LA PESCA
RETI A STRASCICO RETI DA CIRCUIZIONE
RETI DA POSTA INGEGNI A INNESCO
PESCA CON LA LUCE PROVERBI MARINARESCHI
L'esercizio
della pesca non è una cosa semplice. Richiede innanzi tutto la conoscenza del
fondo marino e delle coste e, nello stesso tempo, delle abitudini dei pesci, del
luogo della riproduzione, di come si muovono e quando, di che si nutrono.
Attraverso
l'esperienza millenaria il pescatore è giunto a perfezionare i sistemi più
idonei a catturare le varie specie di pesci, in possesso di sensi variamente
sviluppati, e non solo di pesci perché nel mare vivono anche molluschi e
crostacei, se vogliamo lasciar da parte i cetacei.
La
pesca con l'amo, la più antica insieme all'uso della fiocina (lanzature),
praticata sin dal Paleolitico
superiore, è fatta da fermo, stando a terra o su una barca in attesa che il
pesce abbocchi. Oppure si pesca a traina con una barca che dietro si trascina la
lenza, in superficie o strisciante sul fondo mediante l'applicazione di un
piombo. C'è poi il palangaro costituito da tante brevi lenze legate a una
lunghissima corda mantenuta a mezz' acqua o calata sul fondo.
La
pesca con le reti e con le trappole fu anch' essa praticata dagli uomini
primitivi del Neolitico. Con il progredire della civiltà questi sistemi sono
stati progressivamente perfezionati e, adattati alle diverse specie, sono
arrivati sino a noi. Il pescatore gaetano adopera reti più o meno comuni a
tutti gli altri paesi, vale a dire reti a strascico, da circuizione, da posta,
alla deriva.
È
incredibile a
quali astuzie e a quali ingegnosi ma semplici accorgimenti, ricorre per
risolvere i suoi problemi.
LA
PARANZA
La
paranza, prototipo delle reti a strascico, in dialetto è detta semplicemente rezze
(rete).
La
pesca si fa con due barche a vela latina, lunghe 18-20 metri, con una portata di
20-25 tonnellate, chiamate paranze.
Lo
scafo della paranza, munito di coperta e boccaporta, è più stellato (sezione
più acuta) di una barca da trasporto, e porta una zavorra di ciottoli (ricce
o petricceglie), che lo rende più stabile e più adatto a reggere il
vento e il mare.
Ha
un albero poco più a prora del centro, che regge l'antenna della vela, (la
penne), e
il bompresso fuori la prora per fissarci la parte bassa del fiocco (miezu
viente). Affiancata
al bompresso, una lunga barra mobile, la
mpugne, spostabile
da ambo i lati, permette di usare una vela triangolare, detta anch'essa mpugne,
quando il vento è debole o viene
da poppa.
Con
il vento forte il miezu
viente si
sostituisce con la tringhettine.
Calo
della rete
La
rete viene calata a mare da una delle due barche, che al momento di filare gli
staggi passa la cima all' altra barca poco distante. Questa provvede a legarci
il capo delle sue funi e insieme filano una certa quantità di sagole (sàule),
lunghe 60 passi ciascuna.
Composizione
La
rete è composta dal sacco, per primo calato in acqua, dal
cannone, pezzo di rete
più sottile e più ceche (maglie
più strette), su cui viene applicato un altro pezzo di rete (la
masche).
Sopra
la masche
un pezzo di rete più robusta a
maglie più larghe, detto scagliette,
munito di galleggianti di sughero,
le cuorce (dallo
spagnolo corcho), al centro la
pàine, il
sughero più grande, di notevole dimensione, a forma rettangolare.
Sotto
ci va il tassello (tassieglie),
rete robusta e pesante; sotto il
tassello un secondo scagliette
cucito a una cima di canapa, la
ralinga, di 30 millimetri di diametro con piombi. Galleggianti e piombi
garantiscono l'apertura del sacco, al quale sono cucite a guisa di ali le due
pareti (stazze), a destra e a sinistra, anche queste con galleggianti e piombi,
che finiscono con i magliucce (staggi),
robuste barre di legno di un 60 centimetri, che mantengono tese le pareti. Da
ciascun magliucce
parte la mazzette,
grosso cavo di saracchio, prodotto
a Muro Torto (More Tuorte),
presso la chiesa di S. Carlo,
attorcigliando tre cavi minori. In ultimo vengono le sagole (sàule),
cavi di robusta canapa. Il numero
delle sàule
mollate aumenta con la velocità e
la profondità. Le sàule
vengono legate le une alle altre
con il nodo di scotta che poi si abbozza.
I
capibarca, patrone sopaviente
(padrone sopravento) e patrone
sottaviente (padrone
sottovento) navigano, appunto, il primo sopravento, dalla parte del vento, e
l'altro sottovento.
Di
solito il padrone sopravento è lo stesso proprietario ed è quello che dirige
la pesca.
Una
cala dura da 4 a 6 ore e avviene dentro le acque del golfo, tra il Circeo e
Castel Volturno (Castieglie),
a una profondità non superiore ai
40 passi.
I
venti predominanti sono il levante e il ponente
(cacciate de levante e cacciate de punente),
che si alternano secondo la notte e il giorno, e sono essi che regolano la
pesca: chi tè denare fràveche chi
tè viente nàveche (chi
ha denaro fabbrica, chi ha vento naviga. Finita la cala, se
scocce, si
recupera la rete a bordo.
La
scotta si trasferisce da poppa a prua e le paranze si fermano. Ogni marinaio
indossa la tracolla (cullare)
e tutti insieme cominciano a
tirare le sagole. Arrivati al magliucce,
il principio della rete, il
padrone sottovento passa il capo alla barca sopravento, sulla quale si finisce
di tirarla a bordo.
Recuperato
il sacco, lo si solleva con un paranco sino a che il fondo raggiunge un' altezza
di un metro circa. Si scioglie la sagola (ciucce)
che lo tiene chiuso e il contenuto
dilaga sulla coperta. I marinai si accovacciano intorno e scelgono i pesci
dividendoli secondo le qualità. Rigettano a mare tutto il resto che viene
sottomano, in gran parte alghe, ma anche rottami vari buttati dalle navi di
passaggio. Invece bottiglie o stoviglie o altri oggetti utili (persi da navi
passeggere) diventano proprietà del marinaio che li ha visti per primo. Può
capitarci raramente anche qualche anfora antica romana, ma questa resta al
proprietario.
Le
paranze rimangono ininterrottamente giorno e notte a pescare, dal lunedì
mattina al sabato pomeriggio. L'equipaggio ha portato con sé i viveri necessari
per nutrirsi, sono indispensabili olio, sale, pane, vino, acqua, aglio,
peperoncini forti. In caso di bisogno, gliu
uzze de riceve, che
giornalmente va a ritirare il pescato, può rifornirli.
L'acqua
pazze
Il
pasto principale si consuma a mezzogiorno. Si accende il fuoco per preparare l'acqua
pazze, una zuppa di pesce nella quale entrano tutte le qualità adatte: parnocchie
(pannocchie), saucicciuotte,
sgavagliune e cuocce (appartenenti
alla famiglia dei caponi), rattale (rane
pescatrici), purpetieglie (polpetti),
seccetelle cu gliu pizze
(un tipo di seppiette), ruonghe
(gronchi), tràcene
(trachini), scuérfene
(scorfani), lucerne
(pesci preti). Si aggiungono olio,
sale, prezzemolo, aglio e peperoncino.
Arrivato
alla cottura giusta, si versa il brodo sul pane affettato nelle scodelle e il
pesce si vuota nel coperchio di una cestella (zòcchele),
che funziona da colabrodo. Ognuno
si serve prendendo il pesce con le mani, mentre con la forchetta mangia il pane.
Se
il mare è mosso tanto da non garantire la stabilità della pentola sul
treppiede( trépene),
non essendo possibile cuocere l'acqua pazze, si ricorre alla capunate:
rotte a pezzi le gallette, si
bagnano con acqua e si condiscono con olio, aceto e peperoncino forte. Alla capunate
si ricorre anche contro il mal di
mare, quando provoca il vomito.
Gliu
uzze de riceve
La
portolata (uzze de riceve)
è una barca a vela latina adatta
a reggere abbastanza il mare, lunga circa 5-6 metri, affidata a due marinai che,
in mancanza di vento, devono sottoporsi a lunghe e faticose remate.
Tutti
i giorni raggiungono una o più coppie di paranze, ritirando il pescato, che
portano ai magazzini (malazzere)
in tempo utile per
prepararlo con ghiaccio tritato nelle zòcchele.
Chiuse
con il coperchio e legate con dello spago robusto, vengono spedite per mezzo di
carretti tirati da cavalli. Se il trasporto avviene per ferrovia, bisogna anche
sigillare con piombi.
Di
notte o con la nebbia, i marinai giunti nella zona concordata si annunciano con
suoni particolari ricavati da una conchiglia di tritone bucata al vertice (la
tope): le
paranze rispondono con il medesimo suono per comunicare la loro posizione.
Se
si lascia un temporale, le paranze si affrettano a rientrare in porto e si
attraccano con la prora verso la banchina, nel porto di S.Maria. Appena il mare
lo permette, riprendono la pesca. Il sabato rientrano per il riposo festivo
della domenica, che interamente festiva non è in quanto la mattinata, a bordo,
si eseguono quei lavori indispensabili a riprendere la pesca il lunedì
successivo. Con tempo buono i padroni preferiscono attraccare nei pressi della
propria abitazione, con il bompresso sugli scogli del Corso Attico, o alla
piccola scogliera del Cartuccio.
Il sabato i marinai ricevono il
salario settimanale (la semmane)
e portano a casa un po' di pesce
fresco o anche triglie e gronchi musce,
sbuzzati, lavati e messi ad
asciugare al vento e al sole.
La
tente
Il
pomeriggio del sabato e la domenica mattina, ogni due settimane, l'equipaggio è
impegnato per la tinta (tente)
alle reti.
In
una enorme pentola di rame, si mette a bollire per quattro ore nell'acqua di
mare un tritato di corteccia di pino.
L'infuso,
diventato di colore marrone scuro, si versa sulla rete raccolta in una vasca di
legno rettangolare (tine)
dove resta a bagno per un 10
minuti. Dopo si stura la vasca raccogliendo la tinta rimasta e riversandola nel
pentolone sotto il quale il fuoco continua a bruciare. Si toglie la rete dalla
vasca e si ripete l'operazione con un' altra rete.
La
resina delle cortecce, assorbita dalla canapa di cui le reti sono composte, le
difende dall'umidità e le fa durare più a lungo.
Ogni
coppia di paranze deve essere dotata almeno di sei reti, tre per pescare nei
fondali bassi ('n terre)
e tre per i fondali
alti (fore).
Il
padrone
Il
padrone conosce bene il fondo del mare; la conoscenza se la sono passata da
padre in figlio. Sono stati fissati allineamenti sulla costa: vette di colline,
nuclei abitati, conventi isolati, che combinati tra loro precisano il punto di
un intoppo sul fondo, dove la rete si può impigliare, restando seriamente
danneggiata se non addirittura perduta. L' intoppo può essere una roccia oppure
un relitto. Nonostante l'esperienza, a volte, capita che la rete resti
impigliata (arrappe).
Allora il padrone fissa degli
allineamenti a terra, onde non ricaderci e tiene per sé il segreto: più
apprezzato chi meglio conosce il modo di evitare gli ostacoli sottomarini. Fa di
tutto per ricuperarla con il minor danno possibile. Una rete costa molto e la
sua perdita totale rappresenta un grosso danno finanziario.
Se
per un motivo qualsiasi, di solito le avverse condizioni del mare, è costretto
ad abbandonarla momentaneamente sul posto, lascia un segnale galleggiante
assicurato sul fondo.
Migliorato
il tempo ritorna sul luogo e, andando avanti e indietro con un gancio a 4 punte (parde),
cerca di agganciarla e di
recuperarla.
La
rete ha continuamente bisogno di essere rammendata (sarcite)
qua e là per qualche smagliatura
, ma quando arrappe
ha bisogno di riparazioni ben più
consistenti, comunque sempre meno costose della perdita totale.
Una
semplice smagliatura (caramme)
si ripara alla svelta.
Uno
strappo notevole (sparmature)
richiede più tempo.
Quando lo strappo è grosso, dovuto per esempio a una arrappature,
può interessare
l'intera fiancata della rete (rezza
sfrute) dalla
ralinga (aremagge)
superiore, cima
robusta cui sono applicate le cuorce,
sino alla ralinga
inferiore con i piombi (le
piumme).
I
delfini
I
delfini (fere),
animali intelligenti, alle volte
strappano il fondo del sacco (danne
gliu mmuorze 'n cuglie)
e dal buco escono i pesci che vanno a finire direttamente nella loro bocca.
Allora è necessario scuccià subito
e ricuperare il pesce rimasto, prima che il sacco cammin facendo si vuoti
completamente: il pesce entrato da una parte uscirebbe dall'altra anche quando i
delfini, sazi, se ne sono andati.
LA
SCIABICA
La
sciabica prende il nome generico di rezze
(rete) ed è la più nota delle
reti a strascico, che tutti vedono tirare a Serapo , o sulle banchine fuori le
mura del Centro storico, a Porta Regina o a Porta Granatieri.
È
stato il più
diffuso mezzo di pesca nel passato, che offriva la maggior quantità del pesce
disponibile sul mercato e che dava lavoro a tanti pescatori. I capitoli dal 125
al 157 del I libro «De
piscibus vendendis» degli Statuti
della Università di Gaeta (1553) regolano la pesca e in particolar modo la
pesca con la sciabica, prevedendo severe multe per i contravventori.
I
cap. 125 e 126 stabiliscono che il pesce va venduto sulla pietra e secondo
l'assisa.
Il
128
vieta di scegliere il pesce con le mani.
Il
129
vieta di infilare i pesci al filaccione o tenerli infilati sulla pietra.
Il
130
proibisce di andare a comprare il pesce sulla barca.
Il
133 impone ai padroni delle sciabiche che pescano a Serapo, alle Bigne, al Galabro,
alla Tesa e al Molo dell'Annunziata di vendere sulla pietra almeno un
migliaio delle sarde pescate al primo uoglie
(tirata di rete) in tempo di
Digiuno.
Il
134
ordina che per la festa dell'Annunziata tutto il pescato resti in città.
Il
143
proibisce di vendere pesce non recente per fresco.
Il 144 stabilisce che il pesce comprato sulla pietra non va rivenduto.
Il
150
obbliga il rezzaiuolo a vendere ai pescivendoli locali nel periodo della
Quaresima e altri tempi di Digiuno.
Il
153
dispone che il padrone della sciabica non può togliere il bolum
(uoglie) a
un altro che sta prima di lui: chi è primo, pone primo; gli altri seguono
l'ordine d'arrivo. Il contravventore perde il pescato a favore del danneggiato e
in più paga la multa di un augustale.
Questo
articolo sta a dimostrare appunto che i padroni di sciabica entro le mura, dove
lo spazio è limitato, sono stati sempre numerosi e le liti così frequenti che
fu necessario ricorrere a delle norme. L'articolo successivo, il 154, stabilisce
come comportarsi nel caso che il primo padrone non sia presente al suo turno. In
questo caso pesca il secondo e senza dover interrompere se nel frattempo arriva
il primo. Poi toccherà al primo. Il contravventore perde il pescato e paga una
multa.
Le
liti e i dispetti tra i pescatori sono frequenti: di nascosto cercano di
danneggiare le reti altrui, reato che del resto si è verificato anche in tempi
più recenti in modo diverso, ma con conseguenze più gravi per le reti che in
certi casi vanno irrimediabilmente perdute, perché irrorate con liquidi
corrosivi.
(I)
Pietra, si intende il banco di pietra di cui ogni pescheria doveva essere
fornito per ovvi motivi igienici. Il medesimo banco era obbligatorio anche a
Napoli e in Toscana e a Roma molti stavano al Portico di Ottavia. A Gaeta esiste
ancora la Piazza del Pesce, un tempo, prima della cinta di Carlo V,,
sulla marina fuori la Posterola.
In questa piazza esistevano i banchi in muratura per la vendita del pesce, con
il piano inclinato di marmo. Gli ultimi tre. sopravvissuti alla guerra e
restaurati con il dovuto rispetto alle patrie memorie, sono scomparsi alcuni
anni or sono, approfittando dei lavori di ristrutturazione del palazzo Gaetani.
Davano fastidio a qualcuno che ha pensato di demolirli in barba a tutte le
disposizioni riguardanti la conservazione dei beni ambientali, complice la
totale disgustosa indifferenza degli Amministratori locali del tempo.
L'Università
è costretta a intervenire per porre ordine e così con il 156 stabilisce che
nessun padrone di sciabica né altro pescatore osi tagliare, solvere e
dissolvere le sagole altrui, e che nessuno agisca violentemente, né se ne
arroghi il diritto, pena il pagamento di due once.
La
sciabica è la rete a strascico classica, la più grande, anche se meno robusta
della paranza. È
composta dal
sacco (màneche)
lungo 10 metri e due vanne
di 250-300 metri circa ciascuna.
Le maglie della màneche sono
della misura 21 a palmo, ma possono essere anche di 22-23-24. Le vanne
vengono tenute verticali da una
serie di piombi che toccano il fondo e sono infilati alla ralinga (gli
'aremagge), la
corda cucita al lato basso della rete, e da una serie di sugheri (cuorce)
anch'essi infilati a una seconda
ralinga cucita alla rete nel lato superiore della vanne.
Gli
'aremagge con
sugheri e piombi si collegano anche con il sacco in modo da mantenerne aperto
l'imbocco. Al centro del sacco, un grosso sughero (la
pàine) permette
di osservarne da terra la posizione. Le vanne
sono formate da diverse parti di
rete che a partire dal magliucce
vanno sempre aumentando per il
numero di maglie a palmo, cioè sono maglie più piccole (ceche).
Nell'ordine
vengono primo e secondo acce con maglie larghissime, che insieme formano
il parete ;
poi vengono riale, rialieglie e
contramappe che insieme
costituiscono le minùtele cioè
quelle reti a maglie più strette, dentro le quali il pesce circuito ha poche
possibilità di scamparla. Infine viene il mappe
che nello stesso tempo e anche
inizio della manica.
La
màneche
è composta dal fierze
de sotte (letto), la parte
strisciante sul fondo che comincia con
l 'anghetelle de piumme;
è di filo più robusto al principio e con maglia uniforme più larga per
tutta la lunghezza. La parte superiore, con maglie ceche, incomincia con l
'anghetelle da coppe con
i sugheri, partendo dal mappe
e cucita insieme allo
spinapesce.
Seguono
il fierze da coppe, la masche
di sopra e di sotto, due per parte, e in ultimo la culette,
cucita intorno alla manica, dove
va a finire il pesce.
La
culette porta
le maglie più strette di tutta la rete ed è lunga 2,5 passi. Al
pezzale (gli
angoli in fondo) porta legate due cordicelle (le
nfurcature), che
si uniscono dopo 3-4 passi a una terza cordicella che finisce legata a un grosso
sughero che segnala a terra la posizione della manica. Tutto l'insieme viene
detto la
caglime.
Occorrono
due gozzi per la pesca, uno grande di circa 6,5 metri, l'altro più
piccolo di 5 metri. Nella parte poppiera del gozzo grande, abbisciate in ordine,
prendono posto la rete e metà delle sagole; nell'altro gozzo l'altra metà
delle sagole.
Da
due punti della spiaggia, distanti un cento metri, partono verso il largo i due
gozzi, lasciando un capo delle sagole a terra e mollando il resto dietro la
poppa. Finite le sagole - se ne mollano da 500 a 2000 metri - il gozzo con la
rete continua verso il largo e quando arriva al sacco, torna indietro dalla
parte opposta sino a incontrarsi con il gozzo piccolo che lo aspetta per
consegnargli il capo della sua sagola da legare al magliucce.
Insieme tornano sulla spiaggia e
si incomincia a tirare.
I
pescatori sono da dieci a venti, non fanno parte di una ciurma fissa, il padrone
li assume giorno per giorno. Chiunque ha necessità di guadagnare, può
presentarsi a tirare la sciabica, lavoro per cui non occorre alcuna pratica o
abilità. Basta tirare ed essere capaci di immergersi con i piedi nell'acqua,
con qualsiasi temperatura e condizione atmosferica. Se non se ne presentano, non
si pesca per quel giorno.
Coloro
che scelgono questo tipo di pesca, o vi sono costretti dalle circostanze o
conducono una vita grama, perché è un mestiere che rende poco. Dice un
proverbio: Se glie vuò fà muri de
fame, fa' gliu figlie rezzaiuoglie (se
vuoi farlo morire di fame, fa' il figlio rezzaiuolo). Una delle peggiori
imprecazioni è: «Puozze i alla
rezze» (possa tu andare a tirare
la rete).
Ciascuno
indossa la tracolla, aggancia il nodo alla sagola e tutti insieme tirano,
padrone compreso; metà una sagola, metà l'altra sagola. Arrivato al ragazzo
che acciambella la sagola, ogni rezzaiuolo sgancia la tracolla e ritorna con i
piedi in acqua per riprendere a tirare. La rete è pesante, la fatica è tanta.
I pescatori, inclinati all'indietro, procedono insieme, a ritroso, con piccoli
passi sincronici. Uno alla volta e sempre col medesimo piede, il sinistro, al
quale si congiunge l'altro, per avanzare di un passo.
Il
padrone tiene d'occhio la pàine e
si regola per stabilire il momento in cui ordinare all'altra squadra di
avvicinarsi. Finite le sagole, cominciano le pareti e l'altra squadra si
avvicina poco alla volta sino a una distanza di 5 metri. Si tira il sacco sulla
spiaggia, si separano le diverse qualità di pesci e se ne riempiono gli spasoni,
grosse ceste rettangolari con due
manici, della capienza di una ventina di chili. Di solito si prendono diverse
qualità di pesci: sardine in prevalenza e, saltuariamente
come capita, sgombri (tenne),
suri (suglie),
calamari, polpi, seppie (secce),
palàmiti, tonni, boghe (vope)
e tutti quelli che la rete
incontra nel suo cammino.
I
pescatori di sciabica del Centro storico che tirano la rete dalle banchine fuori
le mura, nel mese di ottobre fanno una grossa pesca di tonni. Tale pesca ha
origini remote e un tempo dava lavoro a tante persone. Si catturavano moltissimi
tonni, tanto che intorno alla Piazza della Verdura esistevano parecchi magazzini
per la salatura e la conservazione in barilotti chiamati cugnette.
Era la nota sorra che veniva anche
esportata e dalla quale prese il nome la chiesa di S. Maria della Sorresca,
appunto perché costruita nel luogo dove esisteva uno di detti magazzini, donato
appositamente dal proprietario, il nobile don Luigi d'Albito.
All'inizio
dell'autunno quando si avvicina l'epoca del passaggio dei tonni, i pescatori
dispongono le reti dalla banchina di Porta Regina o di Porta Granatieri in
direzione verso il largo. I tonni, seguendo la perenne trasmigrazione regolata
da misteriose abitudini, arrivano dalla parte di Vindicio e passano a poche
centinaia di metri dalla costa. Trovano lo sbarramento della rete, disposta con
il sacco in quella direzione, e cercano un passaggio urtando o tentando di
saltare l'ostacolo.
I
pescatori, che sono sempre all'erta sulle barche, tirano in fretta la banda
esterna della rete per circondare il maggior numero di tonni, che intanto
entrano in agitazione. Dalla banchina tirano la rete; una seconda rete cinge la
prima, in modo che se sfuggono alla prima, restano prigionieri della seconda.
Quando
la manica sta per arrivare e lo spazio sì è ridotto, si presenta uno
spettacolo impressionante. I pesci si urtano, si accavallano, sbattono contro la
rete e contro gli scogli. Qualcuno passa attraverso uno strappo, qualche altro
di sopra, ma restano prigionieri della seconda rete.
A
questo punto vengono afferrati con qualsiasi mezzo e buttati nel fondo delle
barche o sulla banchina, dove finisce la loro agonia. Chiunque è presente e
vuole, dà una mano; il padrone penserà a ricompensarlo in qualche modo.
In
quanto al guadagno, il rezzaìuolo va alla parte; tolta la spettanza del
padrone, il ricavo è diviso in parti uguali tra quanti hanno lavorato. La pesca
del tonno, ardentemente attesa, è una eccezione per i rezzaioli
del rione. È
una delle poche occasioni di pesca abbondante e di gioia per tante famiglie.
GLIU
SCIABBACHIEGLIE
Lo
sciabbachieglie è una
delle reti a strascico, con le stesse caratteristiche di tutte le reti di
questo tipo, col sacco e due pareti. Il sacco dello sciabbachieglie
(rnàneche) è
lungo 5 passi circa e, partendo dalla bocca, comincia con quattro pezzi di rete,
sprune, due sopra e due sotto, che vanno cechenne
cechenne, ossia
la grandezza delle maglie va diminuendo gradatamente verso il fondo. Ogni sprune
è lungo 5 passi, ma la larghezza
differisce: quelli di sopra sono larghi 400 maglie e quelli di sotto 200 maglie.
Glie sprune
sono seguiti dalla cherone,
pezzo di rete ceche detta
così perché ha maglie più piccole. In fondo a tutto la tele, la tela
di sacco per la pesca invernale dei cecenieglie
(bianchetti).
Partendo
dalla bocca della màneche
in avanti, vengono cucite le vani:
e, formate da più pezzi, le cui
maglie aumentano progressivamente di grandezza, allontanandosi dal sacco. Uno
per lato, sono cuciti direttamente alla maneche
due pezzi di rete, i mappe,
lunghi 2 passi, con maglie di 21
-23 a palmo. Più avanti vengono i contramappe,
lunghi 4 passi e con maglie di 12
a palmo. Seguono i riale,
lunghi 8 passi e con maglie di 6 a
palmo, poi i rialieglie
lunghi 16 passi con maglie chiare,
ossia grandi di una a palmo. Alla fine le stazze oparete, lunghe 5 passi
con maglie lunghe e qui vengono fissati i magliucce,
barrette di legno, cui si legano
le corde per tirare.
Come
tutte le reti, lo sciabbachieglie
è guarnito di due ralinghe (gli
'aremagge) una
con sugheri, càleme de cuorce,
e l'altra con piombi, càleme
de piumme, più
robusta dell'altra, perché la rete si disponga verticalmente e nello stesso
tempo resti aperta la bocca del sacco, che al centro porta la indispensabile pàine,
il sughero maggiore.
Ordinariamente
questa rete si tira a mare, ossia stando sulla barca, un gozzo di 20-21
palmi, a una profondità di 5-8 metri, al largo di luoghi sabbiosi, 'n
coppe agli 'asprite, dove
sul fondo cresce posidonia bassa, senza sassi o altri intoppi per la rete. I
luoghi adatti sono di solito le spiagge di Vindicio, Palazzo, le spiagge da
fore, ovvero
da Serapo in poi verso ponente. I nostri si spingono anche verso Acquatraversa e
Scauri, ovviamente sempre a forza di remi.
In
estate finiscono i cecenieglie e
si cambia pesca; si va a tregliozze
(triglie piccole), pescando sempre
nei medesimi mari, basta eliminare la tela di sacco dal fondo della màneche.
Insieme alle triglie si pescano
anche altri pesci che vivono in quell'ambiente.
I
pescatori devono essere da un minimo di due, fino a cinque. Le corde (glie
piezze) legate
ai magliucce
sono di stramme,
prodotte dalle donne
della Piaje.
Ogni
pezzo di corda è lungo un 30 passi e di solito a pesca di bianchetti se ne
mollano uno per parte, ma anche di più, sino a tre, quando si pesca a tregliozze.
Anche tutti i pezzi citati avanti,
componenti lo sciabbachieglie,
sono prodotti da donne, di solito
le mogli degli stessi pescatori.
Lo
sciabbachieglie
per la pesca delle aguglie porta
molti sugheri perché questi pesci nuotano a fior d'acqua. Le vanne
sono formate soltanto da riale,
rialieglie e contramappe,
manca il parete a maglie larghe.
LA
MAZZONARA
La
mazzonara (mazzunare)
è una rete a strascico di modeste
dimensioni, più piccola dello sciabbachieglie,
con le medesime caratteristiche
delle altre reti di questo tipo, vale a dire composta di sacco, pareti e staggi.
La
pesca viene praticata in tratti di mare dove il fondo, coperto di posidonia,
l'alga fanerogama a foglie lunghe nastriformi detta pranelle,
è più ricco di fauna marina.
La
posidonia è presente in tutto il litorale interno, ma in modo particolare è
abbondante nel tratto antistante il rione della Piaje.
A
qualche centinaio di metri dalla riva, la rete viene tirata direttamente a bordo
della barca, un gozzo lungo 21 palmi, con un equipaggio di due pescatori. A una
profondità di 4-5 metri, dopo aver preso come punto di riferimento a terra uno
dei fabbricati, si getta l'ancora con un galleggiante al quale viene assicurato
il capo di una corda di stramme
lunga 80-90 passi.
I
pescatori, vogando, si allontanano e filano la corda da poppa. Arrivati allo
staggio, continuano a calare la rete compiendo un' ampia conversione e tornano
al punto di partenza. Tirano a bordo il galleggiante, assicurano il gozzo alla
cima dell'ancora e ognuno incomincia a tirare la sua corda. Arriva la rete,
quindi il sacco, lo vuotano sul fondo. Insieme con alghe e oggetti vari finiti
in mare, ghiozzi (mazzune),
pannocchie (parnocchie),
qualche sogliola (palaje),
polpi (prepune),
seppie
(secce).
Pronti
per un'altra tirata di rete, uoglie,
i pescatori si spostano di qualche
diecina di metri, prendono un altro punto di riferimento a terra e, seguendo la
medesima pratica, continuano la pesca.
Con
la mazzonara si prendono diverse qualità di ghiozzi
(mazzune) grandi e piccoli. Tra
i piccoli bisogna distinguere quelli che restano tali e gli altri che crescendo
diventeranno grandi come gli altri della propria famiglia. Questi sono le mazzunelle
e si distinguono per una striscia
blu al lato della testa.
Appartenenti
alla razza piccola ci sono i seretieglie,
di colore grigio chiaro, che si
prendono quando il tempo è rigido e le acque sono fredde, e per questo vengono
detti glie fa fridde (gli
fa freddo). Infine ci sono i mazzunieglie,
i ghiozzetti veraci, ricercati da
chi se ne intende, perché fritti sono insupérabili.
GLIU
SCAVAPRETE
Gliu
scavaprete (scavapietre,
tradotto alla lettera) è un' altra rete a strascico, più robusta dello sciabbachieglie,
chiamata appunto così perché può pescare su fondi relativamente scabrosi,
senza subire danni. Infatti con questa rete si pesca 'n
coppe allu forte, dove
la posidonia è alta e sul fondo sono anche delle pietre.
Lo
scavaprete inizia dai magliucce
con 15-20 passi di rete per
ciascuna vanne,
detta mappetieglie,
di 22 maglie a palmo, fatta dalle
donne con spago robusto n. 20, alta dalle 200 alle 300 maglie. Poi vengono i mappe,
lunghi da un passo a un passo e mezzo, a maglie 24 a palmo. Segue la màneche,
lunga 4 passi, che a sua volta
comincia con glie sprune,
maglie 34 a palmo, e finisce con
le cherune,
rezza
ceche
con le maglie che sono di 38 a
palmo, e di spago massiccio n. 30. Anche tutti questi pezzi di rete sono fatti
dalle donne.
Come
le altre reti a strascico, piombi e sugheri mantengono le vanne
in posizione verticale e il sacco
aperto.
La
barca è un gozzo di 20-21 palmi; i marinai da due a quattro.
Si
tira a mare oppure 'n terre,
significa stando sul gozzo o dalla
riva, in qualsiasi luogo, 'n
coppe allu forte e 'n coppe
agli 'asprite e a una
profondità tra 4 e 7 metri.
Le
corde sono sempre di stramme.
Si prendono tutte le qualità del
pesce vivente nel fondo: ghiozzi, pittele,
gamberi (ammarieglie),
polpi, seppie, calamari, gronchi
di scoglio, sparagliune ed
altri.
La
pesca è più abbondante se il mare è mosso, soffia il vento di terra (grecale)
o il mezzogiorno-scirocco, con buriana e pioggia: si pesca con qualsiasi tempo,
purché riparati dai panni dell'acqua.
«lamme
a fà la scarute; iamme ià, ca ogge gliu mare è ruosse e piglimme caccose. Hai
voglie de pesce» (Andiamo
a fare la pesca del tempo cattivo; andiamo, orsù! Perché il mare è grosso e
prendiamo qualche cosa. Hai voglia di pesce che prenderemo!). Così si spronano
tra loro i pescatori quando viene il tempo cattivo e il mare grosso smuove il
fondo marino e intorbida le acque. Mentre gli altri se ne stanno rintanati in
casa al caldo e all'asciutto, per loro pioggia e vento voglion dire pane.
IL
TARTARONE
Il
tartarone è una rete con le medesime caratteristiche di quelle a strascico, ma
ha qualche somiglianza con la menaide perchè non striscia completamente sul
fondo.
Appunto
come le reti a strascico, è composto da un sacco e da due vanne
laterali cucite ad
esso, formate da diverse parti che vanno diventando sempre più chiare (maglie
larghe) come se ne allontanano. Sono mappe,
contramappe, parete, riale e rialieglie
Come
tutte le reti sono armate con càleme
de piumme (ralinga con piombi) e
càleme de cuorce (ralinga con
sugheri), compresa la pàine,
che dispongono le pareti in senso verticale e la bocca del sacco aperta.
Per
la pesca delle alici si monta una manica di 36 maglie a palmo; andando a sarde
si sostituisce con un'altra di 21 maglie a palmo.
La
pesca si esercita dentro il golfo, ordinariamente sino a Scauri o a meza
spiagge tra Scauri e Monte
Argento. Eccezionalmente si arriva sino alle prossimità di Castel Volturno.
La
barca è un gozzo di 30 palmi spinto a remi e porta un equipaggio di quattro
pescatori e un mozzo (uaglione).
Giunti
sul posto, con fondali non superiori ai 20 passi, si dà fondo con gliu
fierre, un'ancora
a 4 marre, alla quale viene legato un barile. Quindi, dopo aver mollato un 20
passi di corda, comincia la cente con
la rete, seguendo un percorso a forma ovale che si chiude con il ritorno al
barile.
A
questo punto i pescatori ngàssene
la varche agliu varile (ormeggiano
la barca al barile) con una cima legata a un vanghe (baglio). Un
pescatore a poppa tira la ntrate,
i 20 metri di corda; uno a prora
aspetta quando l'altro, avvistato un segnale vicino alla corda, lo avverte: «Dà
mane (dai
mano). Stanne apparate (si
sono appaiate le due parti)».
La
rete è grande, pesa. Due da un lato e due dall'altro tirano a forza di braccia.
La parte più lontana striscia sul fondo e a mano a mano che si avvicina alla
barca si solleva sino alla superficie. Arrivati al principio del sacco: «Apre
màneche» (aprire la manica)
ordina il padrone. I marinai sanno come continuare per ricuperare il pesce
finito dentro le pezzale,
gli angoli del fondo della manica.
L'
ANGULELLE
L
'angulelle è
un semplice sacco di rete la cui bocca è tenuta aperta da un attrezzo, composto
da un arco di ferro saldato su una base dello stesso metallo leggermente curvata
verso l'interno, largo 1,5 metri e alto la metà.
Il
sacco, lungo 3-4 metri, è formato da tre tipi direte , che a partire dalla
bocca sono: la cherone di
maglie 24 a palmo, il mappetieglie
di maglie 27, il sacche di maglie 34, molto strette che non lasciano
via di scampo neppure ai pesci più piccoli. Tre cavetti partono da tre anelli
saldati allo scheletro metallico: due agli estremi della base e uno al vertice
dell'arco.
I
tre cavi, lunghi un passo ciascuno, vengono uniti insieme e legati a una corda
con la quale si trascina l'angulelle.
Si
pesca a un centinaio di metri dalla riva, allu
forte, dove
si trova la pranelle (la
posidonia) nel fondo. Partendo dalla riva si incontra prima
lu puglite, poi lu rapiglie con
erba rada e in ultimo lu forte con
posidonia alta e folta.
Si
cala, dunque, I 'angulelle allu
forte, con
la corda cui è legata, e si incomincia a trascinarla a forza di remi, in due o
più pescatori. L'attrezzo gratta sul fondo e fa notevole resistenza.
È
un lavoro da
galeotti, che dura dall'una all'alba; ogni 50-60 metri i pescatori la tirano a
bordo e la vuotano.
Con
questo tipo di pesca si prendono cinge
(ricci) e cengiarelle,
qualità di ricci
molto più piccoli di colore grigio. Insieme si prende tutto quanto l'angulelle
incontra nel suo
percorso: ammarieglie,
scungiglie, cecale, scòrfene, minge de re,
qualche polpetto o
seppietta, il tutto frammisto ad alghe, barattoli, bottiglie ed altri rifiuti
finiti a mare. Ributtata a mare la robaccia, mettono il buono nello spasone.
I
pescatori tornano a casa quando è ancora buio, rovesciano sul pavimento il
pescato e al lume di una candela selezionano le varie specie in mucchi e
mucchietti. Fatto giorno, il pescatore stesso o la moglie, all'imbocco del
vicolo, vendono il ricavato della dura fatica sul mare.
Le
cengiarelle
sono le più richieste, si vendono
sempre per prima. C'è chi per assicurarsele le va a comprare direttamente a
casa del pescatore prima che le esponga alla pubblica vendita.
L
ÀNGULE
È
un attrezzo
simile all'angulelle,
soltanto che è più grande e la
traversa inferiore è di legno anziché di ferro; tutto il resto è uguale.
La
pesca, però, si svolge in modo differente perché, essendo più pesante, non si
riuscirebbe a trascinarsela dietro a forza di remi.
I
pescatori negli stessi fondali dove si pesca con I
'angulelle buttano
l'ancora a quattro marre e si allontanano di 50-60 metri; qui calano I
'angule e
legano la cima a bordo.
Allora
i pescatori alano la cima dell'ancora e insieme con la barca si trascinano
dietro l'attrezzo.
Arrivano
all' ancora, danno volta la cima, e infine ritornano all' attrezzo e lo tirano a
bordo.
Per
il resto, vale tutto quello riguardante la pesca con I
'angulelle.
LA
MENAIDE (menàite)
La
menaide è un tipo di pesca del pesce azzurro assai diffùso a Gaeta. Un intero
rione, la Piaje,
è dedito a questa pesca, che,
insieme a quella della paranza, interessa il gruppo prevalente dei pescatori che
hanno scelto S. Andrea per loro protettore. Le case del rione sono schierate
lungo la riva, a contatto diretto con il mare, dal quale le separa solo la breve
larghezza della via nove
(Corso Attico); al di là le barche vengono tirate a secco (ngrarate)
sulla sabbia al ritorno dalla
pesca. Nella parte più interna della spiaggia una lunga serie di pertiche
reggono le traverse sulle quali vengono messe le reti ad asciugare. La pesca
della menaide a Gaeta non differisce molto da quella praticata negli altri
luoghi, se non per le dimensioni delle varie parti che compongono la rete. In
quanto al modo è sempre uguale.
Ovviamente
il pescatore conosce perfettamente il mare, i fondali, le correnti, le abitudini
dei pesci e, quindi ,ammaestrato dalla lunga esperienza passata e arricchita
della propria, usa intelligentemente la menaide, cercando di ottenere i migliori
risultati.
La
menaide gaetana è una rete formata da quattro parti, ognuna delle quali, lunga
80 metri, prende il nome di poste
(spigone). Il margine superiore è
munito di una ralinga, cui sono infilati galleggianti di sughero (cuorce);
quello
inferiore è ugualmente munito di ralinga, alla quale sono applicati i piombi.
A
ciascuna delle due testate della poste è applicata la spuntature
cu glie laccetieglie, vale
a dire un pezzo di rete più robusta (rezze
de fascetelle) con
32 cordicelle con le quali si legano saldamente i quattro spigoni l'uno con
l'altro, in modo da formare l'intera menaide lunga 320 metri.
Questo
sistema , una volta calata la rete in mare, le fa assumere la posizione di una
parete verticale, con i piombi che toccano il fondo, alta un nove metri (700
maglie di 21 a palmo). Raramente la rete viene calata sul fondo, perché il
pesce azzurro si sposta a mezz'acqua e per intercettarlo nel suo cammino bisogna
portare la rete alla quota giusta. Per far questo si adoperano grossi
galleggianti di sughero (rettangoli di cm. 30x70, spessi 2-3 cm.), chiamati pàine,
che al centro del margine del lato
minore portano un foro, attraverso il quale scorre una corda, detta colonna (chelonne
o calomme),
legata con una estremità alla ralinga delle cuorce.
Ogni posta è fornita
di cinque o sei colonne, distribuite a uguale distanza, lunghe ciascuna 20 passi
(30 metri).
Stabilito
di far galleggiare la rete a una certa profondità sotto il pelo dell'acqua,
basta legare la pàine
al punto giusto della colonna
perché la rete si disponga alla profondità desiderata. Le
paine, sollecitate dal
peso della rete, si dispongono in posizione verticale, emergendo in buona parte
sopra la superficie dell'acqua.
La
prima poste è collegata a un barile, anche la quarta è legata a un
barile o alla barca. Stabilita la lunghezza della colonna e fissate le
pàine, si
molla il barile della prima poste, poi si molla tutta la menaide.
All'alba
il pesce si sposta dal largo verso terra, quindi la menaide, che va sempre
disposta ad arco (a meza gliune),
viene calata con il lato concavo verso il largo, in modo da convogliare il
pesce al centro della rete. Con il sole, il pesce scende verso il fondo e anche
la menaide viene calata sul fondo. A sera il pesce si sposta in senso inverso,
dalla terra al largo, e la menaide si cala in modo contrario con l'aggiunta di
un quinto spigone detto la poste de
la cole (lo
spigone della coda). Il pesce azzurro non cammina quando c'è buio, se c'è la
luna sì.
Per
decidere come calare la menaide, occorre accertarsi in che direzione e a quale
profondità si sposta il pesce. Si regolano le
pàine a una profondità
media, e si fa la prova calando una solaposte,
che si ritira a bordo dopo un
quarto d'ora circa e si osserva: se il pesce ha
chiavate (si
è impigliato)
nella parte bassa, la menaide deve scendere di più, quindi si allungano le
colonne ,ossia si legano le pòine
più in alto; in caso contrario si
accorciano per portare la menaide più in superficie. Nello stesso tempo si
tiene conto della direzione.
Per
la pesca del pesce azzurro, il pescatore deve tener conto anche delle correnti
marine e quindi conoscerne il luogo, il momento, la direzione e la profondità.
Le dominanti sono: quella di levante, proveniente dalla foce del Garigliano,
costeggia il litorale di Formia , prosegue nell'interno della rada e si disperde
a Punta Stendardo; quella di ponente si sposta in direzione opposta, ma più al
largo. Tener conto della direzione del vento è ugualmente importante.
La
menaide è una rete semplice, con maglie tutte della medesima grandezza, nella
quale il pesce resta impigliato con gli opercoli. Quella gaetana è di due tipi,
per le sarde e per le alici, ma ve ne possono essere per altri tipi di pesce
azzurro.
La
rete per le alici è composta di 24 maglie a palmo, quella per le sarde di 21-22
maglie. Le alici passano indenni attraverso le maglie grandi, mentre le sarde
sono troppo grandi per rimanere impigliate nelle maglie piccole.
I
mesi più favorevoli per la pesca delle alici sono maggio, giugno e luglio; per
le sarde tutti i mesi sono buoni.
Dal
galleggiamento delle pàine
il pescatore valuta la quantità di pesce impigliato nella rete: più le pàine
affondano
più pesce c'è.
La
barca
La
barca usata per la pesca della menaide viene chiamata menaite
essa
stessa; è lunga 7 metri circa (30 palmi) e porta un equipaggio di 4 marinai,
detti menaitaruoglie
e
un ragazzo, gliu
uaglione, che
ha il compito di accuttà
l'acque, aggottare
l'acqua che le reti bagnate lasciano colare all' interno della barca e che si
raccoglie nella marapesce',(1)
Marapesce:
bassa
paratia stagna che non permette il passaggio dell'acqua imbarcata con le reti
dalla parte poppiera al resto della barca. Tra essa e il madiere vicino si
raccoglie l'acqua che vi affluisce attraverso gli ombrinali.
usando
la sàssele
(séssola
o gottazza). Inoltre si presta a tutti gli altri piccoli servizi, primo fra
tutti il rifornimento dell'acqua da bere in appositi contenitori di terracotta (ammùmmeglie),
con
bocca piccola, che la conservano fresca.
La
pesca è favorita dal tempo buono. All'alba bisogna trovarsi sul luogo perciò
la partenza avviene a notte fonda, da mezzanotte all'una, in direzione di
levante sino alla foce del Garigliano e oltre, alcune ore al remo.
I
delfini
L'assalto
dei delfini durante la pesca non è raro; a uno deve capitare e guai al
malcapitato. Gli animali girano al largo e aspettano il momento buono, e quando
si accorgono che la rete può assicurare un abbondante pasto di sardine, si
scatenano e divorano i pesci strappando le reti e procurando gravissimi danni
che costeranno al pescatore denaro e fatiche.
Il
guadagno
La
pesca delle sardine non è mai sicura, riserva sempre delle sorprese, in quanto
il ricavato varia da qualche diecina di chili a diversi quintali. Se il pesce si
prende, si cala la rete due o tre volte e poi si rientra; altrimenti si fanno
tante calate (ittate de rezze) una
dopo l'altra e in posti diversi, cercando di ricuperare almeno quel poco per non
tornare a mani vuote, senza manche
na cole de sarde (senza
neppure una coda di sarda).
Tra
i pescatori si racconta di S. Andrea, protettore dei
menaitaruoglie, che un
giorno pescò tante sarde da potersi far cucire un cappotto nuovo, ma poi non
poté mai guadagnare abbastanza per comperare un bottone mancante e continuò a
provvedere con un filo di spago.
Infatti
possono capitare periodi di magra e si fa debito alla bottega, aspettando la
giornata buona. Le donne di casa, pur di arrotondare le entrate, producono
cordami per non far mancare un sigaro e un bicchiere di vino al marito, vino che
i ragazzi non conoscono.
Nella
Piaje
esistono un centinaio di menaidi,
che danno lavoro quasi all'intero rione.
La
campagne
Approssimandosi
l'estate, stagione propizia, una parte delle menaidi parte per la campagne,
ossia si trasferisce a pescare
verso il nord. I pescatori partono con la speranza di tornare a casa con un
discreto gruzzolo, sottoponendosi essi stessi e le famiglie a grosse privazioni.
Partono dopo Pasqua, a primavera inoltrata quando, passati i mesi freddi, si
può dormire sotto la vela, per materasso la sabbia della spiaggia. In caso di
pioggia si rifugiano sotto una tenda oppure sotto prora, la parte anteriore
della barca parzialmente riparata da una coperta di legno.
Si
fermano di preferenza ad Anzio (Puorte
d'Anze), Santa
Marinella, Castiglione della Pescaia, e si spingono sino a Livorno, Viareggio e Portovenere
nel golfo di La Spezia. Altri trovano conveniente andarci e prestare il loro
lavoro sulle menaidi locali che offrono salari più remunerativi. Durante la campagne
la vita dei menaitaruoglie
è dura, nonostante siano i mesi
più favorevoli dell'anno. Non solo devono lavorare, ma provvedere a se stessi e
quindi fare la spesa, cucinare, lavare le stoviglie e gli indumenti,
spidocchiarsi l'un l'altro, niente tempo libero, niente svaghi.
Rientrati
dalla pesca, stendono le reti ad asciugare, perché, essendo di cotone,
marcirebbero; se è necessario le distendono sulla spiaggia e rammendano dove si
è prodotto qualche strappo; ogni 15 giorni danno la tinta alle reti, come tutti
gli altri pescatori, perché si conservino più a lungo.
Per
pranzo, zuppa di sarde e sarde arrosto, il pranzo più economico e più
sbrigativo, preparato sul posto, seduti sulla sabbia; oppure cazze
anniate, pane
bagnato condito con sale, olio, aglio e peperoncino forte; e se il pane è duro,
trònele
(tuoni) ossia la medesima zuppa ma
con acqua bollente; sempre così : «pane
e rene» si ripetono amaramente.
Se
capita il mare grosso e non si pesca, c'è tempo per cucinare: su un treppiede o
su due sassi si colloca la pentola con i fagioli per preparare il bàino
(zuppa) o la minestra di pasta e
patate. Un bicchiere o uno e mezzo di vino ai marinai, al
uaglione solo mezzo bicchiere
oppure acqua semplice.
Interrompono
la campagna e tornano a casa per una settimana in occasione della festa del
Cristo.
Ripartono
per la iscitelle (piccola
uscita) periodo più breve , che durerà fino a qualche giorno prima del 27
settembre, festa di S. Cosma. I mesi freddi conviene trascorrerli a casa.
LA
LAMPARA
Alla
fine del secolo, questo semplice e primitivo tipo di pesca, condotto con
l'ausilio della sola rete, si arricchisce di un nuovo mezzo, la luce prodotta da
una lampada a gas acetilene, che permette la pesca permanente di notte e
contribuisce a una maggiore quantità di pescato e di conseguenza a una maggiore
tranquillità economica della categoria.
Alla
barca grande si aggiunge un piccolo gozzo a rimorchio, guidato da un pescatore e
recante a poppa una grossa lampada. Così le menaidi pescano ogni notte; escono
a vela tutte insieme il pomeriggio, spinte dal ponente, per trovarsi al tramonto
sul luogo della pesca. Innalzano una vela latina che poi smontano completamente,
sistemando albero e antenna su due forche situate lungo il bordo, sulle quali
trovano posto anche i remi.
Con
la lampada accesa, il gozzo getta l'ancora e aspetta. Il marinaio osserva sotto
di lui e a un certo momento vede salire a galla delle bollicine indicanti la
presenza delle sarde richiamate dalla luce. Dalla quantità delle bollicine,
stima a quale profondità si trovano e lo comunica ai compagni della menaide, i
quali, regolate le pàine
della colonna, calano la rete, non più ad arco, ma tutto a cerchio intorno
al gozzo. A questo punto il marinaio del gozzo, vogando, esce dal cerchio. Le
sarde seguono la luce e vanno a impigliarsi nelle maglie della rete che le
circonda. Quando il capobarca decide, non resta che tirare la rete a bordo.
LE
REZZELLE
Le
rezzelle sono reti
trimagliate, cioè del tipo composto da una rete con maglie strette (ceche),
interposta tra due
reti a maglia larga (chiare).
Ce
ne sono diversi tipi, differenti tra loro per la grandezza delle maglie, da
usare per la cattura di differenti specie e grandezze di pesci.
La
launere, rete per la
pesca dei laune
(latterini), ha le maglie centrali
molto ceche,
è lunga 20 passi circa e alta da 2 a 3 passi.
La
rezzelle cecarelle per
le triglie monta una rete centrale con maglie più grandi della precedente, 18 a
palmo, lunga 24 passi e alta uno.
Un
terzo tipo ha la rete centrale con maglie di 12 a palmo, ancora piu larghe della
precedente, ed è usata per la pesca delle triglie più grandi.
Nei
tramagli i pesci piccoli restano impigliati con gli opercoli nelle maglie,
quelli più grandi si insaccano (nzàcchene),
cioè urtando con una certa violenza contro la rete stretta, la trascinano
dentro una delle maglie grandi della rete opposta, formando un sacco nel quale
restano prigionieri senza poterne più uscire.
Con
queste reti, è chiaro, non vengono catturati soltanto i latterini e le triglie,
ma tutti gli altri pesci che vivono in quel tratto: seppie, sparaglioni,
fragolini, sogliole.
Fa
parte ancora delle rezzelle la
«rete maritata», rete composita detta rezza
ngarzellate. È
composta di due tipi di reti cucite l'una sull'altra: la superiore, schette
da coppe, a
maglia semplice alta da 50 a 300 maglie di 11 a palmo, l'inferiore
trimagliata con rete centrale alta 50 maglie anch 'esse di 11 a palmo: tutta la
rete è lunga 18 passi. Sia nella parte superiore che in quella inferiore, si
prendono tutte le specie di pesci o impigliati (ngarbugliate)
nella prima o insaccati nella
seconda.
Queste
reti, come tutte le altre, portano i soliti piombi e sugheri che le tengono
verticali. Sono reti da posta fisse, cioè che toccano il fondo e formano uno
sbarramento verticale contro il quale i pesci vanno a urtare. Vengono calate in
fondali da 3 a 30 metri e lungo tutto il litorale, da Gianola, a levante, sino
alla Punta dello Scarpone, a ponente. Questi limiti vengono sorpassati qualche
volta, ma costa più fatica di remi.
La
disposizione rispetto al lido è indifferente, dipende dalla fantasia del
pescatore in quel momento e può essere
da terre a i fore, in
direzione ortogonale alla costa, oppure chiattiate,
parallela alla costa.
Uno
dei tratti preferiti si trova a tre miglia a largo dell'Ariana dove esiste la
prane, un
rilievo del fondo marino, che si solleva di 10-15 passi su un fondale profondo
dai 60 ai 70 passi.
La
prane si
estende con forma molto irregolare e scabrosa dalla prete
de terre (pietra
di terra) alla prete de fore (pietra
di fuori) per 450 passi e misura in media 150 passi di larghezza. La zona
è assai ricca di fauna marina che ci vive e si riproduce indisturbata, perché
le paranze non ci possono transitare con la rete calata.
Pescare
con le rezzelle sulla prane costa
un'enorme fatica al pescatore che deve recuperare le reti da una profondità
molto grande. Ma la prane
abbonda di pesci e la fatica è
ricompensata.
Si
prendono pesci di buona qualità come cernie,
aurate, spìnele, rèntece, frauline, màrmele, turde, schiante, pèrchie,
carnùfeglie, scuérfene, cuocce, marevizie, uarracine russe, treglie, prepune,
secce, calamare. Ma i pescatori
soprattutto ci vanno perché si prendono raoste
(aragoste) e liune
(astici).
GLIU
PIEZZOTTE
Piccola
rete trimagliata, simile alla rezzelle,
lunga 10-15 ed anche 20 metri,
alta 1 - 1,5 metri, con rete centrale a maglie piccole. Il pescatore scalzo
scende in acqua e cala il piezzotte
vicino la riva intorno agli
scogli.
Poi
con una sbarra, facendo leva, smuove gli scogli scacciando pesci e granchi dalle
tane. Questi, spaventati, scappano e finiscono insaccati nella rete.
Si
catturano tregliozze, vavose (bavose),
pittele, ghiozzi ed anche
castagnole e papiglie,
due buone qualità di granchi.
GLIU
VÒLLERE
La
pesca del cefalo si fa con una rete particolare chiamata vòllere,
composta da una comune rete
trimagliata e da una seconda rete, la
cannate, anch'essa
trimagliata che, sostenuta da una serie di canne, si regge a galla
orizzontalmente.
L'intera
rete verticale con sugheri e piombi, gliu
vòllere che dà il nome al
sistema, è lunga 200 passi ed è composta da più pezzi lunghi ciascuno 20
passi. È
alta 10 passi
e al centro del trimaglio monta una rete stretta (ceche)
di 11 maglie a palmo. Fino a poco
tempo fa il vòllere
era una rete semplice e non
trimagliata.
La
cannate monta una rete dello
stesso tipo, è larga un passo e mezzo e le canne sono disposte alla distanza di
60 centimetri l'una dall'altra. Non ha bisogno di altri accorgimenti, bastano le
canne per garantirne l'uso a cui sono destinate.
Un
branco di cefali si fa facilmente notare, anche da chi non se ne intende, per il
ribollire della superficie provocato dai loro salti e dal frenetico rincorrersi
a pelo d'acqua. Le barche sono tre gozzi di 21 palmi,
Quando
i pescatori li avvistano, i due gozzi che portano ciascuno metà del vòllere
si muovono contemporaneamente
dallo stesso punto in direzione opposta e remando in fretta circondano (cégnene)
i pesci.
Ma
una volta circondati, i cefali salterebbero in massa al di sopra dei sugheri e
perciò la terza barca con la cannate
li segue
immediatamente e incomincia a mollarla dalla parte esterna ma combaciante con i
sugheri del vòllere.
Terminata
la cente,
un gozzo entra nel
recinto; vogando, i pescatori battono i remi, mentre un terzo a destra e a
sinistra batte la superficie con una pertica. I cefali scappano allarmati in
cerca di una via. In parte finiscono insaccati nel vòllere
insieme ad altri
pesci; molti altri però si accorgono della rete e cercano di superarla
saltandoci sopra. Ma invano, finiscono prigionieri della cannate.
Tuttavia i cefali
sono bravi saltatori e qualcuno riesce a farla franca superando l'insidia della cannate.
La
pesca del cefalo si fa dovunque si incontrano, in fondali entro i 10 passi e in
qualsiasi ora del giorno e della notte. Di notte non si vedono, ma denunciano la
loro presenza con un rumoroso sciacquio: tanto basta al pescatore per
individuare il branco e fare la cente.
La pesca abituale avviene nelle
acque del golfo, sia a levante che a ponente, da Gianola a Sperlonga, entro un
raggio che a remi si può coprire in tempo per rientrare a casa e consegnare il
pesce al magazziniere.
Ma
i pescatori si spingono anche a Terracina, agliu
monte (al
Circeo), sino ad Anzio e a Castieglie
(Castel Volturno). A casa non
possono rientrare entro la giornata e perciò restano fuori 2-3 giorni di
seguito ed anche 10-15 se si spingono nei luoghi più lontani, dormendo alla
meglio sotto la prora della barca o sotto la tenda. Il pesce lo danno sempre al
proprio magazziniere che con un carretto giornalmente va a prelevarlo sul posto.
Tra
i cefali pescati ci sono mattarieglie
(cefalo verzelata), vàreche
(cefalo calamita), lustre
o vangare
(cefalo dorato), cèfere de
prete (cefalo bosega).
IL
GIACCHIO
Il
giacchio (iacche)
è una rete molto diffusa,
conosciuta anche nell'antico Egitto. Ha forma conica con un diametro da 2 passi
a 2,5. Al vertice è legata una corda, lunga 4-5 metri, e dall'altra parte è
cucita una ralinga con i piombi detti cannuoglie,
cioé tubiformi lunghi un 7
centimetri, o con piombi a piastrelle, piccole strisce piegate e strette
intorno alla ralinga.
Si
pesca stando a terra in fondali bassi, 1 - 1,5 metri di profondità, oppure
scendendo scalzi in acqua sulla spiaggia.
Il
pescatore raccoglie la rete ben ordinata sul braccio sinistro, con la corda del
giacchio legata al polso, e poi la lancia facendola roteare in aria in modo da
farla cadere in acqua quanto più larga possibile. La buona riuscita del lancio
dipende dal mignolo sinistro che non fa partire la rete tutta insieme (mballate),
ma la libera progressivamente,
facendola cadere in acqua a forma di ruota e non a caniscione
(panzarotto) ossia accartocciata
su se stessa. I piombi toccano il fondo e il giacchio imprigiona tutto quanto
gli capita sotto. Il pescatore lo ricupera tirando la fune e poi la rete che,
adagio adagio, strisciando con i piombi sul fondo, si restringe completamente.
Ma
non tutti i pesci verrebbero catturati se il giacchio non fosse fornito di un
ulteriore accorgimento: le chelonne.
Sono un centinaio di pezzi di
spago sottile, lunghi 40 centimetri, legati con un capo alla ralinga e con
l'altro più in alto alla rete. Essendo più corti della distanza a cui sono
legati, formano una specie di sacco lungo tutto il perimetro. Così che il
pesce, mollusco o crostaceo che sia, che non resta impigliato nella rete non
può sfuggire al sacco. E per questo è chiamato castighe
de Die (castigo di Dio), non si
salva nessuno.
Per
pesci piccoli, (ghiozzi, cefalotti) si usa una maglia di 24-25 a palmo; per i
più grandi (cefali, spigole, mormore) la maglia di 21.
A
CEFALO
Il
cefalo si pesca da terra con una canna particolare, la quale porta legata
all'estremità un fascetto di crini di cavallo, gliu
fiocchette, lungo
all'incirca 10 centimetri. Alla fine del fascetto è legata la lenza di crine
con amo n0 17-18.
Durante
la pesca, il fiocchette
deve trovarsi in posizione
orizzontale perché la toccata del cefalo, che non è avvertibile attraverso la
canna, è denunciata dal suo curvarsi.
Il
pescatore dev'essere molto esperto se vuoi prendere il cefalo. L'esca è un
misto di mollica di pane e di formaggio, impastato sino a che diventi come uno
stucco. Con una pallina di questo impasto si innesca l'amo, che ne rimane
interamente nascosto.
Un
altro modo per pescare il cefalo è quello della survaiole.
Si
tratta di un sughero circolare di una decina di centimetri di diametro, cui si
applicano un' asticina di legno di pochi centimetri al centro della faccia
inferiore e una serie di ami lungo il bordo.
AlI'
asticina si lega del pane e la survaiole
si lascia a mare, non molto
distante dalla riva; il pescatore ne molla più di una e le sorveglia dalla
barca, mentre flottano liberamente.
Il
cefalo, attirato dal pane, accorre per mangiarlo, ma muovendosi circondato da
tanti ami, va a finire che resta agganciato a uno di essi.
Il
pescatore, che tiene d'occhio i sugheri, si accorge dei suoi tentativi per
liberarsi e si affretta a catturarlo.
A
SGOMBRO
La
tenne, così è
denominato un tipo di sgombro (Scomber
scombrus migliore del parente Scomber japonicus colias detto lacierto),
si pesca dentro il golfo, a una profondità media di circa 20 passi.
L'esca
è la sarda. Arrivato sul posto prescelto, si pesca nell'intera rada sino al
Garigliano, il pescatore cala l'ancora e getta alcune lenze a profondità
differenti. Deve accertarsi a quale profondità lo sgombro è di passaggio in
quel momento.
Se
capita bene e gli ami incappano in un branco, la pesca è abbondante.
Per
attirare le tènne,
appena gettata l'ancora, il
pescatore sparge intorno lo spreminge.
Si tratta di una pasta ottenuta
sminuzzando frammenti di qualsiasi qualità di pesce. La pasta si diffonde nelle
acque vicine, è avvertita dagli sgombri, che accorrono e trovano l'insidia
dell'amo.
A
FRAGOLINO
La
pesca a fragolino, detta a vuluntine,
si fa con una lenza munita di un
piombo di 150 grammi e due ami n. 15, legati a un filo di seta, distanti cm. 20
l'uno dall'altro.
Le
esche più comuni sono il gambero, il paguro (mazzemarieglie)
e la capetròppe
(seppia molto piccola e con testa
grande).
Si
pesca da Monte Orlando in fuori, sino alle secche.
Si
dice pesca a fragolini, ma si prendono anche l'orata, il carnùfegIie,
il pezzente, lo spicarieglie, il mafrone.
A
GRONCO
Il
gronco (ruonghe)
si pesca con un filaccione senza piombo, con amo n.10, innescato con sarda o
altro pesce.
L'amo
si cala con l'aiuto di una canna negli anfratti degli scogli delle gettate
costiere. Il pescatore usa più lenze.
Quando
il gronco riesce a ritirarsi nella tana, offre una forte resistenza ed è più
difficile tirarlo fuori.
A
ROMBO
Per
il rombo (rumme)
si adoperano un filaccione lungo
una cinquantina di metri, con piombo di 200 grammi, e 3-4 ami innescati con
sarde.
Stando
sulla spiaggia, il pescatore getta più lenze distanti tra loro 10-15 metri,
lanciando il piombo più al largo possibile.
Di
tanto in tanto prova se qualche pesce ha abboccato a una delle lenze. Con il
rombo si pescano anche la spigola, l'orata, il sarago e altri.
AD
ANGUILLA
La
pesca alle anguille si fa con la mazzacche,
un sistema in cui non c'è bisogno
dell'amo.
La
mazzacche
si ottiene con un certo numero di
lombrichi, infilati con un ago ad un unico filo, uno dopo l'altro dalla testa
alla coda.
Ottenuta
una catena di lombrichi, si piega a sezioni di un 8 centimetri che si legano
insieme, ottenendo un mazzetto di vermi pendenti da un filo, la lenza.
Si
pesca da terra con una canna, con mare mosso e acque torbide (trole)
su fondali fangosi. Le anguille
abboccano un lombrico e il pescatore, sentendo la toccata, deve essere abile ed
esperto a sollevare l'anguilla nel momento giusto, perché, mancando l'amo, non
resta agganciata ma si libera con il suo peso dal lombrico ingoiato.
La
deve sollevare senza strappo, quasi accompagnandola; infatti l'anguilla cade da
sé sulla banchina e il pescatore l' afferrra immediatamente prima che
strisciando se ne scappi nuovamente a mare. A volte capita che si sganci prima e
l'anguilla anziché sulla banchina cade direttamente in acqua.
IL
PALAMITO
Il
palamito (dal greco polymitos,
molti fili) è un attrezzo da
pesca, lungo anche diversi chilometri, formato da più parti, dette coffe,
legate una di seguito all'altra. E
detto anche palangaro (dal greco polyanchistron
composto di poly
e anchistron,
molti ami) palangalo, palangrese, da cui palànghese,
il nome che prende a Gaeta.
La
coffe (coffa) consiste
in una cordicella di canapa (felaccione)
lunga cento metri detta trave
',alla quale sono legate con un
nodo detto nocchetelle,
a distanza regolare di un 4 metri,
cordicelle più sottili (racciuoglie
o vracciuoglie)
lunghe 2,5 metri, recanti un amo legato alla estremità.
Ogni
coffe 2
viene
abbisciata in cerchi in una cestella rettangolare, da noi detta anch'essa coffe,
nello scomparto più capiente dei
due in cui è divisa da un listello di sughero (la
surve), nel
quale vengono infissi, bene ordinati, gli ami in attesa dell'esca.
I
principali tipi di coffe
sono quelli per la pesca del
merluzzo, dei ghiozzi e dei pesci pelagici.
(1)
La trave può essere formata da più pezzi di felaccione che si
legano tra loro con un doppio nodo di amo detto caperture.
(2)
Dall'arabo quffa (cesta) e questo dal greco Kòphinos (cofano, cesta) dal
quale anche il nostro cuòfene, grossa cesta.
Per
la pesca del merluzzo, la coffa è interamente di canapa, trave
e racciuoglie,
porta ami n. 8 innescati con sardine, seguendo l'ordine in cui sono infissi
nel sughero, e quindi deposti nello scomparto minore della cestella.
La
pesca, sempre se il mare lo permette, avviene a 4 miglia ed oltre dalla costa in
direzione di libeccio, verso le isole Pontine, in acque profonde 80 e più
metri. Si buttano da 30 a 40 coffe legate una di seguito all'altra. Più il mare
è calmo e più agevole è la pesca, permettendo la calata di un maggior numero
di coffe.
Le
coffe vanno a posarsi sul fondo marino e al recupero si trovano agganciati non
solo merluzzi, ma anche gronchi (ruonghe),
caponi (cuocce),
palombi (pagliumme),
gattucci (storze),
razze (raje)
ed altri pesci di fondo.
La
serie delle coffe, costituenti il palamito, formano, come si è detto, un cavo
lungo alcuni chilometri, che non viene calato a caso, ma secondo un intelligente
criterio che riduce al minimo il tempo per il recupero.
Il
palamito viene calato a forma di una grande M con 4 galleggianti, le
pàine , 2 legate alle
estremità corrispondenti ai piedi e 2 ai vertici della M.
Le
pàine
sono formate da 2 o più quadrati
di sughero sovrapposti:
l'inferiore
di 40-50 centimetri dilato e gli altri di misure decrescenti, con uno spessore
di 2-3 centimetri ciascuno. Al centro è infissa un'asta reggente una bandierina
di stoffa in modo da riconoscerla da lontano. Ad ogni pàine
è fissata una corda con un sasso
legato all'altra estremità, il quale, toccando il fondo, trascina con sé il
palamito.
Al
sasso della prima pàine
è fissato il capo
del palamito, alla quarta pàine
è fissata la fine. Le altre
2pàine segnano i vertici della M detti gerate
da fore.
La
seconda curva che, rispetto alle precedenti viene a trovarsi più vicino alla
costa, è detta gerate de
terre.
Al
momento del recupero, i palanghesane
cominciano col tirare a bordo la
seconda e la terza pàine,
che portano con sè i quattro bracci formanti la M. Ogni due marinai si
incaricano di un solo braccio e tutto il palamito con il pesce, che a mano a
mano viene sganciato, è recuperato in un quarto del tempo occorrente se si
fosse incominciato dal principio del palamito e continuato sino alla fine.
La
pesca al ghiozzo
La
pesca al ghiozzo (mazzone)
si fa con un palamito composto da un trave più sottile, i racciuoglie
di crine di code di cavallo,
lunghi un ottanta centimetri e gli ami più piccoli n. 15.
La
pesca si esercita entro il golfo tra Gaeta e Scauri, a una profondità da 15
metri in poi, innescando gli ami non con sarde (i ghiozzi non abboccano con
questa esca) ma con vermi, preferibilmente lombrichi, di cui sono ghiotti.
La
pesca pelagica
Il
palamito per la pesca del pesce pelagico (pesce spada, tonno, palamita) è
simile a quella per il merluzzo, con trave
e racciuoglie di
canapa delle stesse dimensioni; differisce solo per la grandezza dell'amo, il n010
anziché il n. 8, e anch'esso viene innescato con la sarda. Il modo di calarlo
è diverso, non sul fondo ma sorretto in superficie da una serie di sugheri
disposti a distanza di 10-15 metri.
Tra
un sughero e l'altro si forma un festone, che dalla superficie scende
gradualmente sino a qualche metro sotto il pelo dell'acqua nel punto più basso,
per risalire al sughero successivo. Più la corrente è forte, più tesi
risultano i festoni del palamito.
Si
incomincia a gettare in acqua la
pàine con
la bandierina ancorata a un peso e, quindi, partendo da una distanza di un 300
metri dalla riva, si cala il palamito (20-30 coffe) sempre allontanandosi verso
il largo (da terre a i fore)
in modo da intercettare il pesce
di passaggio lungo la costa. Una seconda pàine,
anch'essa ancorata a un peso, è
assicurata alla fine del palamito. Finito di calare il palamito, i marinai fanno
colazione, si riposano un po' e poi lo ritirano a bordo.
La
barca
La
barca adoperata, essa stessa detta palànghese,
è lunga 8-9 metri. Porta un
equipaggio di 8 pescatori detti palanghesane.
La pesca è possibile solo con
mare calmo e in punti lontani da raggiungere, il più delle volte, a forza di
remi. La vela latina, con albero e antenna smontabili, che darebbe noie durante
la pesca, viene adoperata solo quando il vento è favorevole. Prima di uscire
per la pesca i marinai sono tutti impegnati a innescare le migliaia di ami, a
rivedere le coffe e a sostituire glie
vracciuoglie e
gli ami mancanti. Il pescatore prende un amo alla volta, seguendo l'ordine in
cui sono infissi nella surve
e, infilzataci l'esca, sardina o
verme, che nasconde l'insidia al pesce, lo depone nella parte libera della
cestella. La sarda viene innescata infilando la punta dell'amo prima da un
occhio all'altro e poi nel corpo con tutto il resto dell'amo.
Al
tramonto uno di loro si reca su Montesecco, nei pressi della croce
(1)
È
una croce di ferro in cima a un
piccolo obelisco che si trova
sulla sommità di Montesecco. Da
quel punto lo sguardo può spingersi all'interno e all'esterno della rada sino
all'estremo orizzonte. Dalle condizioni del mare a Serapo e dall'addensarsi
delle nuvole dietro le quali il sole tramonta, dipende se il mattino successivo
si esce o meno per la pesca.
La
croce segna il luogo di sepoltura di un convento demolito il 1707 perché di
impaccio alla difesa della città.
dà
una guardata al mare di Serapo per accertarsi che a ponente le condizioni sono
tali da garantire la pesca. Il mattino dopo si parte presto, dalle 4 alle 5, e
dopo un 3-4 ore di remi si raggiunge il posto stabilito per quel giorno; si
rientra alle ore 21-22.
Quando
manca l'esca, un marinaio si reca a Serapo per comperare le sarde dai rezzaiuoli
che tirano la sciabica della prima
cala e poiché per innescare le coffe occorre del tempo, in questo caso partono
dalle 10 alle li per rientrare alle 24.
Tornati
dalla pesca, ogni marinaio si porta a casa due coffe per riordinarle e metterle
in efficienza per il giorno seguente.
Il
pescato si vende ai magazzinieri che provvedono all'esportazione. Il ricavo,
tolta la parte spettante al proprietario del
palànghese, viene
diviso in parti uguali tra i marinai.
LA
NASSA
La
nasse è
una gabbia di giunchi a forma di campana allungata (60-70 centimetri), che i
pescatori intrecciano da sé.
La
faccia grande è fatta a imbuto rientrante e termina con uno stretto orificio,
che permette al pesce l'entrata ma non l'uscita; la faccia piccola è provvista
di uno sportello che serve per recuperare il pescato.
All'interno
della nassa si mette l'esca, sarde o altri pesci, ed anche alcune pietre per
mantenerla a fondo. Il pescatore ne cala parecchie, da dieci a venti, a poca
distanza dalla costa, legate con una corda a circa tre metri l'una dall' altra.
Ci prende tutte le specie di pesci presenti nei paraggi, tra cui anguille,
ghiozzi, polpi ed anche murici (scungiglie).
GLIU
NASSETIEGLIE
Il
nassetieglie è
una trappola a forma di tronco di cono, adoperata per catturare maruzzieglie
(lumachine marine) e ciammarrùchele
de mare, lumache
di mare assai simili alle terrestri.
Si
cala col buio, tra gli scogli costieri e con l'esca legata al centro, tenendo la
con un filo di spago. Il cerchio posa sul fondo con la rete piegata di Sotto. Il
pescatore ne cala diverse e a intervalli va a tirarle.
La
pesca è a gamberetti di scoglio, ma si prendono anche dei granchi.
LA
TRAINA
A
polpi
Per
la pesca al polpo, il pescatore, con un gozzo di 16-20 palmi, remando lentamente
si trascina dietro la trame,
consistente in uno spago alla cui estremità è legato un piombo cilindrico
di 5 centimetri. Insieme con il piombo sono fissati alcuni pezzi di spago, sino
a quattro, ai quali si lega l'esca: granchi o pezzi di gronco.
Il
pescatore segue le coste rocciose da i metro a 30-40 metri di distanza, dietro
Monte Orlando e da Serapo a Capovento. Pesca anche dentro il golfo a qualche
chilometro al largo.
Il
piombo della trama striscia sul fondo insieme all'esca.
Nel
primo caso continua a tirare sino a che il polpo avvinghiato all'esca sale al
punto giusto per essere imprigionato con il cuoppe e rovesciato a bordo
nella marapesce.
Di solito capita così con un
polpo di modeste dimensioni, ma se è grande, il pescatore, che se ne accorge
dalla resistenza opposta, rischia di perderlo ed allora cala la purpare
con l'esca più appetitosa e
abbondante.
Il
polpo si avventa sul boccone che nasconde l'insidia e per lui non c'è scampo,
la fine è sicura, perché la
purpare è
formata da 4 ami legati con il gambo a un cilindro di piombo - lungo 5-6
centimetri e grosso come un dito e disposti a croce come le marre di un
ancorotto. Oppure gli ami fanno tutt'uno con il cilindro stesso per i gambi
inglobati nel momento della fusione del piombo.
I
polpi pescati sono quelli di scoglio, i cosiddetti veraci.
Nei
mesi estivi si prendono i piccoli, da mezz'etto a mezzo chilo,e la purpare
porta ami n. 10. D'inverno si
prendono i grandi sino a 10 chili ed oltre, seppure raramente, e la
purpare monta
ami n. 5.
Se
invece del polpo la trama è rimasta impigliata a uno scoglio, il
Il
pescatore remando si porta dietro contemporaneamente due trame, una con la mano
destra e l'altra con la mano sinistra, strette insieme con l'impugnatura (ciglione)
dei remi.
Se
c'è un secondo pescatore questi controlla una terza trama stando a poppa.
A
volte capita che il polpo si rintana e non si riesce a tirarlo in superficie. In
questo caso il pescatore ricorre a qualche sostanza irritante che lo costringa a
uscire all'aperto.
A
seppie
La
pesca a trama per le seppie richiede innanzi tutto una seppia femmina che il
pescatore sa distinguere e, quando la pesca, la mette da parte e la mantiene in
vita. La seppia maschio ha corpo allungato e sacco viscerale che tende al colore
verde, mentre la femmina ha corpo più arrotondato e sacco viscerale tendente al
rosso. Con ago e filo le applica nel posteriore un anello al quale lega un filo
di spago che porta un piombo 20 centimetri più avanti.
La
molla in mare e se la trascina dietro, remando lentamente, a una profondità di
1-1,5 metri sotto il pelo dell'acqua. La seppia trascinata dallo spago procede a
ritroso, la sua andatura naturale. È
notata dai
maschi i quali si attaccano ad essa. Il pescatore si accorge della presenza
della seppia maschio quando la trama, dalla posizione verticale alla quale è
costretta dal piombo, si sposta un po' all'indietro per la resistenza opposta.
Quando questo avviene, il pescatore, che vigila attentamente, prende la coppia
delle seppie con il «coppo», recupera il maschio e rimette la femmina in mare
continuando la pesca.
La
seppia, manipolata continuamente, capita che muore e allora bisogna sostituirla.
Il pescatore ne ha delle altre di riserva, che mantiene vive in un grosso
secchio pieno di acqua marina, rinnovata a giusti intervalli.
La
pesca si fa dalla calata del sole sino a che è possibile e dall'alba sino al
sorgere del sole. Con la luna si può pescare l'intera nottata. Si pesca lungo
la costa, a poca distanza.
A
spigole
La
pesca a trama alla spigola si fa tirando si dietro una lenza fatta con
La
trama non è provvista di piombi quindi si mantiene a fior d'acqua. Quando la
spigola abbocca il pescatore se ne avvede facilmente.
Egli
conosce bene le preferenze della spigola e ha imparato il modo giusto di
preparare l'esca: gamberi vivi catturati la notte con la Ièppeche
tra gli scogli vicino la riva,
mantenuti in un secchio pieno di acqua marina.
Perché
si mantenga vivo il gambero non viene infilzato completamente nell'amo, come di
solito si fa con le altre esche, ma viene innescato solo per la coda, quindi gli
resta la possibilità di muoversi.
La
pesca cu la gliuce (con
la luce) si fa accendendo della legna su una grata metallica, sorretta da una
coppia di barre di ferro, sporgente mezzo metro fuori la poppa del gozzo. Il
pescatore si sposta molto lentamente lungo la costa, attirando i pesci che dal
fondo salgono in superficie sotto la luce del fuoco. Sono in prevalenza
molluschi: calamari, polpesse, polpi muscarieglie.
Quando
si trovano a tiro, li cattura con la fiocina (lanzature)
oppure, se lo ritiene opportuno,
li aggancia con una canna munita alla punta di quattro ami legati per il gambo,
insomma una purpare
realizzata con la canna anziché
con il piombo.
Se
avvista un calamaro o un totano, cala la calamarare,
simile alla purpare,
ma con una ventina di ami anziché
quattro. Non mette l'esca, ricorre a un inganno avvolgendo il piombo con uno
straccio bianco ricoperto da uno strato di cera. Il mollusco lo scambia per una
preda e l'afferra con i tentacoli. Il pescatore tira e il calamaro resta
agganciato.
Il
pescatore porta anche gliu cuoppe
sempre utile nel caso che si
tratti di una preda grande o che rischi di sganciarsi.
Gliu
cuoppe è
un sacchetto di rete cucito attorno a un cerchio, con manico lungo di legno,
simile alla rete per catturare le farfalle, ma più grande e resistente.
Il
vecchio sistema della luce prodotta dal legno è stato sostituito con le moderne
lampade a gas acetilene.
-
Muntagne ngasciate, tiempe de fore.
-Quanne
l'arie de la Madonne va a truà Gesù Criste è buon tiempe.
Quando
l'aria della Madonna (il monte della Civita) va verso Gesù Cristo (la S ma
Trinità) è buon tempo (tempo secco con venti dal quadrante settentrionale).
-
Quanne l'arie da Gesù Criste va a truà la Madonne è male tiempe.
Quando
l'aria da Gesù Cristo va verso la Madonna è tempo cattivo (venti forti da
mezzogiorno con violenti rovesci di pioggia).
-
Se l'arie cammine da mieziuorne-scerocche e la gliune se presente annacquate è
male tiempe. Spiccimmece e iamme sùbbete a remeggià.
Se
l'aria cammina da mezzogiorno-scirocco e la luna si presenta annebbiata è tempo
cattivo. Spicciamoci e andiamo subito ad ormeggiare.
-
Quanne l'arie se scapiglie e fanne palle dell'arie, viente alla terre.
Quando
si formano piccoli cumuli bianchi a levante, è vicino il vento da terra.
-Monte
ruosse cu la cappe, s'o gge ne' piove dimane ne' scappe Monte
grosso (il Massico) coperto di nubi dense, se oggi non piove domani non scappa.
-
Gliu maiste, o piove o fa chiste
-
Quanne le muntagne stanne accasciate è vicine la sceruccate.
Quando
le montagne (gli Aurunci) sono coperte di nubi dense, è vicina la sciroccata
(venti meridionali).
-
Lebbecce, iamme a Nàpeglie senza mpicce.
-
Arie a rarelle, o scerocche o punentelle.
Aria
a pecorelle, o scirocco o ponentino.
-
Acquazzimme e scerocche-levante, ne, se lévene mai dananze.
-
Uttazze: o acque o viente.
-
Cu gliu currente de levante ne' se leve mai dananze.
-
Tramuntana scure, mittete a mare e vai sicure.