, che non lesina epicità e fierezza nordica.
Preparatevi alla guerra con "Night’s blood" per poi
scivolare sui tappeti epici partoriti dalla voce glaciale di Nodtveidt
in "Where dead Angels Lie". Le atmosfere che i nostri riescono
a creare sono uniche e da brividi, e senza l’ausilio di nessuna
tastiera riescono a farci entrare in una foresta invernale dove la
morte può colpirti in qualsiasi momento. Ohman dietro le pelli
è precisissimo, una vera macchina da guerra che rafforza ogni
episodio dell’album, dalla splendida title-track, alla epica
"Thorn of Crimson Death" che riassume più di ogni
altra parola lo spirito della band. Peccato che le solite storie di
reclusioni, carceri e omicidi, non ci facciano apprezzare un seguito,
lasciando il nome Dissection sui vari bootleg, prestazioni live o
tributi. In memoria.
MY
DYING BRIDE – The Light at the end of the world (Peaceville
– 1999)
Non
so perché mi è venuto in mente proprio quest’album
da citarvi, ma i M.D.B. sono sempre stati la mia passione e questo
lavoro tocca un picco altissimo per la band inglese, che ci aveva
lasciati piacevolmente spiazzati dal precedente "37.988%…complete"
dove avevano sperimentato un trip-elecrto-goth, che mi aveva fatto
pensare a dei Portished travestiti da darkettoni. In questo "T.L.A.T.E.O.T.W"
i doomers inglesi si riprendono lo scettro di maestri del dark-doom,
traditi fin troppo presto dai coterranei Paradise Lost ed Anathema
restano loro sul trono, e con pieno merito. Basta ascoltarsi l’opener
"She Is The Dark" per capire come Aaron e soci possano scrivere
un capolavoro di arte nera e tradurlo in musica. Cambi di ritmo, ossessioni,
furie rabbiose, malinconie perverse e romantiche, questi sono i My
Dying Bride. "Edenbeast" prosegue il discorso rafforzandolo
in vista della lunghissima suite che dà il titolo all’album.
In conclusione abbiamo anche uno spazio per commuoverci dolcemente
con "Sear Me III". Anche l’artwork del CD è
una piccola chicca da farci lustrare gli occhi. La differenza tra
chi scrive buoni album e chi capolavori è tutta qui. Indiscussi.
THEATRE
OF TRAGEDY – Theatre of Tragedy (Massacre – 1995)
Se
il gotico ultimamente sta stancando tutti e peccando di originalità
possiamo solo guardaci indietro e spulciare tra i gruppi che ne hanno
scritto la storia. Sicuramente i norvegesi sono tra gli inventori
del genere con doppia voce (maschile growl / soprano femminile) e
questo album d’esordio stupisce per l’intimità,
la passione e la cieca tristezza di cui è portatore. Una Liv
Kristine ancora non contaminata e splendidamente ispirata, duetta
magistralmente con il cavernoso Raymond, in un contorno di melodico
dark-doom con venature gotiche non pacchiane ma sapientemente inserite
nel contesto di ogni canzone. "..a distance there is.."
è una fenomenale dimostrazione di come la malinconia possa
prenderti in una giornata di pioggia, mentre "Sweet Art Thou"
riesce ad essere violenta come un Macbeth di appena tre minuti. "Monotone"
è solo l’epilogo di un album d’esordio inaspettatamente
splendido, culla dalla quale (purtroppo) ha preso il via un filone
di band che hanno tentato di ripercorrere le orme fortunate di un
genere che stanca presto, e che ha permesso a troppe gruppi e produttori
di vivere sulla cresta dell’onda, speculando e partorendo inutilità
dietro etichette di genere fin troppo superficiali. Da avere per ricordarsi
cosa è, e chi ha scritto il Gothic.
TRISTANIA – Widow’s Weed (Napalm Rec. –
1998)
Una
piccola perla nell’immenso ed ormai incontrollabilmente patetico
mondo del gothic metal, questo album d’esordio dei norvegesi
Tristania riesce ad emergere al di sopra della mediocrità grazie
ad una genuina interpretazione di ogni pezzo, non stancando dopo due
canzoni, ma affascinadoci e preparandoci all’ascolto del brano
successivo. Le tastiere tendenti agli affreschi in stile barocco sono
l’elemento di forza della band che riesce ad esaltarsi nelle
parti in cui la stessa prende il sopravvento. "Pale Enchantress"
e "My Lost Lenore" sono il concentrato di quello che sono
i Tristania di "Widow’s weed", mentre degna di nota
è anche la splendida "Angellore" oltre alla bellezza
magnetica della cantante Vibeke. Siamo quindi di fronte ad un album
d’esordio con i fiocchi, considerato il genere limitante e gli
inarrivabili Theatre of Tragedy degli esordi.
TIAMAT
– Wildhoney (Century Media – 1994)
I
Tiamat sin dal primo album ci hanno abituato a continue e non prevedibili
evoluzioni, fino al banale dream pop che ora sfoggiano con le ultime
uscite a dir poco povere e impalpabili. Abbandonato ben presto i territori
del death doom metal, "Wildhoney" è l’album
picco della band di Edlund, lavoro che sprigiona atmosfere dark, eteree
e malinconiche ; un album dove la natura sembra essere un elemento
portante di ogni composizione, dal cinguettio degli uccelli, alla
pioggia, al vento. "The Ar" con aperture gotiche e aeree
ci fa volare, mentre gli episodi più azzeccati dell’album
risultano essere sicuramente "Gaia" e "Visionaire",
dove la sinfonia sognante di arpeggi dark, ci accompagna in un mondo
immaginario, parallelo e amorfo. Se doveste avere in casa anche solo
un album dei Tiamat scegliete "Wildhoney" senza esitazioni.
SEIGMEN
– Radiowaves (Sony Norway - 1997)
Sottovalutati
e sconosciuti dai più ma capaci di approdare alla Sony, questi
norvegesi figli di un post-punk elettronico e di una wave rivisitata
in maniera originale e magistrale, deliziano i palati più fini
ed esigenti con questo "Radiowaves", album eterogeneo, complesso
e geniale. Armati di una tecnica invidiabile, colpiscono per la precisione
chirurgica e la psicadelia nell’esecuzione dell’iniziale
"Performance Alpha", per la ballabilità elettro-dark
di "The Modern End", la violenza di "Bloodprint",
in un crescendo di atmosfere e umori variabili. Non facile sicuramente
il compito di seguirli fino in fondo, ma se arrivate alla conclusiva
"Give" con l’acquolina in bocca pronti per un nuovo
ascolto, allora vorrà dire che i Seigmen hanno cominciato a
scorrervi nelle vene.
SIMPLE
MINDS – New Gold Dream (Emi – 1982)
Siamo
all’inizio degli anni ’80 ed il gruppo capitanato dal
carismatico Jim Kerr, è ancora alla ricerca di una identità
precisa, quando con l’ingresso di nuovi e giusti componenti
scrive una delle più belle pagine nella new wave britannica,
che fino a quel momento vedeva padroni assoluti Cure e Joy Division.
Le partiture e gli arpeggi al basso del grande Derek Forbes, la precisione
e la versatilità del batterista di colore Gaynor, senza dimenticare
il grande lavoro di ricamo di MacNeil alle tastiere, fanno di "New
Gold Dream" un disco che segna un epoca, che si ascolta e si
ascolterà sempre, perché pur rimandandoci alle sensazioni
di un era che non c’è più (e quelli della mia
generazione purtroppo possono capirlo…), ci regalerà
sempre un suono ed una alchimia unica. Alchimia che i Simple Minds
perderanno dall’85 in poi. Ma questa è un'altra storia:
" Someone, somewhere in summertime", "New Gold Dream",
"Big Sleep" sono solo una delle 9 perle che il disco ci
regala. Da avere, per sempre.
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