IL GIOCO DIVINO:
LA
MANIGLIA
Sue
origini e regole di gioco
Affettuoso
omaggio a tutti i «Piaruoli»
di Gaetanino Pasciuto
Soltanto
il desiderio di sentirmi più vicino ai «Piaruoli» mi ha spinto a scrivere
questo opuscolo che ho dedicato a loro.
Esso
e nato in un 'atmosfera colma di gioia, nel ricordo giovanile della bella «Piaia»,
scherzando e ridendo con i cari amici Francesco Spinosa e Francesco Romano,
anch 'essi piaruoli.
Oltre
ad incoraggiarmi continuamente a realizzare il presente libretto, fornendomi
anche apprezzati consigli, essi hanno voluto dare, quali «validi» giocatori di
«Maniglia», il loro aiuto e collaborare alla stesura delle regole del gioco di
cui mettono in dubbio continuamente la mia buona conoscenza. Asseriscono che, a
giudicare dal modo come le applico, non dimostro di conoscerle bene e pertanto
non si sono fidati troppo di me.
Non
ho rifiutato l'aiuto e mi riservo di applicare bene tutte le regole da loro
supervisionate proprio quando mi saranno diretti avversari.
Li
ringrazio sentitamente.
Mi
auguro che i lettori che sono già provetti giocatori vogliano scusarli se
riscontreranno qualcosa che a !oro giudizio non va bene.
Vi
è sempre la possibilità di sperimentare direttamente le regole in discussione
in un incontro amichevole!
Basta
un semplice invito!
Spero
che il presente opuscolo riesca ad entusiasmare gli affezionati della
«Maniglia», ma mi auguro principalmente che possa suscitare, in quelli che non
la conoscono ancora, un desiderio di apprenderla e la volontà di affermarsi
presto come «Maniglisti».
La
«Maniglia» regala ai suoi giocatori ore di svago e di spensieratezza, oggi
assolutamente necessarie.
Gaeta,
27 febbraio 1979 Martedì di
carnevale
Gaetanino
Pasciuto
La
«Maniglia», affascinante gioco di carte di cui soltanto pochi conoscono le
origini divine, e' ancora oggi il gioco di carte più caratteristico e popolare
degli abitanti di Gaeta-rione «Piaia».
Il
bisogno di sapere notizie riguardanti la sua origine, necessarie per appagare il
desiderio di conoscerne la vera natura, ha portato alla determinazione di
sedermi a tavolino e giocare la «Maniglia» affrontando due accaniti giocatori
della «Piaia», scelti tra i pescatori più anziani.
Cosi,
un pomeriggio, laddove si svolge l'asta per la vendita del pesce, ad un tavolo
da gioco appositamente approntato davanti al bar, circondati da insoliti
spettatori, io ed il mio amico don Francesco ci trovammo contrapposti, per una
Maniglia, a Padron Michele e Padron Giuseppe.
L'incontro
era reso più interessante dal fatto che tutti e quattro vantavamo, a buon
diritto, origini «piaruolesche».
Nello
scegliere i posti, Padron Michele, dopo aver studiato dapprima attentamente
l'orientamento delle sedie, sussurrò sorridendo:
«Chi tante «maniglie» vuole
avere a nord, d'estate, deve sedere!».
Pare
che l'influsso di certi astri determini un benevolo divino intervento con
predilezione su particolari direzioni!
Avevo
portato con me un mazzo di carte napoletane nuove di zecca, convinto di fare
cosa gradita agli avversari; questi, però, lo respinsero decisamente.
Ne
chiesi il motivo e Padron Giuseppe, meravigliato e sorridente per certi
scongiuri in atto, mi disse:
«Chartas novas adversari
nolite usare si victores semper «volite» restare!».
E
così l'incontro ebbe inizio con un mazzo di carte già adoperato più volte da
loro.
Fu
un pomeriggio meraviglioso specialmente perché, tra una smazzata e l'altra,
Padron Michele e Padron Giuseppe ci narrarono la storia delle origini della
«Maniglia» e come gli abitanti della «Piaia» vennero a conoscenza del
«Divino gioco» e delle regole che lo governano.
Iniziò
Padron Michele dicendo:
«Il
nonno di mio padre raccontava che il nonno di suo nonno aveva sentito dire che
anticamente un eroe troiano di nome Enea si era fermato nella nostra rada per
poter dare degna sepoltura alla sua nutrice di nome Caieta che era morta durante
il viaggio. Non v'è dubbio di ciò, poiché, proprio per onorare la memoria di
Caieta, la zona si chiamò da allora Gaeta.
E
fu proprio da Enea che gli abitanti della «Piaia» appresero dell'esistenza di
un gioco di carte tanto interessante da costituire uno dei principali
divertimenti degli Dei dell'Olimpo.
Il fatto
suscitò meraviglia e curiosità, ma non dubbi; Enea quale figlio di Venere, dea
della bellezza, aveva avuto tanto a che fare con gli Dei e conosceva molti loro segreti che gli erano stati svelati dalla
mamma in momenti di affettuosa debolezza. Né egli aveva alcun interesse ad
ingannare chi era stato tanto ospitale con lui».
A
questo punto prese a parlare Padron Giuseppe:
«Durante
la seconda guerra mondiale -disse- ero sfollato con la mia famiglia nella zona
delle Vignole e ricordo che nel gennaio del 1944 fu rinvenuta da alcuni ragazzi
una lapide con tanti strani segni per noi incomprensibili
Soltanto
un signore forestiero, che si diceva esperto in materia e che poi portò via con
sè la lapide, riuscì ad illustrarci il significato di quello strano scritto.
Ci spiegò che la lapide era antichissima e che proveniva da un tempio elevato a
Venere dagli abitanti del luogo; conteneva una calorosa supplica dei «Piaruoli»
alla Dea affinché rendesse loro noto il gioco di carte che, come avevano saputo
dal grande Eroe troiano, suo figlio, riusciva ad esaltare la felicità degli Dei
nei loro momenti di svago.
Si
dissero, allora, molte cose su questo fatto, ma gli eventi bellici prevalsero e
soltanto ora se ne riparla, sia pure sommessamente.
Nessuno
rivide mai il misterioso forestiero che pare fosse un messo di Venere venuto a
recuperare la lapide che la onorava come dea della bellezza e sulla quale era
veramente incisa la calorosa supplica con l'esplicita richiesta della sua
intercessione presso Giove».
Padron
Michele, accortosi ormai che il racconto esercitava
su noi «intellettuali» un particolare fascino e ci distraeva dal gioco a suo
vantaggio, riprese senza esitazione:
«La
notizia di Enea aveva suscitato grande curiosità e forte desiderio di
apprendere le regole di quel gioco il quale, visto che riusciva ad accrescere la
felicità degli Dei, avrebbe senz'altro soddisfatto anche il più incontentabile
essere umano, facendogli dimenticare i tanti guai che affliggono soltanto gli
uomini.
Fu
costituito un Comitato presieduto da un certo «Ngigliucciegl», uomo di ingegno
e fattivo che propose la costruzione di un tempio da dedicare a Venere. Il
tempio fu innalzato su una delle più belle colline della zona, verso le «Vignole»,
che così poteva essere ammirato nel suo splendore da tutta la regione
circostante.
Ogni
cinque giorni si organizzavano pellegrinaggi per il Santuario di Venere ed, al
termine delle consuete preghiere, nel prato antistante il tempio, si consumava
un'abbondante colazione. Una volta ogni tredici lune si svolgevano, poi, rituali
particolari con canti ed inni scritti appositamente da un poeta locale. Ci si
rivolgeva alla Dea con la certezza che, nel ricordo di suo figlio Enea,
avrebbe, un giorno o l'altro, accontentato chi agiva con tanta fede. E così
avvenne!».
Avevamo
ormai perso la prima partita e chiedemmo la rivincita non soltanto con la
speranza di rifarci, ma anche per sentire il seguito del racconto della
magnifica storia che stavano svelandoci.
Dopo
sollazzi e motteggi che ci arrecavano dispiacere soltanto perché mettevano in
dubbio con ironia la genuina conservazione, in noi, delle vere caratteristiche
della «Piaia», fu concessa la rivincita, mentre sempre più folto andava
facendosi il gruppo degli spettatori divertiti per la sconfitta degli
«intellettuali».
Padron
Giuseppe prese le carte, le trattò in un particolare modo per assicurarsi,
disse sorridendo, anche la secondo vittoria, e poi le porse a don Francesco
dicendo:
«Scalognatus est qui prima
non vincit, fessus si in secunda manu non discit».
Padron
Michele, invece, continuò il racconto dicendo:
«Adesso
vi svelo anche come si realizzò il sogno che si perseguiva da tanti anni.
La
dea Venere scelse un tale sotterfugio che accontentava i Piaruoli e nello stesso
tempo sfuggiva al controllo del Consesso Divino.
Era
la fine di maggio quando quattro marinai con una barca a remi, denominata «Speranzella»,
fatti i dovuti rifornimenti, dopo un pellegrinaggio propiziatorio al tempio
delle «Vignole» seguito dal consueto banchetto a base di «tielle», si
trasferirono dalla costa gaetana verso le acque più pescose della costa
mediterranea francese.
C'era
con loro anche un ragazzo il quale, crescendo, avrebbe ereditato il nomignolo
ora attribuito a suo padre.
I
quattro marinai avevano, invece, già ereditato dai loro padri il soprannome con
il quale ormai erano conosciuti. Si chiamavano, o meglio li chiamavano:
-
Mazzuniegl (Era
il capobarca; un suo avo doveva il soprannome ad una certa forma particolare
della testa);
-
Nicolucc (Il
suo nomignolo derivava da un suo antenato che si chiamava Nicola, ma era un
pò piccolo di statura);
-
Gliumicin (Era
cosi soprannominato un suo trisavolo in quanto si accaniva a voler consumare le
candele fino in fondo, non tollerando alcun residuo di esse);
-
Ammazt (Era
stato cosi denominato suo nonno materno perché usava detta parola come abituale
intercalare mentre parlava, anche quando non doveva esprimere meraviglia).
La
«mascotte» era quel ragazzino al quale ho già accennato e che, per ora, era
chiamato con il semplice appellativo di «uagliò».
Erano
tempi durissimi per i miseri pescatori che a forza di braccia trasferivano
all'inizio del periodo estivo la loro barca in tratti di mare più pescosi per
poter poi affrontare con meno disagio il freddo inverno in seno alla famiglia.
Dopo
un lungo, faticoso e pericoloso viaggio di trasferimento, la «Speranzella»
raggiunse la spiaggia di destinazione dove si recava giornalmente un
compratore del pesce pescato.
I
pescatori badavano, allora, più alla quantità del pescato che al prezzo
unitario di vendita. Non esisteva, allora, l'asta come si fa qua ogni sera, alla
presenza anche di molti pensionati.
Trascorsi
pochi giorni dall'arrivo, il bravo «uagliò» si ammalò.
Fu
impossibile portarlo a bordo e tenerlo continuamente sotto prora, perciò,
l'equipaggio costruì la spiaggia una piccola baracca dove fu possibile
sistemare il ragazzo febbricitante.
Non
bisogna meravigliarsi per quello che dico perché allora le spiagge non erano
affollate, nè servivano per esposizione di nudi femminili, in vero molto
piacevoli a vedersi.
Fu
in quel periodo che un bel giovanotto che si girava per la spiaggia e che aveva
incontrato il bravo «uagliò», gli tenne compagnia prodigandogli aiuto ed
assistenza, sollevando, così, da tante incombenze gli uomini dell'equipaggio.
(Quel
bel giovanotto era nientedimeno che la Venere la quale, dopo aver fatto ammalare
il ragazzo, gli teneva compagnia giocando con lui con le vecchie carte
napoletane che l'equipaggio aveva immancabilmente portato con sé).
Fu
così che la dea Venere, fece apprendere alla «mascotte» le regole del
«divino gioco» che ben presto vennero spiegate ai quattro dell'equipaggio.
Questi ormai non aspettavano altro che la domenica, giorno in cui riposavano un
poco, per riunirsi ed alleggerire le loro preoccupazioni e l'atroce loro
nostalgia della famiglia lontana, imitando il gioco degli Dei e senza ancora
rendersene perfettamente conto.
Al
termine della stagione estiva fecero ritorno alla «Piaia» e più che
dell'andamento della pesca, i quattro si preoccuparono
di iniziare una campagna
propagandistica del gioco che era stato loro insegnato da un bel giovane sulla
spiaggia dove avevano sostato durante l'estate. Ben presto il gioco si diffuse
in tutta la «Piaia» e soddisfaceva tutti.
Si
ebbe, perciò un periodo di distensione; dello stato d'animo oggi molto diffuso,
quello che pare chiamino «nevrosi», non esisteva allora alcuna traccia».
Intanto,
oltre che all'andamento della partita, tutti gli spettatori si interessavano
sempre più alla storia che narravano gli anziani pescatori della «Piaia».
Padron
Michele, mentre mischiava le carte, quasi per distrarre l'attenzione degli
avversari che appuntavano gli occhi su di lui, e richiamarla invece sul suo
amico, in modo da avere così una certa libertà d'azione, si rivolse a Padron
Giuseppe aggiungendo: «Non devi lasciar dire tutto a me, il resto lo puoi
narrare tu».
Così
Padron Giuseppe proseguì:
«Ci
si convinse dell'importanza di quello che era successo, oltre che riflettendo su
tante piccole osservazioni, alle quali nessuno in un primo tempo aveva dato peso
(per es. il bel giovanotto da quando aveva sentito dire del tempio di Venere
sorto alle «Vignole», invitava spesso tutti a parlarne), principalmente per
quello che accadde l'anno successivo.
La
«Speranzella» navigava al largo di Gaeta quando avvistò una isoletta; si
avvicinò alla sua piccola spiaggia per approdarvi ma improvvisamente l'isoletta
si inabissò, portando nei gorghi la barca.
Quelli
che avevano assistito alla tragica scena rimasero tutti esterrefatti e, per un
pò di tempo, nessuno volle parlarne; tacquero
tutti, spaventati per quello che era accaduto.
I
fatti straordinari furono due:
-
Ci fu qualcuno che vide un bel giovanotto che depose dolcemente il bravo «uagliò»
sulla spiaggetta della «Piaia». Questi fu l'unico a salvarsi e le poche
notizie certe dell'accaduto si ebbero proprio da lui. Nessuno riuscì mai a
rintracciare il bel giovanotto, ma tutti giuravano che le fattezze del silo viso
richiamavano alla mente quelle della dea Venere che si venerava nel tempio delle
«Vignole»;
-
Laddove la «Speranzella» precipitò negli abissi marini assieme all'isoletta,
tutti sanno che esiste ancora oggi un cratere dal quale, a periodi, si
sprigionano acque calde che riescono a cuocere i pesci che, malauguratamente,
attraversano quel tratto di mare.
Al
grave naufragio seguirono pellegrinaggi al tempio di Venere ed implorazioni da
parte dei fedeli affinché questa volta l'intercessione fosse quella di calmare
il sommo Giove.
Per
ricordare l'avvenimento fu scoperta una lapide con i nomi dei quattro marinai
che costituivano il costo pagato dalla «Piaia» al Consesso Olimpico per aver
strappato agli Dei il segreto e le regole del «Divino gioco».
Non
c'era più dubbio; la «Piaia» possedeva, ormai, un efficace mezzo per porre,
sia pure per qualche ora, nel dimenticatoio i propri guai».
Prima,
però, di terminare con una sconfitta anche la partita di rivincita, ho voluto
chiarire un punto rimastomi
oscuro; pertanto dissi: «Guardate, io ritenevo già che questo gioco dovesse
avere un'origine divina e vi ringrazio per avere finalmente confermata la mia
supposizione con la narrazione della magnifica vostra storia. Ma, come mai
questo meraviglioso, divino gioco prese il nome di «Maniglia»?
I
due anziani marinai della «Piaia» sorrisero e quasi insieme soggiunsero: «Ci
siamo dimenticati di dirlo. Lo spunto venne dalla lapide che ricordava i quattro
marinai della «Speranzella», sacrificati per placare l'ira degli Dei. I loro
nomi erano stati scritti in modo tale che le iniziali capitavano in colonna
cosi:
MAZZUNIEGL
NICOLUCC
GLIUMICIN
AMMAZT
ed
in omaggio ad essi il «Divino gioco» fu chiamato «Manigliam» e,
successivamente, con la perdita della «m» finale, «Maniglia».
Ormai
anche la seconda partita era stata vinta dai bue anziani pescatori, con grande
gioia di quasi tutti gli spettatori. Offrimmo da bere ai due arzilli vincitori
che, sorridendo, andavano continuamente ripetendo:
«s'alla «Maniglia» perdi
doppiamente, sfottuto esser devi dolcemente».
Quella
sera resterà memorabile per me; ma, da allora, ho sentito che la bella storia
narrata dai due vecchi marinai «piaruoli» non doveva essere dimenticata,
bensì raccontata, fatta conoscere a tanti, amatori o no del divino gioco.
Nacque,
così, l'idea di tramandarla ai posteri, assieme alle regole del gioco, con la
speranza di arrecare ancora spensieratezza a chi, utilizzando parte del suo
tempo libero, voglia cimentarsi in sì bel gioco.
Generalità
La
«Maniglia» si gioca con le carte napoletane (40 carte e 4 pali: denari, coppe,
spade, bastoni) ed è, sotto molti aspetti, un gioco misto di tressette e di
briscola.
Esso
si svolge, generalmente, tra due coppie avversarie; si dirà in seguito dei
molti adattamenti che consentono di giocarla anche con un numero diverso di
giocatori.
Si
segnala subito, per le sue caratteristiche e per la sua diffusione, la
«Maniglia» che si gioca tra due soli avversari (faccia a faccia, a spizzico).
Valore
delle carte
Il
valore delle carte è indipendente dal palo a cui appartengono.
Il
Sette vale punti cinque; l'Asso vale punti quattro; il Re vale punti tre; il
Cavallo vale punti due; la Donna vale punti uno.
Il
Sei, il Cinque, il Quattro, il Tre, il Due non hanno alcun valore.
Si
attribuisce anche un punto ad ogni insieme di quattro carte, qualunque esse
siano.
I
punti complessivi delle quaranta carte sono, perciò, settanta, così ripartiti:
i
quattro Sette valgono
punti 20
(4x5)
i
quattro Assi valgono
punti 16
(4x4)
i
quattro Re valgono
punti 12
(4x3)
i
quattro Cavalli valgono
punti 8
(4x2)
le
quattro Donne valgono
punti 4
(4x1)
le
quaranta carte valgono
punti 10
(40:4)
TOTALE
punti 70
Anche
le carte alle quali non è attribuito alcun punteggio hanno una graduazione di
valore che nell'ordine descrescente è il seguente: Sei, Cinque, Quattro, Tre,
Due.
Regole
generali
Le
due coppie di giocatori si adoperano per realizzare in ogni smazzata più punti
possibili tenendo presente che i «validi» sono soltanto quelli eccedenti i 35.
Pertanto, qualora in una smazzata ogni coppia totalizza i 35 punti, a nessuna di
esse vengono attribuiti punti validi. Se invece una coppia dovesse realizzare,
per esempio, 48 punti e l'altra, di conseguenza, 22, i 13 punti validi, dati da
48 - 35, saranno attribuiti alla prima coppia.
Ad
ogni smazzata solo una coppia di giocatori può, perciò, realizzare punti
validi.
Questo
comporta che una coppia può perdere la partita anche se il punteggio a sua
favore è di 34 a 0.
Vince,
infatti, la partita la coppia che raggiunge per prima quota 35 punti
totalizzandoli in diverse successive smazzate, oppure in una sola smazzata.
Si
effettua quello che comunemente viene denominato «cappotto», quando si
realizzano dieci prese, ossia 35 punti validi.
Il fatto
che esiste la possibilità di sovvertire, in una smazzata, le sorti di una
partita, con grande delusione ed amarezza della coppia che già pregusta la tanto agognata vittoria, è valso
ad attribuire alla «Maniglia» l'appellativo di «Gioco ricco».
La
caratteristica fondamentale, che dà l'impronta originale alla «Maniglia», è
rappresentata dall'obbligo di «superare» la carta giocata dall'avversario ogni
qualvolta ne esiste la possibilità.
«Superare»
significa giocare una carta che sia di valore superiore ad un'altra. (Si ricorda
che l'ordine delle carte per valore crescente è il seguente: Due, Tre, Quattro,
Cinque, Sei, Donna, Cavallo, Re, Asso, Sette).
L'elemento
base di tutta la partita è rappresentato, senza alcun dubbio, dalla
«briscola» (atout). Essa viene determinata dal palo dell'ultima carta della
smazzata che il cartaro ha l'obbligo di rendere palese ai giocatori,
capovolgendola.
La
carta capovolta, o, come si usa dire, «votata», oltre a rappresentare la
briscola, dà diritto anche a punti che si sommano al punteggio già raggiunto
dalla coppia del cartaro, purché esso sia inferiore a 30.
I
punti da attribuire vanno da uno a cinque, secondo che il cartaro vota (scopre)
rispettivamente: Donna, Cavallo, Re, Asso, Sette.
Grazie
alla limitazione suddetta non è possibile vincere la partita utilizzando il
valore della carta che si vota. Infatti anche se, avendo già punti 29, si
votasse il Sette, che vale 5, si raggiungerebbe soltanto il traguardo limite
massimo di 34 e non 35 punti.
Svolgimento
della partita - Consigli -
All'inizio
della partita, diventa cartaro chi dei quattro giocatori alza la carta più
alta, da uno a dieci.
In
caso di parità i giocatori che hanno girato la carta più alta, ripetono
l'alzata.
Le
carte mescolate (il diritto a mescolarle per ultimo spetta al cartaro) vengono
tagliate dal giocatore posto alla sinistra del cartaro, suo avversario, e
distribuite ai giocatori in senso antiorario, cinque alla volta per ciascuno.
Come
già detto, l'ultima carta viene «votata» dal cartaro ed il palo a cui
appartiene rappresenta la briscola per quella sola smazzata; l'eventuale valore
valido della carta votata viene attribuito alla coppia del cartaro, secondo
quanto stabilito dalle regole precedentemente descritte.
Per
ogni successiva smazzata, effettuata dai giocatori rispettando ancora l'ordine
di successione antiorario, si ripete l'operazione descritta.
Inizia
il gioco il giocatore che siede alla destra del cartaro, seguito, nel senso
antiorario, dagli altri, fino al cartaro stesso. Chi, rispettando le regole che
seguono, realizza la presa, raccoglie le quattro carte ed inizia un'altra
giocata. (Le carte possono essere raccolte anche dal compagno di chi ha
realizzato la presa).
E
fatto obbligo agli altri giocatori di rispondere al palo giocato e superare la
carta giocata dall'avversario. Se non si risponde si ha l'obbligo di ostacolare
la presa dell'avversario tagliando con la briscola, se si ha.
Sulla
presa del compagno, non rispondendo al palo, si può giocare qualsiasi carta.
L'esperienza
e l'intuito del giocatore stabiliranno quale sarà la maniera migliore per
iniziare (attaccare) e proseguire il gioco, che è bello ed affascinante proprio
perché può riservare tante sorprese nel suo svolgimento.
Naturalmente
chi possiede più briscole ha, in generale, maggiore possibilità di vincere la
partita, sfruttando opportunamente tutte le occasioni favorevoli che gli si
dovessero presentare.
E
da tener presente che è consigliabile, quasi sempre, giocare di nuovo, ossia
«rispondere», al palo giocato dal compagno, potendo egli accogliere la
risposta con un «taglio» di briscola e realizzare punti preziosi
Al
giocatore che ha la fortuna di avere in un smazzata più «Sette» (tre o
quattro), appena ha la mano, conviene giocare al palo di briscola per eliminar
eventuali tagli da parte degli avversari.
Non
si dimentichi che un «Sette» può essere vinto con un taglio, anche se esso
viene effettuato con Due di briscola.
Appare
così evidente di iniziare il gioco con l'attacco di briscola ogni qualvolta si
intende scongiurare il pericolo di vedersi tagliare una o più carte
«vincenti».
Viene
comunemente chiamata «maniglia» quella carta che non può essere superata nel
proprio palo dalle carte ancora in mano a tutti gli altri giocatori; se oltre a
ciò non esiste neppure la possibilità di taglio, la carta viene denominata «maniglissima».
Allo
scopo di agevolare il compagno e consentirgli di
scartare eventuali carte soggette, si segnala l'opportunità di dichiarare,
giocandola, se la carta è maniglia o maniglissima.
Nella
certezza che tutti gli altri giocatori non dispongono di alcuna carta del palo
che si gioca, è invalso l'uso di accompagnare la giocata con la dichiarazione:
«tre briscole».
Un
buon giocatore fa sempre tutto il possibile per aiutare il compagno; egli
pertanto, richiama la sua attenzione «parlando», dicendo cioè ciò che è
consentito, anche quando la dichiarazione sembra superflua, per la sua evidenza.
Si
sono verificati tanti casi in cui una mancata dichiarazione ha dato luogo ad
accese discussioni, anche tra provetti giocatori!
Nel
gioco della «Maniglia», come nel tressette, si mira a totalizzare il maggior
punteggio possibile, indipendentemente dal numero delle prese. Talvolta bastano
due o tre prese per raggiungerne uno ragguardevole. Una presa, alquanto
frequente e classica, che realizza il punteggio molto alto di 15 punti, è
quella che si effettua con le seguenti carte: Sette, Asso, Re, Cavallo (5+4+3+2
più un punto per le quattro carte).
Si
tenga ben presente che i consigli che si danno ai giocatori di «Maniglia» non
sono assolutamente vincolanti, ma validi soltanto nei casi più comuni; questo
perché le circostanze possono variare di volta in volta ed il giocatore li deve
inserire nel contesto di ogni singola smazzata.
Cosi,
per esempio, si usa dire:
-
Con quattro o più briscole si deve «trionfare», ossia giocare briscola.
Alcuni
provetti giocatori consigliano di disattendere questa regola quando si ha un
«piombo», ossia mancanza di un palo.
E
l'Asso terzo si deve o no dare al compagno che prende con il Sette»? Dipende da
tanti fattori! Come si fa a dar consigli in merito?
Se
si ha una maniglia quarta (quattro carte di un palo con il «Sette») è vero
che conviene attaccare proprio con il «Sette»? Forse si, forse no! Dipende da
tante cose! Dalle carte che si hanno, dal punteggio già realizzato, dalla carta
che è stata votata, ecc..
Vale,
però, richiamare un consiglio al quale la sua importanza, conviene attenercisi
quasi sempre:
-
Quando il compagno «incappotta» si deve sempre «trionfare».
Questo
significa che il non prendere col «Sette» avendone la possibilità
(incappottare), è un categorico invito al compagno a giocare briscola
(trionfare).
Si
segnala l'opportunità da parte del giocatore posto alla sinistra di un cartaro
che vota l'Asso, di giocare, quando ha la mano, la briscola più alta che
possiede se stima che il compagno possa avere il Sette.
(Quest'obbligo,
quando deriva soltanto dal fatto di porre in pericolo l'Asso dell'avversario,
viene denominato «la devozione»).
Spesso
giocando a «Maniglia» si usa il termine «scappottare». Esso significa
realizzare i punti necessari affinché gli avversari
non vincano la partita in quella smazzata.
Talvolta,
quando si ritiene che sia in pericolo la partita, allo scopo di scappottare, è
consentito condurre il gioco in modo non convenzionale.
Nota
bene
La
«Maniglia», oltre che tra due coppie avversarie, può essere giocata, con
qualche adattamento, anche a «tre col morto».
I
giocatori sono, chiaramente, soltanto tre; essi, però, per una o più partite,
secondo quanto precedentemente convenuto, si accompagnano alternativamente col
morto, giocando contro gli altri due.
Effettuata
la distribuzione delle carte, il gioco ha inizio dopo che il morto ha scoperto
le sue dieci carte.
Questo
modo di giocare la «Maniglia» richiede molta riflessione e tanta attenzione in
quanto la valutazione della bontà della giocata va fatta tenendo sempre
presente anche la natura delle carte del morto.
Le
conseguenze di una errata valutazione sono talvolta irreparabili.
L'attacco
acquista enorme importanza per la condotta della smazzata.
La
rotazione dei giocatori si effettua in modo che il giocatore di mano, compreso
il morto, rimanga al proprio posto.
Giocata
in due la Maniglia acquista il significato di una vera sfida. Il gioco si svolge
in un modo davvero interessante.
Generalmente
la partita dovrebbe sancire la superiorità di un giocatore, ritenuto bravo ed
avveduto, o tale autodefinitosi con superbia, nei confronti di un altro della
stessa portata!
I
partigiani dell'uno e dell'altro alimentano il dissidio al nascere e poi
propongono la sfida che, anche se priva di scommessa in denaro, stabilirà il
vincitore dell'accesa contesa.
I
due, acerrimi avversari ma sempre buoni amici! siedono di fronte ed alzano
ciascuno una carta.
Chi
scopre la carta più alta, da uno a dieci, vince la mano, ossia ha diritto a
votare per primo. (In caso d parità si ripete l'alzata). Egli porge le carte al
suo avversario il quale le mischia, formulando quasi sempre opportuni scongiuri,
e le poggia, poi, coperte sul tavolo.
Chi
ha alzato la carta più alta - cartaro - ha diritto a tagliare il mazzo come
vuole; prende quindi cinque carte formandone un mazzetto che capovolge in modo
che la quinta carta viene «votata» cioè mostrata, pur restando a copertura
delle altre quattro carte.
Tagliare
è obbligatorio.
La
carta votata indica la briscola per quella sola smazzata ed il suo valore, se ne
ha, viene attribuito a cartaro, secondo le regole generali.
L'avversario
prende anch'egli cinque carte e si comporta analogamente.
I
due giocatori ripetono l'operazione ancora una volta in modo che sul tavolo essi
abbiano ciascuno davanti due mazzetti di cinque carte; tutti i mazzetti hanno la
prima carta visibile che, però, copre le altre rispettive carte.
Le
rimanenti venti vengono prese, sempre a cinque a cinque, dai due giocatori e
tenute coperte in mano.
Il
cartaro ha la facoltà di vedere l'ultima carta del mazzo, che va
all'avversario.
A
questo punto (dieci carte sul tavolo e dieci in mano per ciascuno) inizia il
gioco che ha uno svolgimento ben preciso e regole fisse da osservare
scrupolosamente.
Spetta
al cartaro giocare la prima carta.
Egli,
prima di giocare, «pizzica», ossia mette in mano le carte scoperte dei suoi
mazzetti che siano briscole, Sette, oppure Asso, anche se vengono scoperte
successivamente, pizzicando.
Se
dovesse restare una sola carta del mazzetto, essa viene presa in mano.
Gioca,
quindi, una carta di quelle che ha in mano o che sono scoperte sul tavolo.
L'avversario,
allora, pizzica anche lui dai suoi mazzetti eventuali carte di briscola, i Sette
e gli Assi, anche se vengono scoperte pizzicando, e poi gioca rispettando le
regole della «maniglia». (Rispondere al palo con l'obbligo di superare, oppure
tagliare).
Successivamente
gioca chi, attenendosi alle regole, ha effettuato la presa.
Certo,
il giocatore che riesce a mettere subito in mano tutte le sue venti carte, ha un
grande vantaggio e può manovrare opportunamente per porre, eventualmente,
l'avversario in difficoltà in quanto questi non conosce il valore delle carte
che sono «sepolte» nei due suoi mazzetti del tavolo, ossia «nel morto».
I
Sette e gli Assi, giacenti ancora nei mazzetti, possono essere fatti
prigionieri, verso la fine della smazzata, con tagli di briscola, se le carte
dei loro rispettivi pali sono già state volutamente portate a termine. Si usa
dire che «vanno a monte».
Certamente
non è facile realizzare quanto sopra. In due il gioco della «Maniglia»
diventa più impegnativo e mette a dura prova la memoria dei pretendenti alla
vittoria.
Ci sono accorgimenti sottili
e maliziosi che rappresentano veri tranelli ai quali non bisogna abboccare. Una
minima distrazione potrebbe compromettere l'intera partita, che può durare
molto tempo.
Durante
lo svolgimento della «sfida», non sempre sono graditi spettatori dietro i
giocatori che, che, se non stanno vincendo, attribuiscono al vicino, seduto o in
piedi, l'avversità della carta. Essi giungono financo a ritenere che il
regolare svolgimento della partita viene alterato da qualcosa dipendente dallo
spettatore che, perciò, non è gradito.
La ragione è semplice a capirsi : un gesto involontario, una smorfia, un sorrisetto innocente, qualsiasi
movimento del capo e degli occhi, potrebbero dar adito a personali
interpretazioni.
Il
viso del giocatore è sempre un infallibile specchio nel quale si vedono
riflesse la sua debolezza, la sua incertezza, la mancanza di carte buone, ecc...
Non
è facile vincere un giocatore sorridente e sicuro di sé.
Indisporre
l'avversario è il primo merito di un giocatore che sa il fatto suo.
La
mancanza di serenità provoca scatti inconsulti e fa perdere il controllo del
gioco e quasi certamente apre la porta alla sconfitta ed alle sue immancabili
conseguenze (pagare da bere, essere sfottuto, ecc....).
Consiste
in un modo di giocare la «Maniglia» tra più persone, che sta andando
lentamente in disuso.
I
giocatori, quasi sempre in numero che divide esattamente quaranta, conducono il
gioco attenendosi alle regole generali della «Maniglia».
Dopo
aver distribuito le carte (per esempio Otto per ciascuno, se i giocatori sono in
numero di cinque), il giocatore a destra del cartaro inizia a «recitare»; egli
cioè dichiara i punti che ritiene di poter realizzare, da 20 a 70, in quella
smazzata, scegliendosi la briscola e giocando contro tutti.
Gli
altri giocatori, nell'ordine antiorario, possono dichiarare soltanto un
punteggio superiore, oppure di passare.
Si
continua a recitare fino a quando i giocatori che prendono parte alla
«recita», dichiarano di passare, lasciando la mano ad uno di loro.
Inizia
il gioco per primo il giocatore alla destra del cartaro e successivamente
rispondono gli altri.
Chi
effettua la presa, attenendosi alle regole del gioco, inizia la seconda mano.
Il
giocatore che gioca da solo contro tutti gli altri vince se realizza il
punteggio dichiarato o uno ad esso superiore.
La
posta viene concordata prima di iniziare il gioco e viene fissata in rapporto al
punteggio dichiarato, crescendo con esso. Generalmente varia con il variare
della cifra delle decine, rimanendo costante da 20 a 29, da 30 a 39, da 40 a 49
e così via, raggiungendo il valore massimo quando si dichiara «cappotto»,
ossia punti 70.
Voglio
concludere questo lavoro, che mi ha impegnato non poco nella ricerca di
appropriate parole esplicative del gioco, rivolgendo, a quanti già conoscono le
regole della «Maniglia», un caldo e cordiale invito a considerare quanto da
me esposto, non uno schema fisso e prestabilito, bensì una base orientativa da
applicarsi proficuamente nei vari casi ed adattarsi alle circostanze in modo
opportuno.
Consiglio
di giocare sempre con giovialità; il comportamento al tavolo da gioco, quasi
sempre, manifesta la personalità, l'educazione e la signorilità del giocatore.
Non
è la posta in gioco che conta, ma la gioia di vincere senza troppo amareggiare
l'avversario; esorto, perciò, ad essere gentili e comprensivi.
Giudicatemi
col sorriso in considerazione che l'unico scopo prefissomi, e che mi auguro di
raggiungere, è quello di dare un valido contributo al rilancio del gioco della
«Maniglia», da molti già preferito per la sua estrosità e per quel pizzico
di intelligenza e di furberia richiesto al buon giocatore per vincere e fare
accettare con rassegnazione la sconfitta.
Fate
sempre in modo che l'avversario confessi che attenderà con pazienza e fiducia
il prossimo incontro col proponimento di rifarsi con una clamorosa rivincita.
Chiedo venia per le omissioni ed improprietà commesse;
accetto suggerimenti e segnalazioni che serviranno a migliorare un'eventuale
seconda edizione!