[Disc Of the Month]

GLI ALBUM IMMORTALI consigliati da : d a r k n e s s :

[Immortal Albums]
 

PRIMORDIAL – A Journey’s End (Misanthropy – 1998)

Disco intriso di passionalità epica, "A Journey’s End" percorre magistralmente territori folk, intimi, rabbiosi e malinconici. Gli irlandesi Primordial scrivono uno splendido capitolo di metal passionale, quasi teatrale, avvolto di pesanti atmosfere. La title track parla già da sola: inizio con arpeggi folk da lacrime agli occhi e un crescendo inesorabile e battagliero. Da respirare in silenzio, preparandosi alla scoperta più profonda ed inesplorata di noi stessi.

SIRRAH – Acme (Music for Nations – 1996)

Questi sette ragazzi polacchi stupirono non poco con l’uscita di questo "Acme", riprendendo ed elaborando il Gothic metal in maniera molto personale. Non il massimo dell’originalità le tre voci (femminile, maschile pulita e growling) che cavalcano la moda del momento, ma splendidamente malinconica ed intima la musica, snodata su riffs autunnali delle chitarre, arricchita dalla presenza di una viola che impreziosisce le composizioni lasciandoci addosso una splendida tristezza intrisa di ricordi persi su una panchina di un parco a pensare, sotto il cadere di foglie gialle e morte.

ARCTURUS – Aspera Hiems Symfonia (Ancient Lore Creations – 1997)

Quando il black-metal abbandona la sua gabbia di genere limitante e diventa arte. Gli Arcturus, che altro non sono che una riunione di alcuni membri di band culto come Ulver, Mayhem e Covenant, abbandonano ogni schema prefisso dal genere e spaziano esplorando atmosfere e territori sempre nuovi, provocanti, a volte fuorvianti ma di sicuro fascino ed impatto. Pagani ed epici ma incredibilmente melodici e maledettamente geniali, i norvegesi si ritagliano uno spazio unico ed inarrivabile nell’ambito underground, consci della loro originalità. Culto.

KATATONIA – Brave Murder Day (Avantgarde Music – 1996)

Mani nei capelli, vetri rotti, chiodi arruginiti, luce filtrata da una tenda sporca, atmosfere sulfuree e senza speranza. Riprendo alcune immagini dal booklet del CD per spiegare con poche parole questo capolavoro del gruppo svedese. Non c’è luce, non c’è via di scampo in "Brave Murder Day", e pure quando l’aerea "Time" sembra ridarci un minimo di vita, subito i Katatonia ti riportano con le spalle inchiodate al muro, facendoti respirare l’atmosfera di morte e nullità che le loro composizioni sporche, depressive nella loro minimalità sanno farti entrare nel cervello come un invisibile e devastante morbo che ti divora nota dopo nota. Guardatevi dentro, potrebbe essere l’ultima volta.

DIMMU BORGIR – Enthrone darkness triumphant (Nuclear Blast – 1996)

Quello che i Dimmu Borgir stavano per partorire non lo si poteva immaginare nemmeno con lo splendido precedente "Stormblast" che fondeva black metal grezzo e pagano con partiture tastieristiche classiche. Ed invece con "Darkness Enthrone Triumphant" i norvegesi vanno oltre: suono pulito, potente, produzione finalmente all’altezza ed espressione compositiva convincente. "Spellbound" ed "Entrance" sono perle di cattiveria contornate dalle cornici epiche e barocche della tastiera dell’inarrivabile Stian Arstad che condisce quasi tutte le canzoni dell’album con unicità e sapienza. Magistrale l’impatto e l’orchestrazione degli arrangiamenti, possiamo considerarlo come il "manifesto" del black metal sinfonico, ora diventato terreno fertile per gruppi banali e patetici. Ora, di questi Dimmu Borgir, si sono persi le tracce. Senza più Stian, ora Shagrath e soci giocano a fare i cloni dei Cradle of Filth, come se non bastassero già loro. Peccato.

BURZUM – Filosofem (Misanthropy – 1996)

Misantropico, nichilista e licantropo, il nazi-bricconcello Burzum riesce a dare alle stampe grazie alla magnanima etichetta inglese "Filosofem" dopo essere entrato in galera per scontare tutte le sue malefatte. Oggetto di culto e venerazione per i ragazzini del tempo intenti ad imitarne le gesta, Burzum passa in secondo piano dal punto di vista musicale dove è già nell’underground con alle spalle tre album dal contenuto discutibile. Ma indiscutibile è la sua genialità malata che esprime in tutta la sua fierezza e perversione in questo lavoro: allucinante, morboso, claustrofobico e distorto, "Filosofem" è arrangiato al computer, e le atmosfere cadenzate e oppressive, quasi marziali richiamano alla sub-cultura del Conte affascinato dalla storia e fierezza teutonica (i titoli norvegesi tradotti in tedesco già dicono tutto). Simbolo del nazionalismo e del paganesimo più sfrenato, il nostro figlio di Odino ci lascia incollati all’ascolto, in precario equilibrio tra incubo e cupa realtà. L’opener "Dunkelheit" ci accompagna in un limbo ipnotico dove siamo tenuti in equilibrio precario solo dalla nostra sanità mentale. Da ascoltare al buio, deglutendo piano.

DARK TRANQUILLITY – The Gallery (Osmose – 1995)

Con questo album, per nulla facile, possiamo considerare l’inizio del fortunato corso della band svedese. Death metal melodico sì, ma accattivanti riffs ultratecnici al vetriolo e come se non bastasse l’esordio alla voce di Stanne, rubato agli amici colleghi In Flames, e che risulta essere un arma forse azzardata, ma vincente. Se infatti non risulta di facile assimilazione, la voce di Mickael alla lunga finisce per dare una impronte decisa ad ogni taccia, un carattere, uno spunto. Con lo scambio di vocalist quindi, sembrano averci ben guadagnato i Dark Tranquillity, a scapito degli In Flames, destinati a scrivere buoni album senza costrutto. Ancora presenti in "The Gallery" le origini folk della band, che si esaltano ad esempio nella title track, come nella malinconia "Mine is the grandeur". Un album da ascoltare un po’ per volta, sforzandosi di coglierne la geniale essenza.

EDGE OF SANITY – Infernal (Black Mark Rec. – 1997)

L’ultimo capitolo di Dan Swano alla corte degli Edge Of Sanity da lui formati e abbandonati, non poteva che avere epilogo migliore. "Infernal" è un lavoro strutturato in maniera efficace e prodotto ottimamente da Tatgren. Anche se il buon Dan si stava già defilando, la sua impronta in song come "Damned", "Hollow" ed "Inferno" rimane riconoscibile e indelebile. In altre tracce invece si nota già lo stile che gli E.O.S. prenderanno dopo la sua dipartita: un death violento e veloce, corrosivo in stile Hypocrisy, che sembra avere senso solo in questo album (in quanto ben amalgamato nel complesso delle tracce) e non nei sucessivi della band. Epitaffio che ci fa ricordare ancora una volta, come se ce ne fosse bisogno, che non possono più esistere gli Edge Of Sanity" senza Dan Swano, che ci commuove e delizia ancora nell’ultima traccia, con una prestazione vocale e strumentale da ricordare. "The last song", mai titolo fu più veritiero. Arrivederci buon Dan.

END OF GREEN – Infinity (Nuclear Blast – 1995)

La giovanissima età della band tedesca in questione ha il grande merito di questo prodotto. "Infinity" è infatti un lavoro intriso di malinconia e di mal di vivere, ma suonato con passione e semplicità. La voglia di uscire dalle proprie paure, la continua richiesta di aiuto ad un Dio inesistente, l’autunno e le sensazioni che ci scava dentro, sembrano essere le ossessioni del quartetto, che ci delizia con tracce mai stancanti, che sembrano sul punto di morire, per poi tornare quasi a splendere. Una continua altalena di emozioni nell’equilibrio precario della vita e della quotidianità. Scegliete con loro dunque il vostro "Nice day to die". Sinceri e passionali.

THE GATHERING – Mandylion (Century Media – 1995)

Non c’è dubbio che con "Mandylion" i The Gathering scrissero una buona fetta della storia del goth-rock, non solo per le 8 tracce splendide e inimitabili, ma perché riuscirono a fare ridimensionare il successivo e ottimo "The Nighttime Birds. Le escursioni vocali di Anneke spaziano esplorando ogni singola emozione, e se nella irresistibile cavalcata iniziale "Strange Machine" si spingono su territori decisamente epici, le successive tracce si fanno più sensibili, più ricercate, fino a "Leaves", struggente e commovente. Le due versioni di "In Motion" sono due perle che non possono lasciare il segno, mentre la strumentale e visionaria title-track ci regala uno squarcio di Africa, come la maschera sulla copertina, per poi incedere inesorabile con arabeschi tastieristici da danza tribale e battagliera. Episodio considerevole è pure "Sand And Mercury" dove la voce di Anneke una volta tanto non si erge a colonna portante, ma si "limita" a disegnare origami che non fanno altro che impreziosire la seconda parte della traccia quasi psicadelica, e più vicina a quello che i Gathering sono oggi. Perla.

MASSIVE ATTACK – Mezzanine (Circa/Virgin – 1998)

Non si può certo limitare l’immensa e splendida attività dei Massive Attack, con il grandioso "Mezzanine" ma è comunque una tappa obbligata per chi da sempre li ha seguiti, e per chi si vuole avvicinare alle sonorità trip-hop con i maestri del genere. Oscuro, perverso, acido, commovente e ossessivo, "Mezzanine" ci regala una dopo l’altra perle del calibro di "Angel", "Inertia Creep" e "Man Next Door", avvalendosi inoltre delle performances aeree ed eteree della vocalist dei Cocteau Twins Elisabeth Fraser, guest d’eccezione in "Teardrop" (famosissimo a tutti il video con il feto che galleggia nella placenta cantando commuovendoci), "Black Milk", la conclusiva "Group Four" ed una "Dissolved Girl" che da sola quasi racchiude tutta la capacità dei Massive di ricamare percorsi trip con una naturalezza e un impatto unici. Geniali.

SATYRICON – Nemesis Divina (Moonfog – 1997)

L’arte più pura di gratuita cattiveria espressa in musica. I Satyricon toccano il loro picco più alto con "Nemesis Divina", dopo le splendide perle black, epiche e medioevali di "Shadowthrone" e "Dark Medioeval Times", Satyr e la sua band sfogano rabbia pura senza pietà, per nessuno. L’armageddon è vicino già con l’opener "The Dawn At The New Age", dove le sfuriate black iniziali lasciano il posto alle cadenze epiche e marziali in coda. E’ sempre un alternarsi di furiosi assalti sonori, di screaming rochi e violenti della voce di Satyr, di atmosfere nordiche e fiere. Pure nelle ultraviolente "Forhekset" e "Du Som Hater Gud", Satyr trova il modo di farcirne il finale con assoli di piano inquietanti, sotto il tappeto violento della chitarra e della batteria di Frost. L’album si chiude con una cadenzata e sadica marcia degna di poveri schiavi, accompagnati da aperture tastieristiche da paura. Una frustata in faccia. Indelebile.

EMPEROR – In the Nightside Eclipse (Candlelight – 1994)

Si può avere appena sedici anni e confezionare un album che ha fatto la storia del black metal? Sì, se la band in questione sono gli Emperor dei primi anni ’90. Isahn, Samoth, Faust e Techort, nel pieno di una discutibile adolescenza, fatta di gesta anti-cristiane e dichiarazioni da ragazzini invasati, riescono a mettere su un disco quella rabbia e quel fuoco sacro e nordico che bruciava loro dentro. Lasciando perdere i contenuti lirici fin troppo espliciti, le loro successive vicende giudiziarie, nonché gli Emperor di adesso, lontana copia di quelli che bruciavano chiese, non posso che inchinarmi a tanta maestria ed espressione di cattiveria sinfonica, epica, fredda al punto giusto, battagliera e fiera. La registrazione approssimativa non riesce a fare perdere mai di vista le capacità della band. Un esempio? Ascoltatevi la conclusiva "Inno a Satana" per capirlo.

OPETH – Orchid (Candlelight – 1995)

Come un passaggio di testimone. La scoperta da parte di un Dan Swano in rotta oramai con gli Edge of Sanity di questa giovane band svedese, segna la sua quasi scomparsa dalla scena, ma resta sua la produzione per questo album di esordio di una band fenomenale, che ai nostri giorni sta riscuotendo tutta quella parte di considerazione dei media e dei magazines, che ai tempi di "Orchid" gli fu negata, forse per la complessità del lavoro. Il death metal progressivo è solo una riduttiva etichetta per il quartetto che finisce per esplorare, tra arpeggi folk e richiami di psicadelia pinkfloydiana, molto più del lecito e del dovuto a qualsiasi band. Ma per loro tutto questo non è solo possibile, ma assemblato alla perfezione, tra suite di oltre dieci minuti, e cambi di ritmo continui che potrebbero spiazzare se non fossero eseguiti con tale naturalezza e precisione. Ascoltatevi gli assoli di basso del jazzista De Farfalla, tanto per fare un esempio. "Orchid" è tutto questo: dove il metal non può arrivare ci sono gli Opeth. Grandiosi.

SAMAEL – Passage (Century Media – 1996)

Di anni ne sono passati oramai, ma il suono che pervade il tappeto sonoro di "Passage" è quanto di più moderno ci possa essere. Nel lettore CD fa ancora da cornice a futuristiche visioni che non fanno che ampliare l’immaginario lunare e da fine del mondo che gli svizzeri disegnano con maestria in ogni singola canzone dell’album. Superato il periodo poco ispirato di death-metal band, in "Passage" la band di Xytras compie uno splendido e azzeccato salto di qualità. Come se Wagner e Mozart potessero scrivere canzoni metal. Forte è l’impatto, il songwriting è semplice e immediato, le tastiere compongono tappeti sonori classici e apocalittici sui quali le chitarre fanno da complemento, e la voce roca e rabbiosa di Vorph corona e decora malignamente ogni intera traccia. Energetico e negativo, evoluto e maligno.

ANATHEMA – The Silent Enigma (Peaceville – 1995)

Il capolavoro per eccellenza. Un disco immortale e inarrivabile che ancora oggi non ha eguali, di un genere che oramai ha fatto la sua storia. Storia che gli Anathema hanno scritto con "The Silent Enigma". Fin troppo limitante per chi si avvicina a quest’album l’etichetta gotic-dark-doom che in molti potrebbero dare ad un primo, superficiale ascolto. In realtà questo silenzioso enigma ti penetra lentamente nelle vene, e come una droga non ne puoi più fare a meno. Molti episodi e coincidenze hanno fatto sì che nascesse questo capolavoro, inaspettato e ancora oggi sottovalutato. Orfani del vocalist Darren White proprio all’inizio delle registrazioni, il microfono passa ad uno dei fratelli Cavanagh, chitarrista dalla voce sicuramente meno versatile di White ma ispirata e sofferente. La giovane età della band, non provoca scompensi e immaturità ma arricchisce tutta l’opera dell’ispirazione e del dolore necessarie alla finalizzazione di questo ambizioso album. "Restless oblivion" è una esplorazione dell’io più intimo, che cavalca l’onda emozionale dell’anima e ci travolge con la sua crescente rabbia sfociante in partiture dark e orchestrali da brivido. La voce di Cavanagh si fa violenta e disperata per poi lasciare spazio alla rassegnazione poetica di "Shroud of frost". Dolori esistenziali e la voglia di uscire dal grigiore interiore sembra essere il tema portante di tutto il lavoro. "The sunset of Age" ci riporta ad una sorta di angoscia per il tempo che passa e ci lascia inermi. Il basso di Patterson disegna dei trip allucinogeni senza alcun ritorno, mentre Douglas alla batteria fa sfoggio di classe quasi jazz disegnando impertinenti tappeti, sfruttando il massimo anche dai piatti e dalla incosciente età. "Nocturnal emission" è forse l’episodio più claustrofobico e misantropo dell’album, sporco ed ansimante, con un finale obscure-dark da ricordare. Cavanagh interpreta ogni canzone, ogni stato d’animo; nessuna sfumatura viene lasciata al caso in "The Silent Enigma", ma ampliata in contesti sensoriali che non possono lasciare indifferenti. "Cerulean Twilight" vede ancora Patterson protagonista da metà alla fine del brano, lasciandoci a bocca aperta. Variegata delle emozioni più varie e contrastanti è invece la title-track, che dagli arpeggi dark barocchi inizia un crescendo verso la sofferenza fino a sfociare nella splendida "A Dying Wish" dove lo spirito incline al suicidio e della analisi della disorientata realtà che ci circonda è portata all’eccesso, condita da aperture gotiche e sinfoniche magistrali. La conclusiva "Black Orchid" altro non è che un saggio strumentale dello spirito che questi ragazzi hanno inciso indelebilmente, e chi ha assorbito e visto la propria anima accostarsi alla loro anche per un attimo, non potrà che amare questo album e portarselo dentro. Per sempre.

DISSECTION – Storm of the light’s bane (Nuclear Blast – 1995)

La dimostrazione che si può non essere norvegesi e comporre una pietra miliare di puro e freddo black metal sta tutta qui. Dopo l’esordio fortunanto di "Somberlain" gli svedesi Dissection, orfani della loro mente Zweeslot riescono a scrivere un album che resterà nella storia. Mai copertina fu più azzeccata; Necrolord ci mostra quello che è il suono di questa band: una fredda e potente macchina di morte, che non lesina epicità e fierezza nordica. Preparatevi alla guerra con "Night’s blood" per poi scivolare sui tappeti epici partoriti dalla voce glaciale di Nodtveidt in "Where dead Angels Lie". Le atmosfere che i nostri riescono a creare sono uniche e da brividi, e senza l’ausilio di nessuna tastiera riescono a farci entrare in una foresta invernale dove la morte può colpirti in qualsiasi momento. Ohman dietro le pelli è precisissimo, una vera macchina da guerra che rafforza ogni episodio dell’album, dalla splendida title-track, alla epica "Thorn of Crimson Death" che riassume più di ogni altra parola lo spirito della band. Peccato che le solite storie di reclusioni, carceri e omicidi, non ci facciano apprezzare un seguito, lasciando il nome Dissection sui vari bootleg, prestazioni live o tributi. In memoria.

MY DYING BRIDE – The Light at the end of the world (Peaceville – 1999)

Non so perché mi è venuto in mente proprio quest’album da citarvi, ma i M.D.B. sono sempre stati la mia passione e questo lavoro tocca un picco altissimo per la band inglese, che ci aveva lasciati piacevolmente spiazzati dal precedente "37.988%…complete" dove avevano sperimentato un trip-elecrto-goth, che mi aveva fatto pensare a dei Portished travestiti da darkettoni. In questo "T.L.A.T.E.O.T.W" i doomers inglesi si riprendono lo scettro di maestri del dark-doom, traditi fin troppo presto dai coterranei Paradise Lost ed Anathema restano loro sul trono, e con pieno merito. Basta ascoltarsi l’opener "She Is The Dark" per capire come Aaron e soci possano scrivere un capolavoro di arte nera e tradurlo in musica. Cambi di ritmo, ossessioni, furie rabbiose, malinconie perverse e romantiche, questi sono i My Dying Bride. "Edenbeast" prosegue il discorso rafforzandolo in vista della lunghissima suite che dà il titolo all’album. In conclusione abbiamo anche uno spazio per commuoverci dolcemente con "Sear Me III". Anche l’artwork del CD è una piccola chicca da farci lustrare gli occhi. La differenza tra chi scrive buoni album e chi capolavori è tutta qui. Indiscussi.

THEATRE OF TRAGEDY – Theatre of Tragedy (Massacre – 1995)

Se il gotico ultimamente sta stancando tutti e peccando di originalità possiamo solo guardaci indietro e spulciare tra i gruppi che ne hanno scritto la storia. Sicuramente i norvegesi sono tra gli inventori del genere con doppia voce (maschile growl / soprano femminile) e questo album d’esordio stupisce per l’intimità, la passione e la cieca tristezza di cui è portatore. Una Liv Kristine ancora non contaminata e splendidamente ispirata, duetta magistralmente con il cavernoso Raymond, in un contorno di melodico dark-doom con venature gotiche non pacchiane ma sapientemente inserite nel contesto di ogni canzone. "..a distance there is.." è una fenomenale dimostrazione di come la malinconia possa prenderti in una giornata di pioggia, mentre "Sweet Art Thou" riesce ad essere violenta come un Macbeth di appena tre minuti. "Monotone" è solo l’epilogo di un album d’esordio inaspettatamente splendido, culla dalla quale (purtroppo) ha preso il via un filone di band che hanno tentato di ripercorrere le orme fortunate di un genere che stanca presto, e che ha permesso a troppe gruppi e produttori di vivere sulla cresta dell’onda, speculando e partorendo inutilità dietro etichette di genere fin troppo superficiali. Da avere per ricordarsi cosa è, e chi ha scritto il Gothic.

TRISTANIA – Widow’s Weed (Napalm Rec. – 1998)

Una piccola perla nell’immenso ed ormai incontrollabilmente patetico mondo del gothic metal, questo album d’esordio dei norvegesi Tristania riesce ad emergere al di sopra della mediocrità grazie ad una genuina interpretazione di ogni pezzo, non stancando dopo due canzoni, ma affascinadoci e preparandoci all’ascolto del brano successivo. Le tastiere tendenti agli affreschi in stile barocco sono l’elemento di forza della band che riesce ad esaltarsi nelle parti in cui la stessa prende il sopravvento. "Pale Enchantress" e "My Lost Lenore" sono il concentrato di quello che sono i Tristania di "Widow’s weed", mentre degna di nota è anche la splendida "Angellore" oltre alla bellezza magnetica della cantante Vibeke. Siamo quindi di fronte ad un album d’esordio con i fiocchi, considerato il genere limitante e gli inarrivabili Theatre of Tragedy degli esordi.

TIAMAT – Wildhoney (Century Media – 1994)

I Tiamat sin dal primo album ci hanno abituato a continue e non prevedibili evoluzioni, fino al banale dream pop che ora sfoggiano con le ultime uscite a dir poco povere e impalpabili. Abbandonato ben presto i territori del death doom metal, "Wildhoney" è l’album picco della band di Edlund, lavoro che sprigiona atmosfere dark, eteree e malinconiche ; un album dove la natura sembra essere un elemento portante di ogni composizione, dal cinguettio degli uccelli, alla pioggia, al vento. "The Ar" con aperture gotiche e aeree ci fa volare, mentre gli episodi più azzeccati dell’album risultano essere sicuramente "Gaia" e "Visionaire", dove la sinfonia sognante di arpeggi dark, ci accompagna in un mondo immaginario, parallelo e amorfo. Se doveste avere in casa anche solo un album dei Tiamat scegliete "Wildhoney" senza esitazioni.

SEIGMEN – Radiowaves (Sony Norway - 1997)

Sottovalutati e sconosciuti dai più ma capaci di approdare alla Sony, questi norvegesi figli di un post-punk elettronico e di una wave rivisitata in maniera originale e magistrale, deliziano i palati più fini ed esigenti con questo "Radiowaves", album eterogeneo, complesso e geniale. Armati di una tecnica invidiabile, colpiscono per la precisione chirurgica e la psicadelia nell’esecuzione dell’iniziale "Performance Alpha", per la ballabilità elettro-dark di "The Modern End", la violenza di "Bloodprint", in un crescendo di atmosfere e umori variabili. Non facile sicuramente il compito di seguirli fino in fondo, ma se arrivate alla conclusiva "Give" con l’acquolina in bocca pronti per un nuovo ascolto, allora vorrà dire che i Seigmen hanno cominciato a scorrervi nelle vene.

SIMPLE MINDS – New Gold Dream (Emi – 1982)

Siamo all’inizio degli anni ’80 ed il gruppo capitanato dal carismatico Jim Kerr, è ancora alla ricerca di una identità precisa, quando con l’ingresso di nuovi e giusti componenti scrive una delle più belle pagine nella new wave britannica, che fino a quel momento vedeva padroni assoluti Cure e Joy Division. Le partiture e gli arpeggi al basso del grande Derek Forbes, la precisione e la versatilità del batterista di colore Gaynor, senza dimenticare il grande lavoro di ricamo di MacNeil alle tastiere, fanno di "New Gold Dream" un disco che segna un epoca, che si ascolta e si ascolterà sempre, perché pur rimandandoci alle sensazioni di un era che non c’è più (e quelli della mia generazione purtroppo possono capirlo…), ci regalerà sempre un suono ed una alchimia unica. Alchimia che i Simple Minds perderanno dall’85 in poi. Ma questa è un'altra storia: " Someone, somewhere in summertime", "New Gold Dream", "Big Sleep" sono solo una delle 9 perle che il disco ci regala. Da avere, per sempre.

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