CUCINA DI GAETA....

RIVISITATA

Home Gaeta

Premessa: Ogni volta che si scrive qualcosa di cucina non si può fare a meno di aggiungere qualcosa di personale. Talvolta i propri gusti non sono gli stessi di quelli del lettore, io ho voluto soltanto raccogliere alcune ricette, la maggior parte delle stesse tipicamente gaetane anche se rivisitate, per evitare che alcune vecchie tradizioni vengano perdute. Se comunque avete altre ricette o suggerimenti e correzioni su quelle elencate scrivetemi

PRIMI E SECONDI
SECONDI E SFIZIOSITA'
DOLCI E VARIE
 

 La tiella
 Ricetta tiella
 LA Minestra maritata
 Riso e cappuccia
 I Calamari Imbottitì
 L'Acquapazza
 La Jotta
 La Cianfotta
 La Scapece
 La liatina
 Le polpette di pesce
 Lasagne del Sud
 Zuppa di lumache
 Spaghetti con scuncigli
 Pennette alla tenna
 Tonno sott'olio
 Broccoletti parnocchie
 Pasta e cavolfiore
 Fusilli e broccoletti
 Sarde e patate
 Pasta e ceci
 Pasta e fagioli
 Borragine e fagioli
 Fave e cicoria
 Le Vertù
 Lenticchie
 IL Soffritto

 
 Pesce Sciabola fritto
 Sugo di cozze
 Gratin di molluschi
 Scarola imbottita
 Fagottini di scarola
 Canascioni
 Baccalà alla brace
 Parmigiana
 Càse marzuline
 Pinzimonio
 Frittata di asparagi
 Peperoncini sott'olio
 Verza e acciughe
 Puntarelle
 Capperi
 Friarielli
 Peperoni al gratin
 Alici in tortiera
 Polipetti affogati
 Polipi in insalata
 Lampacioni
 'Mpepata di cozze
 Olive di Gaeta in salamoia
 Olive verdi schiacciate
 Acciughe in salamoia
 Alici marinate
 Le Pigne
 Limoncello
 Fichi e Sciuscelle
 IL FICO
 IL CARRUBO
 Roccocò
 Susamielli
 Tozzi
 Pastiera
 Tortane
 Crema
 Struffoli
 Marmellata di cetrangoli
 'Mbriachelle
 Le Ciammelle di Natale


 
 
 
 
 
 
 
 

La tiella

Tutte le volte che si stende la tovaglia delle grandi occasioni, il pensiero corre alle pietanze che le trasformazioni della società hanno fatto malinconicamente scomparire dalla nostra mensa.

Tra le grandi assenti della tradizione conviviale gaetana, le triglie mosce alla brace. Un ricordo avvolto in una struggente nostalgia di paranze a vela e di mare limpido e pulito. Triglie di fango, d'alto fondale: squamate, sbuzzate e parzialmente prosciugate sui pennoni al sole di una settimana. assumevano una lucida levigatezza dl seta, d'un corallino pallido. Con gesti esperti gli equipaggi le preparavano durante l'ozio delle bonacce estive, riservandone poi gli esemplari più vistosi per regali di importanza. La massaia si compiaceva di arricchire l'aroma inconfondibile della cottura spruzzandole a tratti, con un rametto di prezzemolo, di una sua miscela di olio e aceto.

C'era poi l'acquapazza, la zuppa quotidiana di bordo, ormai pressoché inattuabile. Non molto diversa dalla celebrata bouiabaisse" provenzale, richiedeva un assortimento di pesci di piccola e media taglia sventrati ancor vivi, appena tolti dalla rete e sciacquati esclusivamente in acqua di mare. Preferibilmente una razza, un grongo o un palombo, una manciata di canocchie e di gamberi, qualche seppia, dei polpi moscardini. E spicchi d'aglio, olio, un paio di cipolline spaccate in due, prezzemolo e peperoncino amaro. Avendone la disponibilità, si aggiungevano scorfani, aragostelle e vongole. Una volta risolto il problema dell' approvvigionamento la ricetta non presentava difficoltà di esecuzione. Tutto si metteva nella pentola contemporaneamente, avendo solo cura di commisurare l'acqua al numero dei commensali. Il brodo dorato veniva scolato attraverso un cestello di filetto di castagno dentro un grosso piatto comune con del pane affettato; mentre il pesce si lasciava alla rinfusa nel singolare colabrodo. Per permettere agli uomini d'equipaggio, accasciati tutt' intorno al boccaporto, di servirsene liberamente. Il punto di forza dell'acquapazza era non so che misteriosa fragranza subequorea. I buongustai al fine di arricchire quella ghiotta suggestione. vi aggiungevano un pugno d'alghe e un rametto di sargasso. Raffinata gustema! ... Ma oggi chi ci garantisce la purezza degli ingredienti? Chi ci salva dalla preoccupazione dell' inquinamento chimico?. ..Ecco perché. nel celebrarne i pregi, abbiamo un pò la sensazione di tesserne l'elogio funebre; e ci vien fatto di domandarci per quanto tempo ancora le deliziose ciambelle elenesi, dal bianco giulebbe nuziale, avranno un posto nelle vetrine dei nostri pasticceri; e sino a quando, sulle nostre mense, sopravviveranno le squisite salamoie casalinghe di acciughe, preparate nei vasetti di coccio smaltato.

A ben riflettere, di propriamente viva non rimane che la Tiella. una specie di codice di identificazione di compendio filosofica dell'arte di cucina; qualcosa che va oltre l'edonismo della buona tavola e consente di definire una fisiologia del gusto gaetano. Se volessimo celebrarla con una leggenda, come ogni remoto evento che si rispetti, potremmo raccontare che... al tempo dei tempi, si abbatté sulla nostra contrada una carestia tanta spaventosa, che finanche i figli del re non avevano più di che sfamarsi. Fu allora una massaia, al fine di utilizzare gli ultimi disparati residui delle sue povere provviste non trovò di meglio che avvolgere alla rinfusa in una improvvisata sfoglia di pasta, che poi mise a cuocere sulla brace.

Ne risultò così qualcosa che si prestava sorprendentemente ad essere divisa in parti, a celare e confondere, nello stesso tempo, i singoli ingredienti. che altrimenti avrebbero potuto suscitare inopportune preferenze tra i membri della famiglia. E si chiamò, a casaccio, tiella: un termine foneticamente sgraziato, tra l'ironico e il denigratorio, che forse valeva dar l'idea di qualcosa di incongruo e di raffazzonato, di un intruglio fortuito e poco raccomandabile.

Sennonché, nel caso nostro, lo leggenda non contribuirebbe gran che a insignire una realtà che, per assoluta mancanza di riscontri storici è essa stessa un mito, vista che ci è data soltanto di ipotizzarla

La tiella. non è pietanza d'autore. Le sue origini, d'innegabile matrice popolana sono incerte, anonime e lontane nel tempo . Con ogni verosimiglianza il suo capostipite scaturì da un disperato stato di necessità a dal capriccio d'un momento. Si può prendere in considerazione la probabilità che al suo concepimento abbia dato la spunto la memoria inconscia della farrata, la focaccia di farina di farro uova e cacio, sulla quale, secondo il rito sacrificale, i quiriti ponevano le vivande da offrire agli dei e che inizialmente consisteva duna sola sfoglia. E' però da escludere che Roma antica la conoscesse. Diversamente non avremmo mancato d'incontrarla nella celeberrima cena di Trimalcione. A parte il fatto che i ricettari dell'epoca giunti sino a noi non ne fanno alcuna menzione, nè ci forniscono indicazioni di alcunché di simile. La tiella non ha mai parlato latino.

Nella sua primitiva forma di sommaria vivanda di comodo deve esser poi rimasta per secoli, sino cioè all'adozione della falda di copertura, della teglia di rame e della cottura in forno, indizi inequivocabili di una sostanziale evoluzione del gusto e delle condizioni d'esistenza. Se ciò si ammette, si può dedurre che tali innovazioni posero fine all'immobilismo della sua lunga preistoria, a cui lo costrinsero la miseria endemica, le angustie sociali, le frustrazioni dell'immaginazione, la svilimento dei piaceri terreni del periodo medioevale. Ed ebbe inizio il prestigioso sviluppo della sua genealogia: quella fertile complessità di rielaborazioni, di varianti, di ritocchi, di divagazioni e di modulazioni a livello di scienza di cucina che, attraverso il cammino dei secoli l' hanno tramandata sino ai nostri giorni, come una ballata popolare, ricca di innumeri diversità. L'impiego di prodotti esclusivamente locali hanno messo la tiella alla portata di tutte le borse, facendola nella stessa tempo assurgere o simbolo della tradizionale economia e del progresso della collettività gaetana. Sino alla seconda metà del secolo scorso, sino cioè alla caduta dei Borboni, essa rimase relegata alle povere mense dei borghigiani. L'esclusione dai sofisticati menu dei nobili e dei benestanti si spiega col pregiudizio di classe. Ed è da supporre che i viaggiatori di riguardo l'accogliessero con una smorfia di fastidio quando, nelle umili taverne di passo della nostra contrada, non trovavano di meglio per rifocillarsi.

La difficile riuscita della tiella è affidata al dosaggio e allo qualità degli elementi compositivi, allo manipolazione della pasta, ai ritmi della confezione e dello cottura, all'intuito, ai contrappunti individuali, all'estro dello massaia. Nessun piatto si dimostra altrettanto ribelle alla precettistica. La ricetta può avere soltanto una funzione orientativa. Il fatto che la tiella non sia venuta dall'alto, dall'autorità incontestabile di un cuoco famoso, consente un'ampia libertà operativa. Come dire che essa s'inventa di volta in volta. Anche perché le modanature della cornice e l'aspetto generale della sfoglia superiore (che di tanto in tanto occorre punzecchiare con la forchetta per impedire sgradevoli rigonfiamenti) devono ispirarsi all'attualità del gusto e degli ideali estetici. Senza tener conto di ciò, non è possibile apprezzarne i contenuti semiologici, né decifrarne i messaggi antropologici e culturali. Al gaetano la tiella evoca remote associazioni, magiche lontananze. dimenticate atmosfere famigliari, golose impazienze infantili della settimana di pasqua, allorché i vichi del borgo erano ebri del suo profumo. Più che di una delizia del palato, più che di un ornamento della mensa, ha il valore di un fatto dello spirito, di un'istituzione sociale. A tal proposito basti solo accennare di passata alle burle che consentiva alle allegre brigate d'un tempo. non essendovi intruglio e trucco che un buontempone non riuscisse a camuffare dentro le sue profumate lamine di pasta. Alghe invece di spinaci, stracci inzuppati d'acqua di mare al posto di calamaretti.

Ma è importante che il gaetano se n'è preferibilmente nutrito per secoli, nella buona e nella cattiva sorte. Lo ha aiutato non poco a godersi la vita. E se è vero che un rapporto esiste tra alimentazione e composizione psicofisica, nell'impasto del suo sangue e delle sue ossa, nella formazione del suo modo di essere deve pur entrarci come che sia un'influenza, una responsabilità della tiella, un riflesso almeno della sua singolare estrosità compositiva.

Per darne un'idea approssimata diremo che la tiella è una specie di pizza composta da due sottili falde di farina sovrapposte e chiuse per compressione. E' un punto d'onore farne anche una gioia per gli occhi, articolando la circonferenza di un artistico fregio in modo che complessivamente dia l'idea, si direbbe, d'un rosone di chiesa gotica.

La tradizione ne raccomanda la cottura in forno, dentro speciali teglie circolari. Un'imprevedibile variazione dell' umidità ambientale, una lievitazione imperfetta o la minima inavvertenza, possono comportare la sorpresa di un risultato deludente. La gamma delle possibilità è vastissima. Cozze e lumache, uova con tritato di zucchine, formaggio fresco uova e salame, sarde e polpi. Più comunemente lodate quelle di calamaretti, di spinaci, di alici, di cipolla, di scarola e baccalà. Per i condimenti. oltre che di olio e sale, si fa uso di minuzzoli d'oliva. Acciughe, pomodori, aglio, prezzemolo, pepe e peperoncino amaro, a seconda dei casi.

La si mangia a quarti, senza l'aiuto delle posate. Non c' è gusto se non la si prende tra le dita. La prima verifica della riuscita si effettua sul requisito della compattezza. In un esemplare che si rispetti il lembo inferiore non deve essere gommoso da appiccicarsi ai denti o al palato, né spenzolare dalle dita come la lingua d'un cane affannato facendo snocciolare frammenti del ripieno. I nostri avi la preferivano condita abbondantemente. L'olio- dicevano -deve poter scorrere sulle avambraccia. Difatti si rimboccavano le maniche prima di mettersi a tavola.

Oggi che la fragilità del nostro apparato digerente impone problemi di linea e di dieta, il ricorso all'olio e alle spezie s'è fatto molto moderato; senza peraltro che ne abbiano sofferto il sapore e l'aroma.

La prodigiosa adattabilità ai mezzi che di volta in volta ci offre il progresso ha consentito alla tiella di conservare le sue essenziali qualità originarie. E' il sue pregio maggiore, il segreto della sua fortuna, della sua abbagliante vitalità. Questo gioiello della gastronomia non ha difatti ancora esaurito tutte le sue possibilità, ha ancora qualcosa da dire. La versione odierna è da considerarsi tutt'altro che definitiva. Voltate le spalle alla fiamma di frasche, la tiella ha recentemente imboccato con disinvoltura e senza rimpianti i lucidi sportelli del forno elettrico, uscendone più delicata spigliata ed elegante, igienicamente monda di bruciacchiature e di residui fuligginosi. Oggi si può parlare di rusticità soltanto come di un dato di origine, di una suggestione, di un ricordo. Figlia della miseria, dell'ignoranza e della arretratezza. pur senza mai tradire le sue schiette inflessioni popolane, ha saputo faticosamente elevarsi a espressione di benessere e di cultura di tutta una comunità, di volta in volta registrandone simbolicamente le travagliate testimonianze di un millennio di storia.
 

Ricetta tiella

C'e tiella e tiella. Tuttavia pensiamo che la ricetta possa essere di qualche aiuto a chi si vuole cimentare nella preparazione di tale difficile pietanza.

Si fa un impasto con 300 grammi di farina condita con olio e sale e la si lascia lievitare per un'ora. Se ne tirano due sottili sfoglie col mattarello. Uno si stende sul fondo della teglia circolare e sopra vi si dispone omogenea mente il ripieno( mezzo chilo di alici pulite e spinate, o di calamaretti ecc...) su cui si disseminano 100 gr. di olive di Gaeta (nere) snocciolate, due spicchi d'aglio tritati, prezzemolo, tre-quattro pomodori rossi in pezzetti, olio, sale, un pò di peperoncino amaro. Si copre il ripieno con la seconda sfoglia chiudendola sulla prima alla circonferenza. Si mette in forno caldo finche non ha preso il bel colore dorato della cottura.

(da: P. Di Ciaccio, Gaeta, guida turistica, Gaeta 1985 pp. 91-96; per gentile concessione degli eredi.)

Nota: elenco delle principali e sperimentate tielle: calamaretti, polipetti, alici, sarde, cozze, trigliette,formaggio e uova, scarola, scarola e baccalà, spinaci, bietole, catalogna, papavero, borraggine, cipolline, cipolle e uova, broccoletti, broccoletti e salsicce, carciofi, carciofi e uova, carciofi e ricotta, ma sento il desiderio non ancora appagato di fare una bella tiella con porcini (i gaetani che non apprezzano i funghi non me ne vogliano!)

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Le "Ciammelle" di Natale

Si avvicina Natale e per i gaetani è di prammatica preparare una serie di profumate leccornie, come i "roccocò", i" susamielli" ed altre ghiottonerie. Tra le tante spicca, come una regina, una ciambelletta, tutta particolare, dal gusto genuino come la sua preparazione. Si tratta della cosidetta "ciammella", che sboccia, bianca e tenera tra l'abbronzare dei dolciumi, come una stella di neve, Essa è composta da ingredienti semplici, come farina, uova olio di olivo, con l' insaporimento di una "glassa" ("il naspro"), di zucchero cotta e profumata con una buccia di limone ed alcune gocce di olio di rose.

Così erano preparate le "ciammelle", a Gaeta, da una famosa vecchia pasticceria del Borgo Marinare di Porto Salvo: quella del Signor Luigi Simeone, secondo una ricetta tramandata di padre in figlio per quattro generazioni e che era stato ideata dal suo avo Francesco Simeone, nel 1800. La Pasticceria Simeone ha prodotto migliaia e migliaia di queste leccornie, fino a qualche anno fa, nel laboratorio sito all'inizio della Via Indipendenza, una strada che a Natale era immersa negli effluvi emanati dallo cottura delle "ciammelle".

Quel profumo oggi è solo un ricordo, però è rimasta come una eredità la preziosa ricetta, custodita dai figli di Luigi Simeone, ricetta che presentiamo per tentare, con un pò di buona volontà, di avere sulla nostra tavola natalizia, ancora una volta, i soffici arabeschi delle profumate "ciammelle" di Gaeta.

Ecco quindi la ricetta originale dell' 800 di Francesca Simeone.

Preparazione della pasta: A quattro uova, due tuorli e due cucchiai di olio di oliva, incorporare bene, senza fare grumi, una quantità di farina in modo da fare un impasto piuttosto morbido. Spolverare leggermente l'asse con la farina e dare alla pasta una forma cilindrica di tre centimetri circa. Tagliarla a pezzetti grossi come una noce e quindi formare le ciambelline. Metterle nella teglia un po' staccate l'una dall' altra e cuocere o forno caldo a circa 250gradi,

Preparazione del "naspro": Sciogliere in un recipiente 700 grammi di zucchero con un decilitro e mezzo d'acqua; mettere sul fuoco moderato e far bollire per circa 5 minuti, Quando il composto è quasi freddo versare in un recipiente più grande grattugiandovi sopra la scorza di mezzo limone ed aggiungere alcune gocce di olio di rose. Versare nel "naspro" le ciambelline rimischiandole con un cucchiaio di legno dal manico lungo, finché esse saranno completamente impregnate. Quindi versarle su di un vassoio, Diverranno più tenere se tenute chiuse in una scatola per qualche giorno. home

"I Calamari Imbottitì"

Il calamaro è certamente un altro importante protagonista della gastronomia gaetana. Si preferiscono calamari non troppo grossi, si puliscono separando i tentacoli dal corpo e togliendo tutte le interiora, si lavano e si risciacquano quindi con acqua e limone e si pongono ad asciugare su di un canovaccio; i tentacoli, tagliuzzati a pezzettini, si mettono a cuocere, senza alcun condimento, a fuoco lento per circa 5 minuti. Si colano e si lasciano raffreddare. In una terrina si battono alcune uova con un bel pò di formaggio pecorino grattugiato, con pepe, sale ed olio, quanto basta. Quindi olive - preferibilmente di Gaeta - snocciolate, capperi prezzemolo ed aglio tritati finemente. Tutto da amalgamare con mollica di pane inumidita e da mescolare con i tentacoli precedentemente tagliuzzati. Con il composto ottenuto si riempiono i calamari che vengono poi richiusi con degli stecchini. Intanto si prepara a parte un sugo a base di pomodoro, olio, sale, aglio e prezzemolo. Quando il sugo bolle colano dentro i calamari già imbottiti, lasciandoli dolcemente cucinare a fuoco lento per circa tre quarti d'ora.
Dosi per sei persone: un chilogrammo di calamari; 50 grammi di olive; 20 grammi di capperi salati; 3 uova; ed infine prezzemolo, aglio. formaggio e mollica di pane.

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L'Acquapazza

 Per noi che viviamo in un paese di mare, è cosa conosciuta, però penso che pochi sappiano l'origine di questa pietanza popolare marinara. Facciamo quindi un passo indietro di alcune decine di anni ed ecco un veleggiore di paranze si fa innanzi agli occhi della nostra fantasia: su di esse sono i nostri pescatori che iniziano la loro giornata di lavoro portando come cibo, pane. olio, sale, aglio, prezzemolo e peperoncino. Essi devono trascorrere tutto il giorno sul mare: partono che il sole non è ancora sorto e tornano a notte fonda. Arrivati all'ora di pranzo pongono sul fuoco uno pentola con poca acqua, olio, aglio, prezzemolo e peperoncino; di pesce neppure l'ombra specie se la pesca è stata infruttuosa. Fanno bollire tutti questi ingredienti per pochi minuti quindi versano il brodetto ricavato sul pane posto precedentemente in uno "spasella", ovvero una specie di cesto dove di solito mettono il pescato. Dalla viva voce di alcuni vecchi pescatori, si è saputo che spessissimo per accrescere l'odore di pesce nella pietanza mettevano uno pietra presa in mare ed un pezzo di alga del genere dei "sargassi" ed allora "l'acquapazza" veniva chiamata "tronole". Da allora è trascorso molto tempo. Poi le paranze diventano pescherecci a motore che solcano ancora il mare trascorrendovi giorni interi come prima per la pesca ed ancora oggi i nostri robusti marinai preparano "l 'acquapazza" con il gagliardo appetito di sempre. In questa pietanza però è cambiato qualcosa e, mentre prima si chiamava "pazza" perché priva di pesce pur avendone solo il profumo, ora il nome è avvalorato dal fatto che il pesce c'è ed in tante qualità.

Dosi per 6 persone:Kg. 1.500 di pesce di scoglio misto, 500 gr. di cozze, 200 gr. di seppie, calamari o polipi, 6 canocchie (pannocchie),una decina di murici (scuncigli) ,tre spicchi d'aglio, olio a piacere prezzemolo e peperoncino.

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"La Jotta"

Ricetta primaverile, di origine contadina

Preparazione: In un tegame si versa dell' olio, 50 gr. di pancetta tagliata a dadini, 300 gr. di patate novelle sbucciate e divise a spicchi; 500 gr. complessivi fra piselli e fave, una grossa cipolla affettata sottilmente, 5 o 6 cuoricini di carciofi divisi in quattro, un cavolo cappuccio tagliuzzato grossolanamente, pepe e sale in proporzione, un rametto di menta, prezzemolo. Il tegame coperto si pone a stufare o fuoco moderato per circa mezz'ora. Si mangia tiepida e può servire sia da minestra che da contorno ad arrosti.

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"La Cianfotta"

Questa ottima minestra è composta da tanti ortaggi che si trovano in estate. In origine questo piatto era un piatto povero per i contadini, che racimolando qua e là ortaggi vari, riuscivano a metter su una zuppa abbastanza completa. Essa però come tutte le altre minestre paesane è giunta fino a noi arricchita, ben condita e piena di colori e sapori tanto da far bella figura sulle migliori mense.

Dosi per 6 persone: mezzo chilo di melanzane, mezzo chilo di peperoni rossi e gialli, 300 grammi di patate, 300 grammi di pomodoro, una grossa cipolla, due spicchi d'aglio, un mazzetto di basilico, un pizzico di origano, 6 acciughe salate diliscate e ben lavate, capperi, olive, olio e sale. Facoltativamente una spolverata di pecorino, parmigiano e pepe. Si taglia il tutto grossolanamente, si pone in un tegame, si copre e si cucina a fuoco lento per mezz'ora circa. Spesso, a queste verdure, si aggiunge un pugnetto di pasta di grosso taglio, tipo rigatoni o penne crude, che si cucinano unitamente al resto.

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"La Scapece"

Nella cucina gaetana, di piatti a base di pesce ve ne sono moltissimi e se ne comprende benissimo la ragione in un paese che vive sul mare.

Il nome di questa preparazione si è modificato attraverso i tempi: c'è chi la chiama "scapece" e chi addirittura "escabeccio" arieggiando il suo nome latino. La salsa risale forse alla Roma Imperiale, ai tempi di Tiberio. quando fu ideata da Apicius. Da lui "Esca Apicii" che significa appunto "cibo di Apicio". Si trovano corrispondenze in altri paesi, ad esempio Spagna e paesi neolatini dove la salsa viene chiamata "escabece" e serve anche per il pollo e coniglio. Nel nord Italia questo tipo di preparazione viene chiamato "in carpione", gli ingredienti variano in quanto viene usato timo, alloro, pepe e cipolla e la salsa va preparata esclusivamente calda.

Questo intingolo è a base di aceto di vino rosso, di menta e sale, aglio e peperoncino che, una volta preparato (freddo oppure caldo)si versa sul pesce fritto che viene poi lasciato marinare per qualche ora. Volendo agli ingredienti accennati, si può aggiungere uno o più pomodori maturi, naturalmente a freddo.

Lo "scapece", comunque venga preparata. dà sempre risultati eccellenti ed il pesce assume un aroma del tutto particolare, inoltre per i pesci "grassi" ad esempio sardine il gusto migliora notevolmente e migliora la digeribilità degli stessi.

Preparazione:

Per la preparazione a freddo si mettono due spicchi d'aglio, due rametti di menta (se secca mezzo cucchiaio da tavola), sale e peperoncino secondo il gusto, in un mortaio di legno. Il tutto si amalgama fino a che l'insieme diventi un intingolo piuttosto cremoso. Quindi vi si aggiunge un bicchiere di aceto e la salsa è pronta per essere versata sul pesce appena fritto che dovrà marinare per un po'. Più semplice la preparazione a caldo: si prendono infatti gli stessi ingredienti, senza preparazione alcuna e si mette sul fuoco con aggiunta di pochissima acqua a bollire per alcuni minuti. Anche in questo caso lo salsa è subito pronta. Si versa bollente sul pesce fritto in precedenza e già raffreddato e si lascia marinare. In questo caso lo pietanza è conservabile anche per più giorni a temperatura ambiente, avendo cura di coprire il vassoio con un coperchio. Il contenuto acquisterà sempre sapore più deciso e, se la frittura è costituita da sardine, il pesce può essere consumato con tutta la lisca che sarà divenuta tenera come la stessa polpa. Nel nord Italia viene così preparata la tinca, famosa oltre che per la sua bontà, anche per le sue lische aguzze che nell'aceto vengono così stemperate. In Veneto sono note le sardelle in saòr" con aceto e cipolle a fette.

Una variante è il piatto noto come "Zucchine alla scapece" che è caratteristico anche di altre località del Sud Italia: è semplicissimo, dopo aver fritto le zucchine tagliate a rondelle e precedentemente messe con un po’ di sale in uno scolapasta (onde eliminare l'eccesso do acqua) si aggiunge aceto (bianco), aglio e menta che in questo caso deve essere tassativamente fresca.

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La "liatina"

La "liatina" a Gaeta è il piatto speciale dell'inverno. Si tratta della "gelatina di maiale" che appunto ha bisogno del freddo naturale per condensarsi. Nei tempi passati questo periodo dell'anno ero considerato tempo di abbondanza. Fare la gelatina per i gaetani era un rito.  Assieme al piatto di gelatina veniva servita anche la cosiddetta zufolatura , che altro non era che il grasso che veniva soffiato da sopra la gelatina ancora calda, dovendo esso essere tolto in modo da far rimanere la gelatina stessa, una volta raffreddata, limpida e cristallina. Ancora oggi questa stuzzicante pietanza è una prelibatezza della tavola gaetana invernale. Stranamente non si sono trovate corrispondenze in Italia di questo piatto mentre in Ungheria esiste un piatto del tutto simile che viene preparato per il periodo di Natale. La presenza dei peperoni rossi è anche molto usuale in Ungheria mentre l'utilizzo del cumino ha naturalmente origini arabe.

Dosi e preparazione: Un quarto di testa di maiale, due piedini, l'ammunciello, che è poi il gambone; otto peperoni rossi, quattro peperoncini forti, dieci grammi di cumino e sale quanto basta. Si prende tutta la carne suddetta e la si pone in una pentola. che si copre di acqua fredda aggiungendo sale a piacere (tenendo conto dell'evaporazione durante la cottura che richiede circa quattro ore). Come inizia a bollire si schiuma come se fosse brodo, e dopo si aggiungono peperoni e peperoncini. Si lascia bollire a fuoco lento finché la polpa della carne si distacca dagli ossi. Quasi a fine cottura s'aggiungono i semi di cumino legati in un batuffolo di garza. Terminata la cottura si divide la carne dal brodo e si disossa. Nelle "sperlunghe" o vassoi si pongono quindi ben disposti, a gruppetti, la carne con cotica e piedini, foglie di lauro per abbellire il piatto. Alcuni aggiungono anche uva passa e pinoli, ma personalmente dissento. Viene quindi il momento della operazione della soffiatura, cioè della famosa "zufolatura", che consiste nel soffiare sulla superficie della gelatina ancora calda, in modo da separare il grasso della parte sottostante della pietanza; sistema più semplice è però quello di filtrare attraverso un telo, che trattiene il grasso. Altro sistema è quello di far raffreddare la gelatina in un recipiente e raccogliere il grasso. Quest'ultimo, una volta rappreso, diventa la cosidetta "zufolatura", altra delizia piccante che si gusta spalmata sul pane come un antipasto o uno spuntino, od utilizzato in piccole dosi per insaporire il classico sugo di pomodori.

Come aggiunta alle spezie su menzionate può essere utilizzato anche il coriandolo, anch'esso di chiara origine araba.

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Le "polpette di pesce"

Esse sono di semplice preparazione - che è pressappoco la stessa delle polpette di carne - e si gustano per il loro sapore ed il loro profumo, specialmente se realizzate con il pesce fresco del nostra golfo. E' un'alternativa interessante che può avvicinare al pesce quelle persone, bambini in particolare, che sono ad esso normalmente restii utilizzando eventualmente pesce più delicato come il merluzzo od anche il pesce sciabola.

In primo luogo è importante, prima di iniziare la lavorazione, mettere a bagno le sardine, spinate e lavate, in vino bianco secco, ( in alternativa acqua ed aceto bianco in eguali proporzioni) in modo da far scaricare tutto l'eventuale residuo di sangue in esse contenuto. Al pesce, asciugato e tagliato a tocchettini, si aggiunge sale, prezzemolo ed aglio tritato, uova fresche, pane bagnato nell'acqua (oppure nel latte), uva passa e pinoli(facoltativi) e pepe o meglio, peperoncino rosso. Si amalgama il tutto per bene e si formano quindi, con le mani, belle e tonde crocchette. Queste si passano nel pane grattugiato, nella farina, e si friggono in abbondante olio bollente. Le "polpette di sardine" sono così pronte. Esse si servono come pietanza (dopo averle asciugate su carta assorbente) con contorno di olive nere di Gaeta o di insalatina verde mista. Ma dalle crocchette si può ricavare anche uno squisito sughetto per spaghetti e linguine. Ad un normale sugo di pomodori, aglio e prezzemolo, si aggiungono a cottura praticamente ultimata, le crocchette per cinque o sei minuti: a differenza dell'analogo sugo con polpette di carne è opportuno che il risultato finale non sia molto denso.

Dosi per sei persone: un chilogrammo di pesce, due uova fresche; circa cento grammi di pane raffermo bagnato, sale, aglio e prezzemolo, (pinoli, uvetta facolt.)e peperoncino.

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Olive di Gaeta in salamoia

E' importante, per la buona riuscita, che le olive siano mature e del cultivar locale (olive di forma ovaloide e di colore violaceo), olive di altra qualità non danno generalmente risultati accettabili. Le olive, una volta sciacquate, si pongono in un recipiente pieno di acqua e si lasciano così per 48 ore allo scopo di eliminare il gusto amaro. Passato detto periodo si collocano in una damigiana a collo largo e si coprono con acqua fredda e con 65 gr. di sale grosso per ogni chilo, l'acqua deve arrivare al bordo della damigiana. Si lasciano così, coperte con un panno, e sono pronte in tre-quattro mesi. E' importante che il locale in cui si pone la damigiana sia fresco ed arieggiato altrimenti le olive tendono a maturare troppo in fretta e marciscono. Il "panno" che si forma sullo strato superficiale della salamoia preserva le olive dal deterioramento. I mesi migliori per la preparazione sono da dicembre a marzo.

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Olive verdi schiacciate

E' un altro interessante modo di preparare le olive che, in questo caso, devono essere piuttosto grosse e verdi. Con un martello di legno si schiacciano le olive (in un panno o in una busta di plastica) e poi si mettono in un recipiente che si riempie con acqua calda, si procede a ripetere la stessa operazione mattina e sera per due - tre giorni, alla fine le olive devono risultare morbide e non amare. Si aggiunge sale, aglio, peperoncino e semi di finocchio, talvolta un po’ di olio extravergine. Le olive così preparate si conservano per qualche giorno soltanto. La stessa preparazione può essere eseguita con acqua fredda, ma tale metodo non è consigliabile in quanto i giorni richiesti aumentano notevolmente mentre è utilissimo se si vogliono conservare in un barattolo per un periodo anche di due mesi (in inverno).

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Acciughe in salamoia

E' questa una ricetta tipica di tutti i paesi di mare ma, per le caratteristiche morfologiche del nostro pesce, la ricetta eseguita con alici "nostrane" è davvero insuperabile. Le alici devono essere freschissime, si procede alla pulizia eliminando, con le mani la testa e le interiora, e si procede a sciacquarle con acqua di mare. Si pongono in un recipiente capiente e si cospargono di sale grosso, dopo ventiquattr'ore gran parte del sangue è stato estratto e si può procedere al confezionamento dei vasetti. Si utilizzano vasetti cilindrici di coccio smaltato o di vetro e si procede a collocare un po’ di sale grosso sul fondo, si dispone il primo strato di alici facendo attenzione ad allinearle per bene, si mette un altro po’ di sale… e così via sino a completare il vasetto. Sulla sommità si pone un disco che originariamente era un ciottolo tondo o un disco di legno (ora si usano materiali vari plastica inclusa) e sullo stesso si mette un peso di circa 2 kg. Un vasetto di medie dimensioni richiede due-tre chili di alici fresche ed un chilo di sale grosso. Si deve far attenzione soltanto che il vasetto risulti sempre coperto di salamoia, se si asciuga bisogna aggiungerne (sciogliendo del sale in acqua calda in soluzione soprassatura).

Per l'utilizzo delle acciughe, dopo la necessaria maturazione di tre - quattro mesi, si procede a metterle in acqua per due-tre ore, ad eliminare la lisca ed a risciacquarle in acqua con un po’ di aceto. Si mettono quindi a scolare e, una volta asciutte (attenzione: è importante che siano asciugate bene), si possono mettere in un vasetto ricoprendole con olio. In frigorifero, così preparate, si mantengono senza problemi per circa un mese.

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Alici marinate

Questo gustoso antipasto, che sta prendendo piede in questi ultimi anni anche presso di noi, è ritenuto di origine genovese anche se si trova frequentemente in Spagna. La preparazione prevede due varianti e cioè l'utilizzo del limone o dell'aceto, la prima è senz'altro più delicata ma anche la seconda da risultati accettabili. Dopo aver eliminato testa ed interiora si collocano le alici in una terrina e si coprono con succo di limone (o aceto) con piccola aggiunta di acqua. E' preferibile in questa fase mettere a marinare anche del timo (in alternativa origano o pimpinella), aglio e peperoncino. Dopo qualche ora si può procedere alla eliminazione della lisca (più difficile all'inizio della preparazione in quanto le alici freschissime mal si prestano a tale operazione) e si continua a tenerle immerse nella soluzione per un totale di 12 ore. A tal punto le alici devono risultare bianchissime e sono pronte, dopo veloce pulizia, ad essere messe in un piatto da portata con aggiunta di olio, sale, aglio e prezzemolo. In frigo si conservano per 2-3 giorni.

Surgelazione : non consigliata

Pennette al sugo di "tenna"

Ricetta non tipicamente gaetana ma adattata e rivisitata da una similare dell'Adriatico. E' da preferire l'utilizzo delle "tenne" (sgombri) a quello dei più comuni "lacerti" in quanto la carne delle prime è più soda, compatta e meno grassa. Le due specie di pesci si riconoscono facilmente in quanto le tenne differiscono dai lacerti per il corpo più affusolato, l'occhio più piccolo, il colore blu-argento e non verdastro e la mancanza di macchioline nella parte inferiore. Si possono altresì utilizzare tonnetti, tonno (attenzione a dissanguarlo bene), pesce sciabola etc. ma non si consiglia l'utilizzo di pesci delicati quali merluzzo, spigole etc.  in quanto il sapore troppo delicato di questi ultimi verrebbe completamente sopraffatto dal pomodoro. Nel caso si vogliano senz'altro utilizzare quest'ultimi pesci la dose del sugo di pomodoro va ridotta notevolmente e la consistenza del sugo deve essere meno densa. Si procede (per 6 persone) a sfilettare una tenna. I filetti vengono messi in un tegamino in cui si è fatto soffriggere con olio d'oliva un po’ di aglio (c' è chi preferisce una cipolla) e delle olive nere; dopo aver velocemente rosolato i filetti, gli stessi si ricoprono con sugo di pomodoro non troppo liquido, sale, peperoncino. Dopo una ventina di minuti si aggiunge una manciata di prezzemolo tritato (anche il basilico tritato è comunque una variante interessante) e si spegne la fiamma.

A parte si sono bollite le pennette al dente, si versano le stesse ed il sugo in una padella o in una pirofila e si da una rimescolata di uno-due minuti a caldo.

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Tonno sott'olio

Ricetta non tradizionalmente gaetana ma senz'altro da provare per il risultato eccellente che ben differisce dai prodotti che usualmente si comprano. Il periodo migliore è ottobre-novembre quando entrano nel golfo i "tonnacchielli" da 1.5-2.5 kg. Il pesce va sventrato, vanno eliminate le branchie o, se si preferisce addirittura decapitato e va eliminato attraverso ripetuti lavaggi il sangue di cui la carne è piena. Si colloca poi in una pentola e si ricopre con abbondante acqua e con 60-70 grammi si sale grosso per ogni litro di acqua. Si porta ad ebollizione e, a fiamma moderata, si lascia bollire per 2.5-3 ore, in modo da poter facilmente separare le lische. Si toglie quindi dal fuoco e si poggiano i vari pezzetti su di un canovaccio, si lascia così asciugare per almeno dodici ore. Un sistema più rapido è quello di asciugare in forno spento e preriscaldato a 50 °C. Una volta asciugati si ripongono i vari pezzetti in barattoli di vetro con chiusura ermetica eliminando quanto più possibile gli spazi vuoti e ricoprendo poi con olio extravergine. Si consiglia la sterilizzazione degli stessi barattoli per almeno 20 minuti, in tal modo il tonno si conserva anche un anno. Senza sterilizzazione è consigliabile il consumo entro un mese, la durata della conservazione dipende comunque dal grado di umidità residua.

Lo stesso procedimento può effettuarsi con altri tipi di pesce ma soltanto i sauri mi hanno dato risultati soddisfacenti.

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Broccoletti e parnocchie

Piatto tipico gaetano, di antica origine ed originale per la inconsueta commistione di sapori così diversi. E' bene considerare un mazzetto di broccoli, 4-5 canocchie (parnocchie) ed uno spicchio di aglio per persona. Preparazione semplicissima: Si mette a soffriggere in olio di oliva l'aglio ed il peperoncino rosso (preferibilmente fresco o surgelato), quando l'aglio imbiondisce si mettono le canocchie e, dopo due minuti, i broccoletti (lavati e scolati) ed un po’ di sale. Si abbassa a questo punto la fiamma e si copre la pentola. La cottura media dura circa 30 minuti.

Nota: con lo stesso procedimento si fa un altro piatto tipico gaetano: broccoletti e salsiccie, molti preferiscono sbollentare le salsicce e bucarle con una forchetta onde eliminare l'eccesso di grasso.

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Pasta e cavolfiore

Il cavolfiore, che si trova essenzialmente nel periodo invernale e non da tutti apprezzato, può essere utilizzato non soltanto in bianco, in giardiniera o nelle squisite zeppole della vigilia di Natale ma anche come base di una ricetta particolare: in olio si mette a soffriggere aglio, capperi, peperoncino, uva sultanina, pinoli e qualche filetto di acciuga salata. Si aggiunge quasi immediatamente il cavolfiore (non prebollito ma soltanto lavato e tagliato a tocchetti), sale q.b. e si cucina per mezz'ora a fuoco moderato ed a pentola coperta. A parte va cotta la pasta (mezze penne, fusilli, etc) che va tenuta al dente e, dopo scolatura, aggiunta al cavolfiore già cotto. Serve qualche minuto per amalgamare il tutto e poi si serve. La pasta eventualmente avanzata può senza problemi essere conservata per un successivo utilizzo; se cotta al dente, migliora addirittura il gusto. Di gusto leggermente più forte è una nuova varietà di cavolfiore (di provenienza calabrese) che presenta un colore verde e forma meno arrotondata.

Una variante a quanto sopra, originaria e molto apprezzata nel pugliese, è quella di far soffriggere olio, aglio, due o tre pomodori e poi procedere con il cavolfiore e alla fine con una manciatina di prezzemolo.

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Fusilli e Broccoletti

E' questa una rivisitazione della famosa ricetta pugliese "Orecchiette e cime di rapa", l'utilizzo dei fusilli o comunque di una pasta media (pennette,conchiglioni etc) permette una semplificazione della ricetta in quanto si possonno mettere contemporaneamente a bollire in acqua precedentemente salata sia i broccoletti che la pasta in quanto i tempi di cottura sono simili: Con le orecchiette invece si procede o a cottura separata oppure si mettono i broccoletti a metà cottura. La preparazione è molto semplice: si cuociono al dente i fusilli ed i broccoletti e, dopo averli scolati, si versano in una padella in cui sono stati messi a soffriggere uno spicchio di aglio e due filetti di acciuga per persona. Si fanno così saltare a fiamma viva per due - tre minuti e si servono. Per le proporzioni è bene non esagerare con i broccoletti: un fascio degli stessi è in genere sufficiente per 4 persone, ma le dosi naturalmente dipendono dal gusto personale.

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Sarde e patate

E' ricetta semplice e con ingredienti poveri, ma completa e bilanciata. Si puliscono le sarde togliendo anche la lisca e si lasciano per una mezz'oretta in acqua ed aceto bianco in egual misura. Si tagliano a fette delle cipolle (bianche o dorate) e delle patate a pasta gialla. In una teglia si mette un po’ di olio extravergine di oliva e poi, a strati, patate, cipolle e sarde. Ogni strato va condito con un po’ di olio, sale, prezzemolo, capperi, olive snocciolate e peperoncino. Si cucina o in forno (a temperatura media) o sulla fiamma tenuta bassa avendo semplicemente cura che il fondo non si attacchi, ma senza rimestare per non distruggere la composizione dei vari strati. E' opportuno che le patate siano tagliate a fette sottili altrimenti la cottura dei vari ingredienti non è bilanciata. Le varianti a questa ricetta sono notevoli. Si possono inserire delle fette di pomodoro e, invece delle sarde, baccalà, filetti di aringhe o addirittura tennette sfilettate. La versione col baccalà, di certa ed antica origine portoghese, è assai utilizzata in Brasile ed è il piatto nazionale del venerdì, viene chiamata Bacalhoada vien mangiata in attesa della Fejoada del sabato. In questo caso viene aggiunto anche del peperone e del pomodoro tagliati a rondelle al di sopra dello strato di baccalà.

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Pesce Sciabola Fritto

Ai vari tipi di pesce del golfo, ideali per una gustosa cottura (alici, fragaglia di triglie, sarde, mazzoni, merluzzetti, rotunnielli, pettini, suacie etc) si vuole qui aggiungere un pesce non troppo utilizzato: il pesce sciabola. Va preso un pesce sciabola (da preferire senz'altro quelli di grossa taglia) e va pulito completamente (raschiando la pellicola argentea all'esterno e quella nera all'interno dello stesso) e sfilettato. I pezzetti così preparati vanno poi infarinati e fritti in olio abbondante e ben caldo. Eventuali avanzi della frittura possono essere fatti alla Scapece è uno dei pesci che meglio si presta a tale ricetta.

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Roccocò

E' un tipico dolce natalizio gaetano e meriodionale, che non trova riscontri nel Nord Italia, mentre si trova leggermente modificato nelle specialità natalizie di Norimberga.

Dosi: Farina gr.1000, Zucchero gr.800, Mandorle sgusciate,spelate e sminuzzate grossolanamente gr.300, ammoniaca gr.10 (o lievito in polvere 2 bustine), acqua c.a. 2 bicchieri, cannella, garofano, noce moscata, bucce sminuzzate di due mandarini, buccia grattuggiata di un'arancia, cacao 3 cucchiaini. Mischiare il tutto e formare prima dei cilindretti di diametro di circa due cm e poi i classici taralli. Collocarli in una teglia con carta da forno, spalmare sulla sommità un po’ di cacao liquido. Mettere in forno a 150-160 ° per 15-20'.

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Susamielli

Unitamente ai Roccocò è un dolce che non manca mai nelle feste natalizie in tutte le case di Gaeta ed ha la tipica forma ad S, con due/tre mezze mandorle sulla superficie superiore.

Dosi: Miele gr. 500, Zucchero gr.500, Farina gr.1000, Mandorle gr.150, Ammoniaca gr.20 (o 3 bustine di lievito in polvere), arancia grattuggiata, cannella, garofano e noce moscata. Bollire bene miele, zucchero ed una tazzina si acqua, incorporare la farina e stendere quando l'impasto è ancora caldo, facendo dei cilindretti e successivamente schiacciandoli nella caratteristica forma ad S incorporando sulla parte superiore le mandorle a metà. Collocarli in una teglia con carta da forno. Mettere in forno a temperatura media e controllare che siano ben cotti sia sopra che sotto.

La variante " al cioccolato " si ottiene cospargendo sui susamielli appena cotti una "copertura" di acua,zucchero e cacao. Si fa bollire acqua e zucchero q.b. sino a che la soluzione diventi filante e si aggiunge il cacao in polvere.

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Tozzi

E' un tipico dolce che nelle varie regioni italiane assume nomi diversi: cantucci,etc.

Dosi: Farina gr.2000, Zucchero gr.600, uova (grosse) n.6, olio 2 bicchieri, 2 bustine di vainiglia, 4 bustine di lievito, buccia grattugiata di 1 limone e di un' arancia, mandorle gr.50, latte 1/2 bicchiere. Procedere all'impasto e tagliare la "pagnotta" ricavata a sghembo, nella classica forma a losanga. Mettere sulla sommità i pezzi di mandorle e spennellare con un po’ di uovo. Collocarli in una teglia con carta da forno. Mettere in forno a 180-200° per 30' e controllare che siano ben cotti sia sopra che sotto.

Come variante si possono fare anche "al cacao", come descritto per i Susamielli.

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Pastiera

 Se Natale è il regno di Roccocò e Susamielli , a Pasqua regna incontrastata la Pastiera che, di indiscusse origini partenopee, ormai è entrata di diritto nelle nostre tradizioni. Parente nobile del Tortane che viene utilizzato nei giorni precedenti o successivi, a Pasqua la Pastiera è un dolce obbligo a cui ben pochi rinunziano.

LA PASTIERA: dolce rituale forse, sia pure in forma rudimentale, accompagnò le feste pagane del ritorno della primavera, durante le quali le sacerdotesse di Cerere portavano in processione l'uovo, simbolo di vita nascente. Per il grano o il farro, uniti alla ricotta, essi potrebbe derivare dal pane di farro delle nozze romane, dette appunto "confarratio". Un'altra ipotesi la fa risalire alle focacce rituali che si diffusero ai tempi di Costantino il Grande, derivate dall'offerta di latte e miele, che i catecumeni ricevevano nella notte di Pasqua, al termine della cerimonia battesimale.

La versione odierna fu inventata probabilmente nella pace segreta di un monastero napoletano. Un'ignota suora volle che in quel dolce, simbologia della Resurrezione, si unisse il profumo dei fiori dell'arancio del giardino conventuale. Alla ricotta mescolò una manciata di grano che germoglia splendente come oro, aggiunse poi le uova, simbolo di nuova vita, l'acqua di fiori odorosa come la primavera, il cedro e le aromatiche spezie venute dall'Asia. Le suore dell'antichissimo convento di San Gregorio Armeno erano reputate maestre nella complessa manipolazione della pastiera, e nel periodo pasquale ne confezionavano in gran numero per le mense delle dimore patrizie e della ricca borghesia. Oggi le ricette sono migliaia in quanto ogni brava massaia napoletana si ritiene detentrice dell'unica,autentica e migliore ricetta della pastiera. Ci sono, essenzialmente due scuole: la più antica insegna a mescolare ricotta semplici uova sbattute; la seconda, decisamente innovatrice, raccomanda di mescolarvi una densa crema pasticciera, che la rende più leggera e morbida, innovazione dovuta al dolciere-lattaio Starace con bottega, non più esistente, in un angolo di Piazza Municipio a Napoli. La pastiera va confezionata con un certo anticipo, non oltre il Giovedì o il Venerdì santo, per dare agio a tutti gli aromi di cui è intrisa di ben amalgamarsi in un unico ed inconfondibile sapore. Appositi "ruoti" di ferro stagnato sono destinati a contenere la stessa, che in essi viene venduta e anche servita, poiché è assai fragile e a sformarla si rischia di distruggere tutto il lavoro.
 
 

1. Pastiera semplice
 
Pasta frolla (esterno) Grammi Ripieno Grammi
Farina 500 Grano spugnato 1/2 barattolo
Zucchero 180 Latte 200
Burro 200 Burro 1/2 cucchiao
Uova intere  Ricotta 400
Buccia d'arancia 1 (grattuggiata) Zucchero 350
    Uova 3 intere + 2 tuorli
    Cedro candito 80 

La preparazione, abbastanza laboriosa, non è però difficile. Si prepara la pasta frolla miscelando i vari ingredienti e lasciandola riposare, si stende la stessa per riscoprire il fondo ed i fianchi di una teglia, lasciandone una parte per le strisce che, messe a losanga, ricoprono il ripieno. Per quest'ultimo si bollono grano,latte e burro sino a che abbia la pastosità di una crema e, una volta raffreddato, si aggiungono tutti gli altri ingredienti non facendo mancare, quale ultimo tocco, una bustina di vainiglia ed una fialetta di fiori d'arancio. La cottura è in forno a 180° per un'ora o più, finchè si forma un bel colore bruno-dorato. A pastiera fredda si cosparge di zucchero a velo dopo averla, con molta cura, tolta dalla teglia.

2. Pastiera con crema
 
Pasta frolla Ripieno Ricotta 350 gr
Farina 300 gr Grano amm. 200gr 5 uova
Sugna,burro150 gr Latte 400 gr Acqua fiori ar. 80 gr
Zucch.150gr Zucch 1 cucch 2 Limoni
3 Uova Vanigl:1 bust Cedro e cand 150gr

La preparazione è uguale a quella della ricetta indicata sopra; al ripieno va aggiunta una crema(dimezzare le dosi del latte della ricetta relativa e mantenere tutte le altre)

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Tortane di Pasqua

Le colazioni dei giorni delle festività pasquali sono allietate a Gaeta dal Tortane, semplice dolce a forma di tarallo ricoperto di naspro e di piccoli zuccherini colorati. Le dosi sono indicative e naturalmente dipendono dalla misura dei contenitori, con quelle descritte si preparano due-tre piccoli tortani.
 
Farina (setacciata) 800 grammi Latte 250 cc
Zucchero 400 gr. Burro, sugna o olio 120 gr
Lievito 2 bustine Liquore a scelta 1/2 bicchiere

La preparazione è quella solita di tutti gli impasti, la scelta di burro, sugna o olio dipendono dai gusti personali…e dal colesterolo. Una volta sistemato l'impasto nei recipienti si sistema in forno a temperatura di 150° per 20 minuti, si è intanto preparato il naspro con 2 albumi montati a neve e 250 gr. di zucchero a velo e si spennella lo stesso sul tortane collocando infine gli zuccherini e rimettendo in forno a temperatura bassa per 5 minuti.

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Crema

Una volta, nei giorni di festa, alla fine del pranzo il "dolce" consisteva semplicemente in un piattino di crema con l'aggiunta, a voler far le cose in grande, di una ciliegina candita. Oggi altri dolci più appariscenti l' hanno relegata a "riempitivo". La preparazione è quanto mai semplice: a mezzo litro di latte freddo si aggiungono 2 cucchiai di zucchero, un tuorlo, 2 cucchiai di farina e la buccia di un limone e si fa bollire pian piano rimestando continuamente sino alla consistenza desiderata. Per la crema al cioccolato si aggiungono due cucchiai di polvere di cacao, è tutto.

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Struffoli
 
Farina 500 gr Uova 5 Zucchero 100gr
Sugna 100 gr Liquore 2 bicchierini Limone 1 (gratt)

Impastare e lasciar riposare il tutto per 1/2 ora, fare con le mani degli "spaghetti", tagliarli a piccolissimi pezzi e friggere velocemente in olio bollente. Eliminare l'eccesso d'olio su un tovagliolino di carta ed aggiungere miele e zuccherini colorati.

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Marmellata di cetrangoli

1 Kg di cetrangoli, 400 grammi di zucchero.

Mettere in un recipiente con acqua i cetrangoli per eliminare il gusto amaro e bucare la buccia con una forchetta, cambiare l'acqua mattina e sera per due giorni. Tagliare i cetrangoli in piccoli pezzi ed eliminare i numerosi semi, mettere infine sul fuoco e far bollire sino all'addensamento della marmellata (provare con un cucchiaino su una superficie fredda). Mettere in vasetti a caldo.

Le stesse proporzioni vanno bene per i principali tipi di frutta, (per fichi meno zucchero!) non essendo necessario il preventivo ammollamento caratteristico dei cetrangoli.

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Peperoncini ripieni sott'olio

E' sempre meglio utilizzare in cucina peperoncini freschi (o al limite surgelati, in quanto mantengono bene l'aroma e ben si prestano ad un dosaggio preciso) invece di quelli seccati. Anche per l'olio al peperoncino il discorso è lo stesso, bisogna soltanto star attenti ad eliminare l'acqua superflua di cui il peperoncino, come tutti gli altri vegetali, è composto; ciò si ottiene in tre modi diversi: asciugatura per quattro-cinque giorni, eliminazione dell'acqua con sale (24 ore) o bollitura in acqua ed aceto in parti eguali per 3/4 minuti ed asciugatura su di un panno per almeno 12 ore. Il sistema deve essere scelto in base, non solo al gusto personale, ma anche alla forma del peperoncino (ad esempio per quelli tondi e di media grossezza (i cerasielli giganti) si preferisce il sale mantenendo il peperoncino integro. Altra accortezza è quella di utilizzare man mano l'olio e di sostituirlo con altro, dopo due-tre rinvasi anche i peperoncini più forti diventano una prelibatezza.

Un sistema non comune è quello di mettere sott'olio i peperoncini ripieni. Per questo sistema si devono usare peperoncini di 4-5 cm. Tondi o conici, si taglia il cappuccio, si tolgono i semi e si mette a bollire per 3/4 minuti con acqua ed aceto ed un po’ di sale, poi si fanno asciugare per 12 ore. Intanto si è preparato un ripieno omogeneo composto di tonno sott'olio, mollica di pane bagnata, prezzemolo, capperi, olive di Gaeta, filetti di acciughe. Il sale non è necessario in quanto già contenuto in alcuni degli ingredienti utilizzati. Si riempiono i peperoncini e si ripone in barattoli ricoprendo con olio extravergine. Mi sento di assicurarvelo: è una prelibatezza.

Con lo stesso sistema (cottura veloce in acqua ed aceto) si preparano vasetti di melanzane, zucchine, pomodori verdi, fagiolini, cavolfiore, funghi etc etc

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Verza e acciughe

In alt' Italia questa ricetta si prepara dopo le prime gelate che (dicono..) rendono più tenera la verza, da noi accontentiamoci del nostro splendido clima e delle verze...meno tenere. Scherzi a parte la ricetta è semplice: ingredienti una verza, aglio, acciughe sotto sale, il solito peperoncino, olio, aceto bianco e sale Si taglia l'interno della verza (eliminare o destinare ad altro le foglie esterne ed usare solo quelle bianche e tenere) a striscioline sottilissime e si aggiunge aglio, Acciughe e peperoncino fresco sminuzzati, sale ed aceto e, dopo una vigorosa rimescolata, l'olio. E' bene preparare il tutto almeno un'ora prima di gustarlo (ma non più di due o tre ore altrimenti l'aceto cuoce troppo la tenera verdura).

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Puntarelle

E' ricetta pugliese che, per la sua bontà e semplicità, si è diffusa in tutt'Italia negli ultimi dieci anni. Si tagliano i getti delle puntarelle (catalogna forzata a svilupparsi in questo modo particolare) per il lungo in quattro parti e si aggiungono aglio,acciughe sotto sale, sale e succo di limone e, dopo una vigorosa rimescolata, l'olio. E' bene preparare il tutto almeno un'ora prima di gustarlo (ma non più di due o tre ore altrimenti il limone cuoce troppo la tenera verdura).

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Pasta e ceci

Non essendo questo un trattato di botanica non parleremo dei profumatissimi narcisi che allietano le nostre colline sin dai primi giorni dell'anno e che per il loro colore sono volgarmente chiamati "pasta e ceci" ma, più prosaicamente, di un piatto locale. In effetti i ceci sono da noi consumati essenzialmente nel periodo invernale, in molti paesi del Nord Italia sono il piatto tradizionale del 2 novembre con un'eccezione molto particolare: Ad Arzago d'Adda un ricco cittadino, per essere ricordato dai posteri, ha lasciato un vitalizio al comune per permettere di cucinare il giorno di S. Lorenzo, in un'enorme caldaia i ceci per tutti i residenti (circa mille) e gli eventuali ospiti. Ogni cittadino ha diritto ad una porzione di ceci con carne e ad una michetta. Non ricordo con esattezza le proporzioni ma mi aveva colpito in particolare l'utilizzo di un quintale di ceci, 50 kg di carne macinata e…8 kg di porri, oltre a carote, cipolle etc. Per tornare alle nostre modeste proporzioni si mettono a bagno i ceci la sera prima (alcuni mettono un pizzico di bicarbonato, io preferisco di no) e si lasciano riposare. La mattina seguente si sciacquano e si mettono in una pentola con acqua fredda ed un po’ di sale, all' ebolizione si abbassa la fiamma e si lascia cuocere per almeno due ore (dipende dalla qualità dei ceci e dall'ammollo), con la pentola a pressione i tempi sono dimezzati. Si possono mettere nei ceci alcune cotiche o un osso di prosciutto (come per i fagioli), per ottenere un liquido più denso si può passare al mixer una parte degli stessi, si può fare un purè etc. etc. Per la pasta ( è preferibile quella di taglia medio-piccola che incamera un po’ del liquido di cottura) cucinata a parte, si possono aggiungere i ceci cotti "sic et simpliciter" , far riposare un po’ ed aggiungere olio ed aglio crudi, o far soffriggere l'aglio o altro, talmente tante sono le possibilità dipendenti dalla fantasia …e dalle calorie che si possono assorbire. E' buonissima anche la zuppa di ceci assoluti, con pane raffermo o con crostini su cui si grattugia un po’ di aglio. I nostri amici del Nord Italia usano , come detto sopra, anche aggiungere cipolla,carota,porri e carne macinata.

Invece dei ceci si usano localmente anche le cicerchie dal sapore leggermente diverso ma dalle caratteristiche simili ed a Genova (ma mi risulta anche in provincia di Roma) con la farina di ceci si cuoce in forno una specie di pizza (ceciata) in modo simile a quello che si fa in Garfagnana con la farina di castagne (neccio).

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Pasta e fagioli

A Gaeta uno dei piatti tradizionali era la bàine de fasuglie (zuppa di fagioli); la ricetta è semplicissima e preferisco qui dare altre indicazioni non soltanto gaetane. Anche i fagioli, come i ceci, hanno bisogno di un ammollo preventivo ed è assolutamente necessario eliminare l'acqua in cui sono stati messi a spugnare. Nella cottura ( notevole il sistema toscano di cottura nel fiasco) si possono aggiungere cotiche o un bell'osso di prosciutto e poi procedere alla preparazione come per la pasta e ceci. Una caratteristica è quella di utilizzare per tradizione la pasta "ammescate", cioè gli avanzi di tutti i tipi di pasta, oggi si trova direttamente la confezione adatta. Non ho parlato dei vari tipi di fagioli, sono tanti e tanti che ci perderemmo, normalmente si usano i borlotti. Altri tipi (bianchi di Spagna, cannellini, dall'occhio, neri, "kidney beans" sono tradizionalmente usati per altre ricette. E' bene notare che i fagioli hanno un notevole contenuto proteico, mangiati con pasta o pane costituiscono un piatto equilibrato e… con l'aggiunta di cotiche o osso di prosciutto equilibratissimo, è bene quindi considerarlo come piatto unico e non farlo seguire da un piatto di carne. Una variante molto interessante è costituita dai "fagioli all'uccelletto" che consiste nel far soffriggere in olio extravergine qualche spicchio d'aglio, del pomodoro, salvia e peperoncino a cui vengono aggiunti i fagioli (precotti) per una successiva cottura di 10-15 minuti. Anche in questo caso …pasta o crostini. La pasta e fagioli eventualmente avanzata è forse ancora più buona, d'estate si preferisce mangiarla anche fredda. Per dovere di cronaca debbo notare che ho visto aggiungere alla pasta e fagioli anche …..le cozze! e...ci credete? con risultato ottimo!!

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Borragine e fagioli

Uno dei sistemi per rendere più digeribili ceci, fagioli , o legumi in genere è quello di accompagnarli con vegetali di vario tipo. La borragine, che viene amorevolmente coltivata nel genovese ( è componente della classica torta pasqualina ) e che si trova anche in vendita nelle bancarelle del napoletano, nei nostri mercati è praticamente scomparsa. Ce ne è invece moltissima nelle nostre campagne e, con un po’ di pazienza nella selezione e nella pulizia della stessa, si può usufruire di un vegetale che, oltre ad essere gustoso, ha proprietà diuretiche ed emollienti. La borragine si cucina per qualche minuto in acqua bollente e salata, si scola, e si aggiunge nelle proporzioni volute ai fagioli già cotti. Anche in questo caso, come per la pasta e fagioli….olio ed aglio a crudo o aglio imbiondito nell'olio. Con i fagioli è molto indicata anche la cicoria ma, per non fare troppe ripetizioni, di essa si parlerà a proposito di Fave e Cicoria.

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Fave e Cicoria

Tra i vari legumi non vanno dimenticate le fave che hanno l'ulteriore vantaggio di poter essere consumate fresche (ottime in primavera se accompagnate da formaggio pecorino ed un vino robusto), cotte ( Fave e prosciutto), seccate (con o senza buccia). Riferendomi in particolare a queste ultime si può preparare un'ottima zuppa (nel caso di fave sgusciate la cottura è più veloce) e normalmente si preferisce cuocerle sino ad avere quasi un purè. In alternativa alla squisita zuppa (con crostini, aglio ed olio crudo) vi è senz'altro la possibilità di aggiungerle alla pasta (anche in questo caso, come per gli altri legumi, di media taglia) o con olio crudo o soffriggendo un po’ di aglio nell'olio. Un ottimo accostamento è quello di unirle alla cicoria bollita (ad esempio le foglie avanzate dalle Puntarelle ) in quanto il gusto amaro della cicoria ben si amalgama con quello più dolce delle fave, aumentando la digeribilità del tutto. Si preferisce normalmente aggiungere aglio ed olio crudi.

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Capperi

Un discorso tutto particolare, tra le tante spezie utilizzate in cucina, merita il cappero. Normalmente viene utilizzato il bocciolo, conservato sotto sale o sott'aceto. In paesi che lo utilizzano ancora più di noi (Cipro) vengono usate anche le foglie ed i frutti, simili a cetriolini. Le foglie si possono seccare ed utilizzare principalmente in piatti a base di pesce oppure conservare sott'aceto ed aggiungere alle insalate. In questo caso vanno raccolte quando sono tenere (da noi in maggio) e poste in un recipiente con acqua fredda che va cambiata mattina e sera per 7-10 giorni. Vengono quindi asciugate e poste in un recipiente con sale grosso e messe ad asciugare al sole, alla fine poste in barattoli con aceto bianco. Sono un componente molto caratteristico della cucina greca e turca. Per i boccioli e i frutti si può utilizzare lo stesso sistema, naturalmente preparandoli ed invasandoli separatamente. Capperi, aglio, olive, acciughe,olio e peperoncino sono la base della maggior parte dei piatti mediterranei. Una salsetta composta esclusivamente da questi ingredienti (tutti o parte di essi) sugli spaghetti è tante volte la soluzione per gli invitati improvvisati. La salsetta è talmente semplice che non mi sento di aggiungere particolarità sulla cottura.

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Friarielli

A Gaeta per friarielli si intendono degli speciali peperoncini non piccanti che, oltre ad essere ottimi crudi in insalata, si cucinano (il nome lo dice) fritti nell'olio di oliva ( in questo caso è senz'altro da preferire a quello di semi). In base alla grossezza ed al gusto personale si può scegliere se togliere o meno i semi interni (con i semi restano più morbidi e meno secchi) e poi si mettono a friggere in olio già caldo. Alla fine vengono fritti dei pomodorini tagliati a metà (spagnolette non troppo mature per restare in tema locale) ed aggiunti ai friarielli. Sono ottimi freddi, ma anche saltati di nuovo in padella per insaporire delle pennette al dente appena scolate.

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Peperoni al gratin

I peperoni arrostiti, che sono già un piatto extra, sono a loro volta la componente base di questa ricetta molto utilizzata a Gaeta e nel Sud Italia, di chiara componente araba. I peperoni arrostiti si preparano mettendo semplicemente sulla brace o sulla piastra dei bei peperoni colorati (preferire la varietà a quattro punte). Bruciacchiati da tutte le parti si lasciano una mezz'oretta in un sacchetto di carta (per permettere alla buccia di staccarsi meglio) e poi puliscono dai semi e dalla pelle. Tagliati a listarelle e conditi con aglio, olio ed origano (prezzemolo, basilico…) e sale sono un contorno squisito. Con aggiunta invece di aglio, origano, uva di Corinto, pane grattugiato, sale ed olio costituiscono i Peperoni al gratin, che tra l'altro sono ottimi anche ….non gratinati.

I peperoni arrostiti possono essere anche conservati, previa sterilizzazione, in vasetti di vetro immersi nel loro stesso liquido o surgelati.

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Zuppa di ciammarùchele

A Gaeta le lumache si chiamano ciammarrucole e sono essenzialmente di piccole dimensioni e con il guscio colorato da due spirali concentriche bianca e marrone. Un altro tipo, a guscio scuro e che può raggiungere dimensioni maggiori , si chiama macuoche Erano considerate la carne dei poveri in quanto, per i contadini, erano la sola carne che si potevano permettere. Si trovano, durante e dopo la pioggia normalmente tra settembre e febbraio, lungo le macére, muri a secco che dividono i piccoli appezzamenti di terreno collinare faticosamente resi coltivabili , molto spesso a viti. Oggi fuga dalle campagne, incendi ed inquinamento da concime hanno ridotto anche l a quantità delle nostre lumache, ma ci sono molti appassionati che ne vanno ancora alla ricerca, non più per necessità ma per diletto. Si trovavano anche in notevole quantità sotto le fascine delle piante di pomodoro estirpate ed accantonate.

Una volta raccolte le lumache, si mettono a spurgare in una spasella (cassetta in cui viene messo il pesce) su di uno strato di polenta o crusca. E' importante che il recipiente sia areato anche dal di sotto….e che le lumache non vadano via. Se le lumache raccolte non sono molte basta metterle in un recipiente di coccio e ricoprire con un telo traforato legato al recipiente stesso. Dopo circa una settimana si procede ad un primo lavaggio e si mettono da parte le lumache…sopravvissute. Può infatti malauguratamente capitare che qualche lumaca sia morta e che rovini il tutto. Si prendono quindi le lumache che hanno "cacciato fuori la testa" e si procede ad una prima bollitura in acqua e sale. Gli esperti riescono a fare in modo che parte del corpo resti fuori (l'acqua non deve bollire troppo quando si versano le lumache), in ogni caso dopo qualche minuto si spegne il fuoco e si mette ad imbiondire una cipolla a fette in un po’ di olio, si aggiungono le lumache ed acqua in modo da ricoprirle. Dopo circa 40 minuti si aggiunge della salsa di pomodoro (pomodori freschi passati) abbastanza lenta, del peperoncino che in questo piatto è tradizionalmente essenziale, e si lascia cucinare per almeno un'altra mezz'ora. Un altro sistema, alternativo al precedente consiste nell'aggiungere alle lumache, dopo il primo lavaggio in acqua corrente, una manciata di sale grosso ed a rimestare continuamente per qualche minuto in modo che le lumache "spurghino" definitivamente la "bava". Mettere in un tegame di terracotta olio, aglio (schiacciato), peperoncino fresco,e pomodoro (pelati o equivalente) con un po’ di acqua e cuocere per 10 minuti. Si aggiungono le lumache e si cucina a fuoco lento per 15-20 minuti (le lumache cacciano fuori la testa). Tradizionalmente i contadini mangiavano le lumache con l'ausilio di una forchetta, oggi stuzzicadenti e più sofisticate mollette rendono l'operazione più agevole. Il sugo rimasto può benissimo servire per condire della pasta, qualcuno se il sugo è molto diluito fa bollire la pasta direttamente in esso. Un'altra variante è quella di aggiungere delle patate a tocchetti. L'utilizzo dell'aglio in luogo della cipolla è forse meno tradizionale, ma da alcuni (incluso il sottoscritto) più apprezzato, a Gaeta infatti la cucina tradizionale prevede cipolla con carne e aglio con pesce (e anche carne cotta e pesce crudo!..) ma a questo punto interviene il gusto personale.

Un discorso a parte va fatto ricordando che la zuppa di lumache è un tipico piatto "conviviale", intendendo con ciò che è componente importante di cene tra amici. Intorno alla zuppiera fumante a centro tavola i commensali prelevano le lumache e fanno a gara a chi ne mangia di più, i più bravi sono automaticamente premiati! Con qualche tiella di vario tipo ed un bel po’ di vino paesano la cena va avanti per ore e viene da me sempre ricordata con nostalgia. Riporto ora integralmente da N. Magliocca - Usi e costumi del Popolo Gaetano:

ZUPPE DE CIAMMARRÙCHELE - Dopo aver fatto spurgare le lumache per una settimana (si mantengono vive anche alcuni mesi chiuse in contenitori arieggiati) si lavano per bene in acqua semplice e se qualcuna non esce dal guscio si elimina perché è morta. Si immergono una seconda volta in acqua leggermente salata che provoca l'eliminazione di parecchia bava e infine si risciacquano ancora con acqua sino a che risultano perfettamente pulite.

Si rosola una cipolla nell'olio, poi si versano le lumache, si coprono con acqua e si aggiunge il sale. Quando sono quasi cotte si aggiungono pomodori, prezzemolo e peperoncino piccante, e si lascia bollire sino a completa cottura.

Si possono aggiungere anche le patate, oppure con il sugo si condiscono gli spaghetti.

Per togliere facilmente le lumache dal guscio se ne lesiona leggermente il vertice con un colpo di rebbio della forchetta e si aspira dall'apertura.

I contadini ne catturano quante ne possono nei giorni di pioggia e le conservano a migliaia in bigonce chiuse con una rete. È la carne più comune per molti di essi, che dal macellaio possono recarsi a comperarla solo nelle grandi occasioni.

Del resto l'importanza che ha ed ha avuto la chiocciola nell'alimentazione del contadino non è un fatto limitato a Gaeta. Per esempio in un "Bando delli Mastri Giustizieri di Roma sopra le Vindemie - emanato il 19 settembre 1637 - . . si comanda che detti Vindemmiatori, Corbiatori e Mozzatori debbano entrare a vindemmiare la mattina nell'aurora et seguire il lavoro sino alla sera a ore 23 (5 pomeridiane, N.D.A.) e nel partir non possano portar uva di sorte alcuna, né lumache, né frutti contro la volontà del Padrone, sotto pena della partita di detti frutti e tre tratti di corda...".

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Spaghetti con Scuncigli

Oggi per "annà pè scunciglie" si intende generalmente "pomiciare", originariamente e con maggiore proprietà si intendeva invece l'andare da parte del fidanzato ufficiale a casa della promessa, cosa che avveniva sempre in presenza di terzi se non quarti incomodi. I piccioncini stavano sulle spine, e da ciò il riferimento al mollusco (Murice) pieno di spine calcaree. Gli scuncigli si prendono nel nostro golfo o in quanto restano attaccati alle reti o con un osso con brandelli di carne, al quale restano attaccati o anche "sommozzando". Talvolta si trovano assieme alle "Topette" altro mollusco senza spine e di dimensioni maggiori. Gli scuncigli, dopo lavaggio, si mettono sul fuoco per una decina di minuti in una pentola con poca acqua. Si estraggono quindi dalla conchiglia eliminando l'ultima parte verdastra ed amara e, conditi con olio, limone, prezzemolo ed aglio costituiscono un gustoso antipasto. Possono poi essere la base di due sughetti tipici per condire spaghetti. Le due alternative sono quelle ricorrenti anche per altri molluschi, una con l'utilizzo del pomodoro ed una no. Normalmente io preferisco le vongole senza pomodoro, e cozze, scuncigli, parnocchie con pomodoro fresco e con salsa tenuta lenta da una cottura veloce; a questo punto sono in difficoltà perché mi ricordo che anche il sughetto con parnocchie e senza pomodoro è squisito, insomma vedete un po’ voi! Il sughetto si prepara facendo soffriggere aglio, peperoncino fresco ed un po’ di prezzemolo in olio d'oliva, aggiunta degli scuncigli e del pomodoro, cottura per 15-20 minuti ed aggiunta finale di altro prezzemolo tritato. A qualcuno il gusto degli scuncigli può risultare troppo "dolce", si può provvedere ad un misto si scuncigli e cozze. Scuncigli e cozze possono anche essere la base di una zuppetta velocissima che si ottiene usando come liquido l'acqua filtrata dalla cottura delle cozze.

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Alici in tortiera

Si utilizzano per questa ricetta dlle alici fresche possibilmente di taglia grossa, si puliscono e si deliscano, si sciacquano in acqua e limone e si asciugano. A parte si prepara un battuto di aglio e prezzemolo, si dispongono ordinatamente (tutte con la parte interna verso l'alto) in una pirofila e si cospargono con pan grattato, aglio e prezzemolo, qualche foglia di alloro (non eccedere), un po’ di sale, pochissimo peperoncino, succo di limone ed un po’ di olio extravergine. Si forma uno o più strati, si copre e si cucina a fiamma bassa per pochi minuti.

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Polipetti affogati (purpetieglie affucate)

Si prendono dei polipetti di media taglia (100 gr.), preferendo quelli veraci (due file di ventose) ai moscardini (una sola fila) e si puliscono facendo attenzione ad eliminare il "becco" e gli occhi oltre che, naturalmente, le interiora. Si battono poco su di un marmo con un martello di legno e si versano in un tegame in cui, qualche minuto prima, è stato messo dell'aglio pestato, del prezzemolo e del peperoncino. Si possono aggiungere dei pomodorini tondi e/o olive di Gaeta snocciolate. E' proibito aggiungere acqua, " 'u purpetielle s'adda còce inta all'acqua soia " e si deve tenere il coperchio sulla pentola. La cottura è di circa 30 min. I polipetti così cotti in genere si considerano come secondo ma possono fungere anche da primo. Inoltre il liquido di cottura oltre che ottimo con pane raffermo va anche bene per condire spaghetti.

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Polipi in insalata

In questo caso si preferiscono dei polipi del peso di 500 gr. o più, e si puliscono facendo attenzione ad eliminare il "becco" e gli occhi oltre che, naturalmente, le interiora. Si battono su di un marmo con un martello di legno e si versano in una pentola con abbondante acqua (con un po’ di sale) che bolle. Il polipo va immesso tenendolo per la testa ed immergendo a poco a poco i tentatoli, in modo da farli arricciare. Se i polipi da cucinare sono più di uno, attendere che l'acqua riprenda il bollore. Nella pentola c'è la tradizione di mettere un turacciolo di sughero a bollire assieme al polipo, io l' ho sempre messo e non ho mai visto il motivo di cambiare, fate un po’ voi! Far bollire per 30-40 minuti e quindi scolare e tagliare a pezzetti. I deboli di stomaco o le persone più raffinate di me eliminano la pelle esterna, io, non me ne volete, preferisco di no. Si lascia raffreddare e si aggiunge aglio, prezzemolo, succo di limone ed olio extravergine dando una bella mescolata. Il sottoscritto aggiunge anche del peperoncino fresco, ma forse esagera! Il brodo in cui ha cotto il polipo è apprezzato non solo a Napoli (per strada ci sono i venditori di bror' e purpe) ma anche a Padova dove i polipi diventano "Folpi", sono dell'Adriatico e quindi meno saporiti. Se si ha cura di conservarlo può essere usato per un buon risotto.

Surgelazione : **** per i polipi crudi, non consigliabile dopo la preparazione home

Lampacioni

Il lampacione è una pianta (Muscari) estensivamente coltivata in Olanda per i fiori ed in Puglia…più prosaicamente per i bulbi. A Gaeta si trova in natura in primavera ma, se non ha piovuto recentemente o se non si è muniti di un martello pneumatico, è praticamente impossibile raccoglierli. Una nota preliminare: se riuscite a raccoglierli o, comunque, a comprarli attenzione a non strafare in quanto hanno azione lassativa. La pulizia del bulbo si effettua con un coltello sotto acqua corrente in quanto i lampacioni emettono un liquido fastidiosamente appiccicoso. Detto questo i modi di preparazione sono essenzialmente quattro:

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IImpepata di cozze

Fare una buona impepata di cozze è abbastanza laborioso…ma ne vale la pena. La lunghezza da preferire è di quattro-cinque cm e quelle della Scussura o di Monte da Mare sono le migliori, ma talvolta ci dobbiamo anche accontentare di quelle del golfo…o di quelle di allevamento o…di quelle dell'Adriatico. La prima cosa da fare è pulirle bene, eliminando tutte le asperità della superficie ed il filetto che le fissa agli scogli o ai supporti. E poi si lavano, si rilavano e si rilavano. Per eliminare la sabbia (o altro) e' meglio lasciarle per qualche ora in un recipiente con acqua e sale e ancora rimestare e lavare e lavare. Si eliminano in quanto non "abili" quelle che restano a galla ed infine si può pensare a mettere in una pentola dell'olio extravergine, spicchi di aglio e un po’ di prezzemolo tritato. Si mettono le cozze, si copre la pentola e quando cominciano ad aprirsi una bella spolverata di pepe bianco ed una rimestata,qualche altro minuto, un altro po’ di prezzemolo tritato ed il gioco è fatto. Si servono accompagnate dal loro brodetto in cui si inzuppa pane raffermo o freselle

Surgelazione : non consigliabile  home

Sugo di cozze

Dopo aver proceduto alla pulizia indicata per l' Impepata si collocano le cozze in una pentola sena acqua o altro e si lasciano aprire. Si eliminano i gusci e si filtra il liquido fuoriuscito dalle cozze con un panno o carta-filtro, si soffrigge in un pentolino, dell'aglio schiacciato e del peperoncino fresco, si lascia imbiondire e si aggiungono le cozze con pochissima acqua delle stesse. Qualche minuto…un po’ di prezzemolo tritato ed il sughetto è pronto. Per i patiti del pomodoro si mettono dei pomodorini o della salsa. A mio avviso questo sugo deve restare lento e deve cuocere poco, ma c'è anche chi preferisce altrimenti. Spaghetti o linguine al dente

Surgelazione : ***** per le cozze nella loro acqua home

Gratin di Molluschi

Ho qui indicato Molluschi in genere in quanto la preparazione è simile per i vari tipi. A Gaeta si fa quasi esclusivamente il gratin di cozze, altrove è più noto quello di "capesante", la famosa Coquille S. Jaques che in Francia vien preparata anche con besciamella. Molluschi più teneri (vongole, lupini) o più duri (fasolari, scuncigli, topette, cannolicchi) normalmente non vengono prepati con questo sistema. Per le cozze si procede unendo alle stesse dell'aglio e prezzemolo tritati, pan grattato ed un po’ di olio e collocandole nei gusci più grandi o in gusci di pettini (capesante). Velocissima gratinata al forno e via!

Surgelazione : non consigliata, al limite usare cozze precedentemente surgelate home

Scarola imbottita

Scegliere un cespo di scarola (non troppo grande) per persona, lavarla, scolarla, preparare a parte mollica di pane bagnata, Olive snocciolate e sminuzzate, capperi, Acciughe, aglio e un po’ di peperoncino. Amalgamare bene ed inserire questo composto all'interno del cespo e disporre in una pentola bassa. Se c'è il rischio che i vari cespi si muovano in quanto "ballano nella pentola" legare i vari cespi. Cuocere con un po’ di olio a fiamma bassa e pentola coperta, senza aggiunta di acqua che verrà cacciata dalla scarola. La cottura richiede una ventina di minuti. Lo stesso tipo di ripieno può essere utilizzato per farcire altri vegetali: ad es., carciofi, peperoni che si possono cucinare allo stesso modo.

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Fagottini di scarola

Calcolare 400 gr. di scarola, 1 uovo e 50 gr. di parmigiano a persona, sale, pepe, prezzemolo. Far bollire in acqua salata per pochi minuti la scarola, scolarla con cura e disporla distesa su di un canovaccio, tagliando ogni cespo in varie parti. Su di ognuna di queste parti collocare una parte del composto formato dall'uovo sbattuto, dal parmigiano ed il resto. Il composto deve essere piuttosto denso. Aiutandosi con le mani formare vari fagottini, assicurarli con del filo e disporli in una pentola in cui è stata messo un po’ di olio, fettine di cipolla che si lasciano imbiondire e salsa di pomodoro abbastanza liquida in quantità tale da coprire appena i fagottini. Far cuocere a fiamma moderata sino a che la salsa si ritira nella maniera voluta.

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Canascioni

Si usa la pasta base della tiella , si stende abbastanza sottile e si taglia a dischi dello spessore di circa 15 cm. Su una metà del disco si pone… ..prosciutto e mozzarella, ricotta e mortadella; cozze, olive,acciughe, aglio, prezzemolo e pomodoro;…..formaggio ed uova etc etc etc. Si chiude il canascione per bene formando una mezza luna e si frigge in olio abbondante (devono galleggiare!) rivoltandoli una sola volta e mettendoli poi su di uno scottex.

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Lasagne del Sud

Normalmente nel Sud Italia la besciamella, introdotta in tempi recenti, non viene usata. In questa ricetta di lasagne, dovuta a mia zia, si usa in sua vece ricotta allentata con un po’ di latte.

Con 200 gr. di carne trita, mollica di pane bagnata, prezzemolo, aglio e noce moscata si preparano delle polpettine (2-3 cm di diametro). Si cuociono le lasagne (500 gr) (attenzione che non attacchino, qualche goccia di olio nell'acqua) a metà cottura e si mettono da parte, si mette nella teglia sugo di pomodoro abbastanza lento, poi uno strato di lasagne su cui si collocano polpettine, pezzetti di mozzarella (200 gr), ricotta (200 gr)diluita nel latte (1/2 bicchiere), salsa di pomodoro e così via. Sull'ultimo strato anche un uovo battuto ed un po’ di parmigiano per formare una crosticina. Forno medio per 30-40 minuti.

In tempi in cui il colesterolo non era conosciuto si metteva anche salame, prosciutto etc; nel nord si usa essenzialmente besciamella e sugo con carne trita o anche besciamella e funghi o, addirittura besciamella e sugo di pesce con molluschi. Alcuni preferiscono mettere le lasagne crude, in tal caso il sugo deve essere molto diluito ed abbondante.

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Le Pigne

I dolci caratteristici di Pasqua a Gaeta sono ora  Tortane e Pastiera , un tempo per i bambini venivano preparati ad hoc "le Pigne", campanare, aucieglie e femmene priene. Erano dei dolcetti preparati con la pasta del Tortane (allora non esistevano i prodotti a lievitazione rapida e la pasta era più soda) ed a cui si dava la forma di un galletto per i maschietti e di una donna per le femminucce. Sul dolce così sagomato si poneva un uovo con delle striscioline della stessa pasta per non farlo muovere. Si faceva cuocere in forno e si distribuivano ai bambini la mattina del sabato santo, immaginate con che gioia. I bambini cantavano "Alléluie, Alléluie, gliu verme da la pigna se ne fuie" (Alleluia,Alleluia, il verme del dolce scappa via) ed era un rincorrersi gioioso per i vari vicoli. Oggi non resta che il ricordo, ma perché non riprendere questa tradizione?

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Baccalà alla brace

Non tutti forse sanno che il baccalà è ottimo anche alla brace (in effetti alla brace è buono praticamente tutto), ma il baccalà cotto in questa maniera non mi sembra sia da noi in uso; in Portogallo ed a ragione ne vanno pazzi. Bisogna utilizzare un bel pezzo di baccalà già spugnato (parte centrale, spessa almeno due cm e senza spine), senza preparazione alcuna ( a parte l'asciugatura) si pone sulla griglia e si cucina dalle due parti. Si serve subito con aglio (non quanto ne usano in Portogallo), olio e prezzemolo, è una vera bontà. A proposito di griglia oltre che le varie carni sono da provare melanzane, zucchine, dei peperoni ne parliamo a parte, ma anche carciofi e l'ottimo radicchio trevigiano e l'insalata romana. Nel caso delle insalate, a differenza delle verdure non a foglia, è d'obbligo preparare in un piatto olio con aceto ed un po’ di sale, altrimenti si brucia.

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Parmigiana

Quando si parla di parmigiana si intende quasi sempre quella di melanzane; è possibile eseguirla anche con le zucchine e quest'ultima ha gusto più leggero. Sono buonissime tutte e due! Si elimina alle melanzane (non alle zucchine) la buccia e si tagliano a fettine di circa 1/2 cm nel senso della lunghezza. Si salano e si fanno riposare in un recipiente bucherellato con un peso per far loro perdere l'acqua amara di vegetazione. Si asciugano, si passano nella farina e poi nell'uovo battuto e si friggono dai due lati. Si pongono su scottex sino a raggiungere la quantità desiderata. Si pongono quindi in una pirofila a strati con abbondante parmigiano, (pezzetti di mozzarella, è una variante non ortodossa ma da molti graditissima) e salsa di pomodoro. Sull'ultimo strato si può spalmare uovo battuto per indorare la superficie. E' ottima calda e fredda (più compatta), a mezzogiorno e sera, come primo o secondo….insomma sempre. Per la frittura c'è chi preferisce usare solo farina o nemmeno quella. Vanno bene tutte.

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Càse marzuline

E' uno dei pochi formaggi delle nostre parti che diventa sempre più raro. Una volta dalla vicina Itri alcune venditrici passavano di casa in casa offrendo caciottelle, case marzuline e cosce di rana. E' un formaggio derivato da latte di capra cagliato in forma di cilindretti (simili ai "caprini di puro latte vaccino" che si trovano in commercio ovunque) e quindi leggermente seccati, cosparsi di "pimpinella" che non è la pianta che in italiano assume detto nome ma il timo a capolino o teucra, una specie di timo che si trova solo in alcune delle nostre colline (Belvedere, Monte Lauro, Monte Cefalo) ed ha foglioline piccolissime che seccate assumono un aroma spiccatissimo e del tutto particolare. Il formaggino ( o caciottella) viene poi conservato sott'olio, come i tomini piemontesi. Non è necessario che l'olio sia extravergine in quanto serve solo come "conservante" e, dopo l'utilizzo dei formaggini, va eliminato. Buoni risultati si ottengono anche con formaggi tipo pecorino e ricotte salate; le caciottelle fresche sono ottime anche come base per tielle. Un'alternativa alla "pimpinella" dal gusto più leggero, indicata per formaggini più freschi ed anche ricottine è fornita dalla santoreggia (Satureja Montana), pianta calciofila che si trova sugli Aurunci (Redentore, Petrella) e che va benissimo anche con legumi, in particolare fagioli, per i suoi notevoli poteri….antidetonanti.

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Pinzimonio

E' una modo semplicissimo per gustare "cruditès" ed in particolare finocchi, sedano, carciofi, carote, rapanelli, peperoni, cipollotti, cepecce etc. L'etimologia deriva da "pinzare", afferrare.E' composto da olio, sale e pepe; messi in coppette in cui ogni commensale intinge a piacimento le verdure. A Roma viene chiamato "cazzimperio" che non so etimologicamente da dove derivi, so invece per inciso che il verbo "infinocchiare" deriva dall'usanza che avevano gli osti romani di servire col vino…scadente dei finocchi, che hanno la proprietà di camuffarlo e di migliorarne il gusto.

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Frittata di asparagi

Da noi sono pochissimo usati gli asparagi coltivati e molto apprezzati quelli selvatici che si raccolgono da fine dicembre ad inizio marzo. Non hanno niente a che vedere con quelli che talvolta si chiamano nel Nord Italia "asparagi selvatici" che altro non sono che i getti del luppolo (Humulus Luppolus) quasi inesistente sul mare e presente sulle nostre colline nelle zone più boscose, in alternativa noi possiamo utilizzare la vitalba (è pianta frequentissima ma poco nota), allo stesso modo. Ma i nostri asparagi sono…n'ata cosa. Viste le dimensioni molto più piccole ed il sapore più marcato di quello dei pronipoti coltivati, gli asparagi venivano essenzialmente usati nelle frittate, dopo sbollentatura. Oggi, oltre che frittate (non diamo la ricetta in quanto banalmente semplice) vengono usati anche in risotti o, sminuzzati ed aggiunti ad aglio in una sughetto per una spaghettata diversa. Si possono conservare sott'olio ma le raccolte normalmente non sono così cospicue da permetterlo, si riserva questa "sorte" a quelli coltivati.

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Limoncello

Da qualche anno ha avuto un boom incredibile e lo si trova un po’ ovunque, da Sorrento (dove pare abbia avuto origine) a Bolzano (dove viene "importato" a complemento della birra !) ed alla quantità ha fatto seguito un decadimento della qualità. Fare il limoncello è semplice: basta avere degli amici che ti forniscono i limoni non trattati e il gioco è fatto. I limoni vanno raccolti da noi non prima di fine novembre e non oltre fine febbraio, prima sono troppo verdi ed aspri, dopo il limoncello perde un po’ del suo aroma caratteristico. La ricetta base prevede eguali quantità di acqua, alcool a 95° e zucchero (500 cc, 500cc e 500gr) ma personalmente aumento l'acqua del 10-20 % (550-600 cc) e dimezzo lo zucchero (250 gr). Per quanto sopra la buccia di 4-5 limoni, pelata con un coltello affilatissimo o sbucciapatate (non deve avere il bianco). Si mettono in infusione le bucce in alcool per 7-10 gg., aumentare troppo il tempo fa acquistare un gusto diverso, ed a parte si fa sciogliere a caldo lo zucchero nell'acqua. Si fa raffreddare, si unisce all'infusione e si filtra con carta-filtro (io uso quella con cui gli alemanni preparano il caffè), si imbottiglia e, se si riesce, si nasconde il tutto per almeno 30gg. Ho provato anche la preparazione a freddo con e senza foglie di limone: ha forse il vantaggio di risultare limpida , ma il sapore è completamente diverso e per me peggiore. Molto buono e poco noto è un liquore simile al limoncello fatto con le bucce dei cetrangoli, più noti quelli con mandarini, arance o mischiotto di vari agrumi. Stesse dosi e preparazione. Si trovano anche liquori fatti con aggiunta di latte "crema di limoncello" e così via, che maggiormente incontrano il gusto femminile.

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Riso e cappuccia

Da noi il cavolo-verza si chiama "cappuccia" e, tra l'altro viene utilizzato per questo primo. Vi sono vari modi di prepararlo; quello più "leggero" consiste nel mettere a bollire in acqua salata alcune foglie di verza tagliate a striscioline con aggiunta facoltativa di cipolla; dopo 5 minuti si aggiunge il riso e si lascia così cuocere per 20 minuti. Si spegne e si aggiunge parmigiano e burro, lasciando mantecare per qualche minuto. I tempi sono naturalmente approssimativi, dipende se si vuole la verza più o meno "pureizzata". Esistono però altri sistemi: riso cotto a parte ed aggiunto (ma non si sfrutta la qualità del riso di assorbire gli aromi all'interno del chicco, oppure verze cotte a parte ed aggiunte ad un soffritto di cipolla (con aggiunta di pancetta) e poi riso e successiva cottura tipo risotto oppure minestra di riso. Io trovo il primo sistema più semplice e digeribile e lo utilizzo anche con l'acqua di cottura degli spinaci ( che contiene la maggior parte dei sali e dei minerali che pretendiamo di ingerire e che invece buttiamo via)

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Fichi e Sciuscelle

Fichi e sciuscelle entrano di diritto nella tradizione dei dolci gaetani, non c'e bisogno di ricette. D'altronde anche il nome della vulva, volgarizzato così sin dal 1300, deriva da questo frutto, ad indicare qualcosa di eccellente ed il termine, entrato nel vocabolario corrente dagli anni 70 "fico" o "figo" sta ad indicare un giovane attraente, interessante, "bòno". Il termine "sfigato" anch'esso ormai di uso corrente con l'uso della privativa, e cioè "senza ……" indica chi è perseguitato dalla mala sorte. In Grecia fico si chiama sukon e, anche ..quella cosa là; evidentemente anche i Greci, a parte qualche amoruccio per efebi callipigi, la apprezzavano particolarmente. Pensate poi da dove deriva la parola "zucchero" e forse la dialettale "sucare" ditemi se c'è altro da aggiungere.

I fichi: freschi, marmellate, crostate e poi….secchi. Sono ad esempio menzionati nei "sciuscie", ritornello che, con strumenti "sui generis" viene portato di casa in casa la notte di S. Silvestro. E' interessante la maniera cilentana di preparazione: Si riempie l'interno dei fichi secchi ( loro fanno anche un lavaggio in acqua di mare ed asciugatura in forno) con gherigli di noce, mandorle, canditi, si richiude e si bagna in cioccolato fondente. Ed anche per mal di gola e raffreddori: un buon decotto con camomilla, miele e fichi secchi e…tutto passa!

Le carrube (sullécchele o sciuscelle) hanno , a parte gli equini, chi le apprezza molto anche tra di noi. Sono particolarmente astringenti e perciò utilizzate anche attualmente in farmacia. Il macinato dei semi si usa come addensante in gelateria, nella vicina Itri v'è ancora un notevole commercio. Si può innovare qualche ricetta di torte aggiungendo alla farina una parte di farina di carrube (senza semi e sminuzzate nel frullature, in quanto non si trova facilmente).

Ed ora non mi resta che approfittare ancora una volta di quanto scritto da N. Magliocca nel suo splendido libro " Usi e Costumi del Popolo Gaetano" che prendo integralmente in prestito.

IL FICO

Sin dai tempi più remoti, il fico ha avuto una grandissima importanza nell'economia e nell'alimentazione in tutti i paesi mediterranei.

Uno dei più antichi documenti che ce lo ricorda è una cretula di argilla del XV sec. a.C. custodita nel Museo Archeologico di La Canèa sulla quale in caratteri lineari A', è incisa una registrazione di fichi e vino.

Le cretule erano dei sigilli applicati sull'orlo, sul coperchio e sul collo di vasi, panieri e anfore, mentre l'argilla era ancora molle. Ne sono state trovate in Egitto, a Creta, nell'Anatolia, sino alla Mesopotamia e alla Valle dell'Indo.

Il fico è senza dubbio il frutto più prezioso per l'uomo, menzionato spesso nella Bibbia a cominciare dalla Genesi (3,7) quando, dopo il peccato originale, Adamo ed Eva "s'avvidero che erano nudi, quindi, cucite insieme delle foglie di fico, se ne fecero delle cinture".

Il libro dei Numeri (13,23) riporta che Mosè manda gli esploratori nella Terra Promessa ed essi tornano con un grappolo d'uva, delle melagrane e "dei fichi".

Ne parla anche il Vangelo di Matteo nel "Fico maledetto" (21, 18), quando Gesù, volendo acquietare la fame, si avvicina a un fico che cresce lungo la strada, ma non trova altro che foglie e lo maledice. La delusione di Gesù è naturale poiché in Palestina i fichi producono frutti per dieci mesi l'anno, ed è quindi raro che non se ne trovi qualcuno rimasto o primaticcio.

Nella letteratura lo troviamo legato al nome di personaggi famosi,Omero ne parla nell'Odissea in diversi punti; nell'episodio di Laerte, Canto XXIV, verso 308:
 
 

"Arbor non v'ha, non fico, vite, oliva

che l'abil mano del cultor non mostri..."

e al verso 430:

"Tredici peri a me donasti, e dieci

meli, e fichi quaranta, e promettesti

ben cinquanta filari anco di viti..."

 E ancora nell'Odissea, nell'episodio di Tantalo, canto XI, verso 548:

"Piante superbe, il melograno, il pero,

e di lucide poma il melo adorno,

e il dolce fico, e la canuta oliva...

Budda (622-542 a.C.) ricevette la "illuminazione" mentre era seduto sotto un fico chiamato Bo. Quest'albero non esiste più, ma esiste in Ceylon un albero venerato dai buddisti, i quali ritengono che esso sia cresciuto da un ramo dell'originale Bo.

In Grecia, nel giuramento che di un giovane faceva un cittadino, si chiamavano a testimonianza "gli dei, i confini della Patria, il grano, l'orzo, le viti, i fichi, gli olivi", ovvero gli alimenti fondamentali tra i quali il fico. Sempre in Grecia, come dolci si offrivano i fichi secchi.

E a Roma? La cesta con Romolo e Remo, abbandonata sulle sponde del Tevere, si arenò presso un fico, ai piedi del Germalo, il ficus ruminalis. Nel mese di settembre i Romani si riunivano attorno a questo fico e facevano grandi scorpacciate di fichi e cacio.

Nel Foro, il cuore della vita romana, esisteva il fico sacro di Romolo, venerato sino ai tardi giorni dell'impero.

Durante la repubblica romana, i soldati erano sottoposti a severa disciplina; facevano marce giornaliere anche di 40 chilometri, e venivano nutriti con sostanze ricche di zuccheri, legumi e fichi secchi. E Catone, quando vuole convincere il senato che "Carthago delenda est ", per dimostrare il pericolo che corre Roma per la vicinanza della città rivale, si presenta con dei fichi colti nel litorale cartaginese ed ancora freschi.

Santa Rita, gravemente malata, chiede a una parente di portarle un fico e una rosa. E benché fosse gennaio, incredula la parente esce nell'orto e sui rami spogli delle piante trova una rosa e due fichi.
 
 

Le qualità dei fichi
 
 

Anche a Gaeta la coltura del fico è stata ed è assai diffusa. Se ne vedono dappertutto, sinanche in luoghi pubblici come piazza Mare all'Arco, piazza Cantiere, salita Campo.

Esistono diverse qualità di fichi, che maturano in un ampio lasso di tempo:

maggiaiole: i primi che maturano a maggio, dentro rossi, verdastri fuori;

cugliùmmeglie:i grandi maturano a giugno, sono i fioroni (figliune) e i piccoli in agosto-settembre, neri fuori rossi dentro, è  il fico colombo, dal greco corimbos;

pènte: precoci insieme ai cugliummeglie, neri fuori, dentro rossastri;

pappacone: maturano a giugno, verdastri fuori come il fico di gènie;

uttale: maturano a giugno i grandi, e i piccoli in agosto-settembre, vicino ad una foglia. Bianchi fuori e rosati dentro, buccia spessa, saporiti, secchi sono i migliori. A Pontone e 5. Angelo, dove il terreno è asciutto, se ne producono di ottima qualità: è il fico dottato in Toscana;

signore: a giugno maturano i figliune, quelli grandi; a fine agosto i piccoli e durano sino a settembre inoltrato. Sono neri fuori e rosa dentro;

penne: somigliano ai fichi di gènie, poco più grandi, e con la buccia assai delicata; maturano a fine agosto e a settem-bre,

turiale o turriane: maturano tra agosto e settembre; verdi fuori, rossastri dentro;

zetelle: forma allungata; verdi fuori e rossi nell'interno; matu-rano tra agosto e settembre;

de gènie: maturano a settembre-ottobre; fuori sono verdi e rossi dentro;

de vierne: somigliano ai fichi signore; incominciano a maturare a settembre e durano sino ai primi di dicembre.

 Per favorire la maturazione di certi fichi, il contadino ricorre alla pratica di mprufecà, consistente nell'appendere alle chiome dei fichi domestici i fioroni del caprifico. Da questi escono i moscerini, blastophaga psenes, sviluppati nell'interno, penetrano nei fichi attraverso l'ostiolo e, favorendone l'impollinazione, ne accelerano la maturazione. Detta pratica è la caprificazione.

 I fichi secchi

 I fichi si mangiano freschi, ma in gran parte vengono seccati. Ogni contadino ne coltiva un certo numero di alberi, proporzionato ai bisogni della famiglia. Non richiedono molta cura al di là di qualche zappatura, un po' di concime naturale e qualche sfoltimento dei rami superflui.

I frutti rimasti sull'albero appassiscono, sono i caracuzze; se non cadono sul letto di paglia sottostante, il contadino li coglie e li espone al sole, disposti su graticci (le rate), contenitori rettangolari di un metro per 50 centimetri circa, con le sponde di legno alte 7-8 cm. e il fondo di cannucce intrecciate con funicelle di saracchio su tre traversine.

Ogni contadino ne possiede una cinquantina almeno. Il giorno li espone al sole e la sera, prima del tramonto, li rientra. Durante il giorno ha cura di rimuoverli perché secchino bene e da ogni parte.

Arrivati al punto giusto, sono buoni da mangiare, più zuccherini di quelli freschi. Ma i seviglie, così vengono chiamati, si passano al forno, che non manca mai a lato della càmmere e a casa.

E poi di nuovo al sole, sparsi su stuoie di saracchio, mentre le rate sono impegnate per altri caracuzze. Con questo trattamento i fichi secchi non si bacano, si conservano sinceri e a lungo. Il contadino ne secca alcuni quintali, i più buoni si ottengono dai fichi dottati.

Li conserva, frammisti a tante foglie di alloro, in grosse ceste o meglio in casse di legno. Con i più belli e più grossi prepara i cànnegIie e la pettiglie.

Cànneglie e pettiglie

Il cànneglie si ottiene da un pezzo di canna tra le più grosse, lungo due palmi, nel quale, su una impugnatura, si intagliano quattro lunghi rebbi. In questi rebbi, uno alla volta, si infilano i fichi dalla parte del picciolo. In ultimo si infila il più grosso in tutti e quattro i rebbi.

La pettiglie si ottiene infilando prima un fico a un piccolo pezzo di struglie (lo stelo dell'infiorescenza del saracchio), che lo unisce ad altri due fichi; poi un altro pezzo di struglie unisce tre altri fichi ai precedenti due, in modo che i fichi di una fila si alternano a quelli della fila precedente. Si continua infilando un terzo pezzo di struglie che unisce quattro fichi ai precedenti tre, e così via con cinque, sei, sette fichi, sino ad ottenere una infilata a forma di triangolo isoscele della grandezza desiderata.

Cànneglie e pettiglie sono destinati ai regali: "Ognuno è amico di chi ha buon fico" (dai proverbi di Giusti). Si fa bella figura regalare fichi secchi confezionati in questo modo. La parte rimasta sciolta, 3-4 quintali, chiusa nelle casse, è riservata per il consumo ordinario della famiglia.

Prima di chiudere le casse, i fichi secchi si pressano ponendoci sopra una tavola e su questa ci saltano, di solito i ragazzi che ci si divertono, sino a raggiungere una giusta compressione.

Là riposano e si impregnano dell'odore di alloro sino al giorno dei morti (2 novembre): nessuno osa toccarli prima, è categoricamente vietato. La mamma fa buona guardia perché i piccoli non rompano la consegna.

Giunto quel giorno, apre la cassa e rimuove i fichi che si presentano ricoperti da un velo bianco zuccherino e profumati dal delicato odore dell' alloro.

Che significato si deve attribuire al giorno dei morti?

In ogni latitudine si crede che dalla morte nasce la vita. Un significato simbolico che ancora resiste quando si brucia il fantoccio del carnevale o dell'anno vecchio. Ma per i fichi secchi ha un significato pratico; la provvista deve bastare tutto l'inverno, quando la natura riposa e la terra non dà frutti. Non è permesso intaccare la provvista prima che ce ne sia bisogno, quando sono disponibili altri prodotti freschi e non è venuto ancora il tempo in cui "una castagna vale un carrine (carlino)".

Il 2 novembre è un punto di riferimento: "sino ai Morti e sino ai Santi, bene o male si va avanti".

Quel giorno la casa è inondata dall' odore del lauro e una manata di fichi secchi non si nega a nessuno. Se ne regalano agli amici, ai vicini e soprattutto ai bisognosi, che non hanno la fortuna di trovarsi in casa tutto quel ben di Dio. E una consuetudine cui nessuno si sottrae e si compie a suffragio delle anime dei propri trapassati. "T' ha date glie muorte?" (Ti ha dato i morti?) si domanda a chi si vede uscire dalla casa di un contadino.

Però chi ha la fortuna di averne, non fa sciacquà Rosa e vive Agnese, non va all'arrembaggio. Ed è sempre la massaia a tenerli ben guardati e a distribuirli con giudizio e misura. Lasciarli alla mercé dei ragazzi, che ne sono golosi, significherebbe non farli durare neppure sino a Natale, quando nel caniste è consuetudine mettere i più belli e saporiti, infilati nei cànneglie, e se ne regalano ad amici e parenti e a chi si è obbligati per favori ricevuti.

Durante l'invernata, i ragazzi li mangiano a colazione col pane, ricchi di zucchero naturale che non ha subito alcuna manipolazione "pane e fiche, fiche e pane, càmpene tutte glie crestiane", (pane e fichi, fichi e pane, campano tutti i cristiani) e quando hanno la tosse, gliela curano con un decotto al lauro e alla mandorla con l'aggiunta di qualche fico secco.

"Devono bastare sino alle Virtù - dice la mamma - altrimenti l'asino morde".

Le Virtù cadono il primo maggio, quando ormai l'inverno è alle spalle un pezzo, la natura è nel pieno rigoglio e già sono pronti i primi frutti. Il timore di rimanere senza provviste è passato e tra qualche settimana matureranno i fichi maggiarole.

L'importanza dei fichi secchi nell'alimentazione umana non è fatto soltanto locale, è una questione antica, riguardante anche gli altri paesi mediterranei produttori.

In un cahier de doleance di un villaggio provenzale in Francia, il 22 marzo 1789 - alcuni mesi prima che scoppiasse la rivoluzione - fu scritta una protesta degli abitanti di Cabris perché pagavano al signore il decimo del grano, il quattordicesimo dei legumi, il ventesimo sui vini e sui fichi.

Come si vede, i fichi sono considerati, anche in questo caso, alla pari degli altri prodotti di primaria importanza.

Nell'antica Grecia, era proibito esportare i fichi secchi. Colui che denunciava gli esportatori clandestini di fichi e altri generi alimentari era detto sicofante (da sycon fico e phàinein mostrare).

Durante la repubblica, "il solerte agricoltore latino si coltivò, fin dal più antico tempo, farro, orzo e, solo più tardi, frumento; degli alberi da frutto il fico; gli fu nota la vite". (Giannelli. Repubblica Romana, Vallardi p. 21).

E ancora: "Notevole era anche il consumo dei legumi, soprattutto fave, lenticchie, lupini e ceci, come pure di alcune gigliacee, come cipolla e aglio. Il frutto piu antico, prodotto in grande quantità e a poco costo, fu il fico" (Enciclopedia Curcio, Voi. IV, p. 56).
 
 

La ninna nanna del fico
La prova lampante dell'importanza che si dà al fico è evidente in una ninna nanna che non ho trovato simile nè in Pitré, nè in Molin aro del Chiaro, nè in Finamore e neppure nei paesi del Circondario: Formi a, Itri, Minturno, Spigno. E' una ninna nanna da ritenersi, dunque, originaria di Gaeta, uscita dalla classe contadina, quella appunto che si cura del fico, che possiede un quadrupede, che ha una stalla.
 

Fatte la sonne, peru mie defiche,

ca mò mamme t 'accatte nu cavaglie

e te glie spenne trentasei ducate,

piglie luflene e puérteglie alla stalle.

 

(Fai la nanna, albero mio di fichi,
che ora mamma ti compera un cavallo
e te li spende trentasei ducati,
prendi il fieno e portalo alla stalla.)

 

La mamma che culla il suo bimbo non lo chiama angelo mio, e neppure tesoro mio, bene mio, amore mio, anima mia e così di seguito. Niente di tutto questo. Nel suo bambino vede qualche cosa di più bello, di più prezioso; per la madre non c'è termine di paragone adatto. Cerca qualcosa che li supera tutti insieme, l'angelo, l'amore, il tesoro, ecc... e non trova che "albero mio di fichi".
 
 

IL CARRUBO

Nonostante siano stati abbattuti tantissimi carrubi, insieme con gli ulivi, per far posto alla vite, ce ne restano molti ancora sulle coste, dove altre colture avrebbero vita grama. Ma con il carrubo convivono benissimo nespoli, sorbi, mandorli, tanti fichi e il contadino ci produce, per il consumo della famiglia, anche lenticchie, cicerchie e farro che mangia bollito, oppure lo mischia macinato con la farina di frumento per ricavarci il pane.

Il carrubo è una pianta sempreverde, robusta, longeva, generosa, che non richiede cure particolari; è capace di trovare spazio sufficiente per le sue radici anche tra le screpolature delle rocce. Il contadino gli riserva una sola zappatura intorno a Natale. Questa è sufficiente, come pure è sufficiente dare una sola volta il concime naturale. Ma se lo ritiene opportuno, zappa una seconda volta a marzo.

Il raccolto si effettua in agosto, mediante abbacchiatura con una canna per i rami alti o con lo scotimento manuale per i più bassi. Trasportate in sacchi a dorso d'asino, le carrube (sullécchele, dal latino sui qua) vengono ammucchiate in locali asciutti. In massima parte vengono subito esportate con la mediazione dei sensali, i quali le accaparrano per cederle ai commercianti all' ingrosso, che le trasportano via con carri o per ferrovia, o per mare, secondo la destinazione.

Quel tanto per il fabbisogno proprio, il contadino lo trattiene per l'asino e per il maiale, avendo cura di conservarle in ambiente asciutto, di solito la soffitta (pennate).

Le migliori le mette da parte per la famiglia: sono quelle fosche ricche di polpa, morbide e zuccherine; passate al forno, di tanto in tanto, si mangiano osi regalano. Quelle prodotte a S. Agostino sono tra le migliori.

Un'altra buona qualità, dopo le fosche, è la frangese; vengono poi le spinose e le native, dette così queste ultime perché prodotte dalla pianta venuta su dal seme (nannanieglie) e rimasta tale, così come è nata, senza essere innestata (nzertate).

Concluso il raccolto, il contadino permette, a chiunque lo voglia, di accedere nella sua proprietà e prendere le carrube rimaste qua e là, tra le erbe e le pietre, invece di lasciarle marcire. Sono i frutti di scarto chiamati scupizze.

Ne approfittano in molti, anche provenienti dalla vicina Formia, che quotidianamente ripassano palmo a palmo il carrubeto recuperando sino all'ultimo scupizze. Il bottino lo destinano ai propri animali chi li ha, oppure lo vanno a vendere al sciuscellare (da sciuscelle altro nome della carruba) il commerciante dal quale vetturini e carrettieri comprano la biada, la crusca e le carrube per i propri cavalli.

Il legno del carrubo è molto duro. Per falegnameria non si presta e neppure per grosse costruzioni navali. Viene adoperato invece per l'ossatura di piccole imbarcazioni, per bozzelli e piccoli gomiti di rinforzo nei lavori di carpenteria.

Le Vertù

Il 1° Maggio, quando la festa dei lavoratori non era stata ancora "inventata", per festeggiare nei vari rioni l'avvento della bella stagione si faceva una festa che, originariamente pagana, era dedicata alla Madonna. Si preparava una zuppa più elaborata della classica "bàina de fasuglie". Il giorno era un giorno simbolico in quanto le provviste invernali (ad esempio fichi secchi) dovevano durare almeno fino a tale data in quanto nuovi fichi freschi sarebbero presto stati disponibili. Le virtù erano quelle attribuite alla Madonna, si sa sono sette (me le sono scordate tutte! Aiuto!) ed almeno altrettante dovevano essere le varietà dei legumi componenti la zuppa del quartiere: fave, lenticchie, ceci, cicerchie, piselli, fagioli 1, fagioli 2. I fagioli infatti sopperivano con la molteplicità dei tipi alla mancanza di qualche legume. Chi non portava legumi portava i "cumprimenti", lardo, salcicce etc Ho trovato nelle Cinque Terre un piatto simile di vecchia tradizione: La Mesciua: mescolanza di ceci, fagioli cannellini e frumento, oggi ci pensa la televisione ad ammannirci Zuppe del Fattore, del Contadino, di nonna Papera e così via ! Non molto usato da noi era grano, farro od orzo.

Surgelazione: *** home

Lenticchie

Altro legume molto utilizzato in cucine di vari paesi, o in zuppa o con la pasta o come contorno (classiche quelle con lo zampone), di tipi, colori e dimensioni diverse. Da quelle di Castelluccio a quelle di Ventotene (isola nostrana che a settembre fa anche una sagra delle lenticchie), a quelle rosse del Nilo, regine assieme alle fave della cucina egiziana, ma usatissime giornalmente anche nelle jorbe (zuppe) turche con succo di limone.

Da noi, come dicevo, pasta e lenticchie (usata moltissimo) più o meno elaborata con lardo, pancetta etc o semplicissima e zuppa, almeno per quanto mi risulta.
Surgelazione:**** home


IL SOFFRITTO

Il soffritto è un altro nome prestigioso della cucina partenopea. Per averlo perfetto e gustarlo pienamente bisognerebbe scovare una osteria di paese nei dintorni della città, o certe trattorie dei vicoli più popolari che ne hanno la specialità. Bisognerebbe mangiarlo, accompagnato da un robusto vino rosso, per esempio del Monte di Procida, che a tratti neutralizzi l'ardore del peperoncino rosso. E' un piatto da intenditori e da forti mangiatori, violento come una frustata. E quei pezzetti di carne, ora morbidi, ora callosi o cartilaginosi, rivestiti di ragù e accompagnati dal pane intriso, quel forte che vi avvampa la fronte, vi sottopongono a una volontaria tortura che però, tanto vi delizia che pur avendo bocca e stomaco in fiamme, non vi arrendete e continuate a mangiare.

Quando non avevamo il pomodoro e nemmeno i peperoni, il "zuffritto","saporiglio ", o " tosciano ", noto con questi tre nomi, si mangiava ovviamente privo del suo fiammante colore e, solo parzialmente colorato e ravvivato dallo zafferano.

Ulisse Prota Giurleo riporta le voci che davano i garzoni sulle soglie delle taverne (fra le quali quella celebratissima del Cerriglio, la taverna napoletana per eccellenza), desunte da una commedia di Pietro Signorelli: " currite cannaruti, ca mo' è proprio l'accuppatura de lo tosciano. E' cuotto, è cuotto, e tengo pure na veppetella d'amarena che co l'addore te rezorzeta no muorto; currite 'mbreacune, a sei trise (tornesi) la carrafa e tengo la mangiaguerra pure a dole trise ".

In più, l'inesauribile Giurleo, ha scovato sul retro di uno strumento notarile del 1743, una ricetta manoscritta del tosciano, munita perfino dice lui - di Regio Placet. Eccola copiata pari pari, così come l'aveva annotata il notaio settecentesco: " Prendi un polmone di porco, taglialo a pezzetti e mettilo in una cassarola a zoffriggere con inzogna abbondante, e se ti piace un senso d'aglio e qualche fronna di lauro. Quando s'è ben soffritto aggiungi un paio di cucchiaiate di conserva di peparoli rossi dolci, per darli un bel colore, e cerasielli in polvere quanti ne vuoi, per darli il forte, aggiungendovi una competente quantità d'acqua col sale o di brodo, e continua a far cuocere tutto a fuoco lento. Se dapprincipio non ci hai posto le fronne di lauro e vuoi darli sapore, mettici a questo punto un mazzetto di erbe aromatiche, cioè rosmarina, salvia, lauro, majorana e peperna.

Da " il Fuidoro" Anno IV Gennaio-Giugno 1957 Ulisse Prota Giurleo: Glossario della commedia dialettale di Pietro Paolo Signorelli " L'innamorato balordo

Quando vuoi servirlo, togli dette erbe e spargilo fumante nei piatti,sopra croste di pane. Placet Etiam Regiae Majestati ". E azzarda anche l'ipotesi, il Prota Giurleo, che la ricetta abbia potuto esser stata dettata da Annella, una famosa tavernara di Porta Capuana, il cui locale era frequentato dai legali. A questo punto non ci resterebbe da aggiunger parola, tanto l'esecuzione settecentesca del soffritto è simile alla nostra, se non vi mancasse il pomodoro allora poco noto e poco usato, e se non si dovessero precisare le dosi e chiarire che è stato forse per brevità, che il nostro notaio ha omesso di citare insieme al polmone, gli altri elementi che formano l'intero " càpeto " necessario a preparare il soffritto e cioè, trachea, cuore e milza.

Ricetta:Zuppa di soffritto di maiale

Soffritto di maiale, ossia polmone,trachea, cuore e milza . . . . kg. 1,800

Concentrato di pomodoro . . gr. 200 più conserva di pomodoro gr. 30 oppure

Solo concentrato gr. 300, Olio un cucchiaio Sugna gr. 100 Peperoncino forte un pezzetto

Foglia di lauro n. 1 Rosmarino un rametto Sale q. b. Vino rosso secco 1/2 bicchiere

Lavate il soffritto, tagliatelo a piccoli pezzi di 2 cm. e tenetelo per un paio d'ore in acqua fresca - che cambierete ogni tanto - fino a che non appaia più arrossata di sangue. Sgocciolate allora e asciugate accuratamente tutti i pezzetti di carne. In una pentola capace e larga di fondo, fate riscaldare la sugna e l'olio e poi gettatevi il soffritto che farete rosolare a fuoco vivace. Quando non vi sarà più traccia di liquido e la carne sarà leggermente colorita, aggiungete il vino che lascerete evaporare, e poi la conserva (diluita in una tazzina d'acqua), il concentrato, il lauro, il rosmarino, il peperoncino e il sale. Abbassate il fuoco, lasciate cuocere per 4 o 5 minuti e infine, versatevi qualche ramaiolo d'acqua. La cottura deve durare un paio d'ore. Il sugo non dovrà essere troppo denso e quindi aggiungerete se necessario, altra acqua. Preparate parecchie fettine di pane biscottato al forno: ogni commensale ne metterà due o tre nel proprio piatto ricoprendole poi di soffritto ben caldo e di sugo.

Variante:Dimezzare la dose del concentrato e supplire con gr. 150 di conserva di peperoni rossi dolci. home

LA MINESTRA MARITATA

La minestra maritata o " pignatto grasso " è importante perché prima di essere spodestata dai maccheroni, era il piatto nazionale (quando la nazione era il Regno dei Borboni) per eccellenza. A Gaeta era piatto tradizionale di S.Stefano (26 dicembre) ed era quanto ci voleva…dopo la mangiata di Natale!!!! Alcuni, oltre che "Minestra Maritata" la chiamano perciò anche "Minestra di Natale"

I napoletani la mangiavano quasi quotidianamente e fu proprio essa che valse loro l'appellativo di " mangiatoglie ", appellativo che si ebbero finché non fu rimpiazzato con quello di " mangiamaccheroni", prima applicato ai siciliani.

Come facessero i napoletani a resistere senza danni a un regime di minestra maritata non riesco a capire, ma giustifico invece pienamente la loro predilezione perché, pur essendo "pesantuccia ", questa gloria del Regno di Napoli è squisita.

Quale ne sia l'origine con esattezza non si sa. In genere la si fa discendere dalla " Olla potrida " spagnola, ma potrebbe essere assai più antica risalendo alla cucina romana della quale faceva parte - ce lo dice Apicio - una zuppa di " Piselli maritati ", cioè piselli e carni varie.

E' da notare che la nostra minestra e quella spagnola, non sono le sole del genere; basate sul principio dell'unione di carni (e più specialmente quelle di maiale) e ortaggi, versioni ve ne sono un po' dovunque in Italia e in Europa. Citerò per tutte la " favata " e il minestrone sardi e, perché no, anche il " sauerkraut " o " choucroute " che si mangia in Germania, nel Belgio e in Francia, non come minestra, è vero, bensì come un più solido piatto unico.

Come si vede, da un probabile ceppo comune presumibilmente romano, ogni paese ha ricavato la formula che gli era più confacente. E la nostra, arricchita dalle meravigliose verdure dell'entroterra napoletano non è certo l'ultima per squisitezza.

Come che sia, del nostro " pignatto grasso " troviamo traccia in tutti gli autori dal '500 in poi: magnificata dal Del Tufo, prescritta in varie versioni dal Crisci, accennata dal Corrado che la chiama " potaggio di broccoli " e assai semplificata dal Cavalcanti, è giunta quasi intatta per tradizione fino a noi, privata solo di pochi elementi. L'essenziale è rimasto.

Ecco la ricetta datane da Bartolomeo Zito detto il " Tardacino " nel " defennemiento " della Vaiasseide tradotto da Ulisse Prota Giurleo: " Si piglia una pignatta grande, e dentro si mette un buon pezzo di carne di giovenca grassa, indi un cappone imbottito e una gallina casereccia, poi un salsiccione della Costa, quattro capi di salsicce cervellate, un pezzo di cacio nostrano, ossa mastre, spezie quanto bastano, e poi, cotte che siano tutte queste cose, si aggiunga una bella affettata di torsoli e foglie scelte nelle più tenere cime e si lascino bollire soave soave; poi si faccia riposare un po' il tutto, indisi mangi!".

Il Del Tufo si avvicina alla più moderna versione perché elimina carne di giovenca, cappone e gallina per supplirli invece con più qualità di carni, salate o no, di maiale, così come oggi ancora si usa.

Questa meravigliosa minestra, nella quale le tenere verdure nostre si < maritano > con la carne, ha purtroppo fatto il suo tempo. La sua parabola è in netta fase discendente, la sua ricchezza di grassi fa paura alle nostre dietetiche preoccupazioni. Ma per fortuna, nostalgici di cucina paesana ne esistono ancora e sono quelli che, osservando le tradizioni, impediscono - ma per quanto ancora? - al " pignatto grasso ", dl cadere completamente nell'oblio.

Questa minestra andrebbe fatta con gli elencati ingredienti tradizionali, ma essendo attualmente anche a Napoli molto difficile trovarli, bisogna accontentarsi della versione moderna che da' peraltro, risultati quasi identici all'antica. Anche le verdure possono variare, e così le dosi della carne, a seconda che si voglia la minestra più o meno ricca e sostanziosa e, diciamolo pure, più o meno digeribile

Le verdure: Broccoli di foglia mondati gr 400 Cappuccia mondata gr. 450

Broccoletti mondati gr.300 Torzelle mondate gr 400 Cicoria e scarolella mondata gr 800 Erbe aromatiche. a piacere

Gli ingredienti tradizionali

1 osso di prosciutto Salsicce fresche . · 2 o 3

Cotiche salate · . . . gr. 200 Lardo . · ....... gr. 150

Salammo . · . . gr. 200 Testa di caciocavallo secco .gr. 100

Pezzentelle · . . . gr. 200 Peperoncino forte · . . un pezzetto

Tracchiolelle · . . gr. 200 Mazzetto aromi · .. n.1

Maiale fresco · . . . gr. 300 Sale ......... se occorre

Gli ingredienti per una versione moderna

1 osso di prosciutto Cotiche di prosciuttogr.250 Salamino gr.250 Maiale fresco gr.300 Salsicce fresche n.3 Lardo gr. 150 Caciocavallo secco o croste di altro formaggio gr. 100 Mazzetto 1 Peperoncino forte un pezzetto

Lavate le varie qualità di carne e di salame (qualsiasi salame;va bene anche il cotechino) ponetele in una pentola con il mazzetto, ricopritele con 4 dita di acqua (non salata) e mettetele a cuocere a fuoco moderato. Quando dopo circa due ore e mezzo la carne sarà cotta, tiratela su asciutta, tagliatela tutta a pezzetti di 3 o 4 cm., spolpate l'osso di prosciutto (se quest'ultimo non fosse tenero, rimettetelo al fuoco fino a completa cottura) riunendo i pezzettini di carne che ne avrete tolto e i pezzi dei salami e delle cotenne in una casseruola con l'aggiunta di un ramaiolo o due di brodo. Coprite e mettete da parte.

Lasciate un po' raffreddare il brodo poi, passando un cucchiaio sulla sua superficie, privatelo di quasi tutto il grasso che nel frattempo sarà venuto a galla, e rimettete quindi la pentola sul fuoco.

Tuffate tutte le verdure lavate, in acqua a bollore con pochissimo sale, coprite il recipiente e, non appena il bollore avrà ripreso, toglietele dal fuoco e fatele ben sgocciolare in uno scolapasta premendole un poco con un mestolo. Finirete poi di cuocerle insieme al formaggio a pezzetti e al peperoncino nel brodo bollente, a calore moderato per mezz'ora. Verso la fine della cottura verificate il sale aggiungendone se necessario; Riscaldate la carne nel suo brodo e mischiatela alla verdura, o mandatela in tavola a parte, perché ogni commensale possa aggiungerla nel proprio piatto insieme al formaggio grattugiato.

Variante del Cavalcanti:

Le verdure cavoli cappucci n. 1 Scarolelle mondate kg. 1 Terzelle mondate Kg1 Basilico q b.

Le carni per il brodo: Gallina:mezza Carne di vaccina kg.1Cotenne di maiale gr.150 Prosciutto gr.100 Lardo gr.100 Pancetta gr. 100

cipolla, sedano, carota, alloro, prezzemolo. ecc. a piacere

Mettete a bollire in una pento!a, tutte le carni per il brodo, aggiungendovi gli ortaggi e gli aromi (cipolle, sedano, carote ecc.). Quando la carne è cotta passate il brodo e cuocetevi dentro le verdure.

Servite la carne a parte - o se volete - aggiungetene qualche pezzettonella minestra.

Variante Gaetana: Broccoli di Natale,Scarola,cappuccia (verza) e carne di maiale (bistecche, tracchie (costine), prosciutto,cotiche,salsicce). Come spezia si utilizza il basilico secco (con tutti i semi!) e per la cottura si procede allo stesso modo. home

MBRIACHELLE

Sono dei gustosissimi biscotti buoni a tutte le ore ed in tutte le stagioni, la ricetta è della mamma di un mio caro amico e molte volte ho avuto modo di gustare quelli "originali": Ingredienti: 1 bicchiere e 1/4 di vino bianco secco,1 bicchiere di zucchero ed uno di olio di semi (quello di oliva è troppo pesante per questi biscotti delicati), 1 cucchiano di polvere di lievito (Pane degli Angeli), 1 bicchierino di liquore,limone grattugiato, semi di finocchio sminuzzati (se volete un'innovazione: radice di zenzero grattugiata), farina quanto basta per ottenere una pasta morbida. Si formano dei cilindretti del diametro di un mignolo e poi si da agli stessi la forma di un taralluccio (come un roccocò ma più piccolo).Si passa la parte superiore su di un piatto con zucchero e si inforna a fuoco medio per 1/2 ora. home