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Età del rame: l’unicità della “cultura di Civate

 

di carlo castagna

 

Le frotte di turisti che, a partire dai primi giorni caldi e soleggiati di primavera, arrivano a Civate, s’avviano inevitabilmente per l’erto sentiero che conduce all’antico complesso abbaziale di San Pietro. Ben pochi, infatti, sanno che la storia di Civate è iniziata già decine di secoli prima della costruzione della famosa basilica montana, lasciandoci numerose tracce della presenza umana che risalgono ben al terzo millennio avanti Cristo. E’ dunque almeno da allora che ha inizio la speciale e ricchissima storia del territorio civatese e forse sarebbe il caso di ricordarsene più spesso, per capire come, a partire da quel momento per giungere sino ad oggi, la nostra storia ha elaborato tante altre preziose  testimonianze della realtà di una vita plurimillenaria che è pronta a farsi scoprire. Due anni orsono, già nel primo semplice articolo dedicato alla conoscenza di Civate, raccontavo della antica presenza del Liguri sulle pendici del Cornizzolo e dei riti solari di cui essi hanno lasciato traccia visibile. Proprio uno dei luoghi interessati a questi riti, anni orsono ha costituito oggetto di indagini approfondite da parte degli archeologi e l’importanza dei reperti rinvenuti, ha addirittura condotto gli studiosi ad affermare che in esso si è sviluppata una vera e propria cultura originale dell’età del rame, la cultura di Civate, che costituisce un anello di congiunzione unico ed insostituibile per conoscere lo sviluppo della storia del vasto periodo neolitico nella nostra regione.

Fu nel lontano 1956 che alcuni speleologi dilettanti di Valmadrera, su indicazione precisa dell’indimenticabile Rocco Castagna, civatese che allora si poteva incontrare quotidianamente intento al lavoro agricolo presso la Cà dè Linaa, di sua proprietà, raggiunsero il cosiddetto Bus de la sàbia (Buco della Sabbia), una caverna ben nascosta e che, se non si era del posto, con difficoltà si riusciva ad individuare e raggiungere sulla parete scoscesa di calcare che domina lo strapiombo affacciato dirimpetto al lago d’Annone. Subito, rimovendo superficialmente il materiale terroso accumulato nel primo vano della fenditura, essi si accorsero che la cavità naturale poteva avere una importanza straordinaria. Infatti, essa non solo si presentava come interessante dal punto di vista speleologico, ma poteva essere oggetto di indagine e di ricerca per gli archeologi. E così fu.

Naturalmente gli archeologi, incaricati dalla Sovraintendenza all’Archeologia regionale e che operavano in collaborazione col Gruppo Grotte Milano, dapprima non furono contenti che qualcuno avesse già rovistato all’interno di quella che si presentava come una grotta preistorica. Tuttavia la quantità di materiale sabbioso, depositatosi nei secoli all’interno della grotta, aveva di fatto mantenuto integro il suo prezioso contenuto.

Gli archeologi erano guidati dall’anziano professor  Ottavio Cornaggia Castiglioni, illustre paletnologo, grande studioso della preistoria, che prima della sua scomparsa, avvenuta nel ’79, ha lasciato dietro di sé, oltre alla chiara fama, anche una settantina di scritti sulle civiltà preistoriche neolitiche e dell'età del bronzo. Il professore universitario, creatore e curatore del Museo di Storia Naturale di Milano, fu conscio immediatamente d’essere di fronte ad una scoperta eccezionale, un nuovo tassello da aggiungere alle sue conoscenze per ricostruire l’evoluzione del periodo eneolitico, cioè un frammento l’età del rame. Infatti, la grotta del Buco della Sabbia non solo gli offriva tracce di resti umani, ma anche una serie di utensili, incisioni e manufatti di un periodo arcaico, cioè una facies dell’eneolitico lombardo, sino ad allora del tutto sconosciuti. L’entusiasmo della scoperta gli fece immediatamente coniare la definizione di Cultura di Civate per indicare l’unicità ed originalità della stessa; definizione che a tutt’oggi è ben nota fra gli studiosi.

Era l’inizio degli anni sessanta e gli scavi nel giacimento, che durarono poi fino al ’64, si svolgevano all’interno della grotta, che si rivelava una minuscola cavità carsica situata a circa 450 metri d’altezza sulle pendici meridionali del monte Cornizzolo, in tempo antico chiamato Pedale. Sulla parete rocciosa a strapiombo si apre infatti una cavità che s’insinua per una quindicina di metri: la luce diretta penetra solo nello spazio iniziale, un primo ambiente che è seguito da altri due, di cui l’ultimo completamente buio, collegati fra loro da stretti passaggi a cunicolo. La penetrazione nelle diverse parti della grotta era resa molto difficoltosa dal deposito di una imponente quantità di terriccio, che con pazienza fu asportato strato per strato. Del resto, proprio la difficoltà dell’accesso e questi depositi l’avevano protetta da atti distruttivi dei soliti ignoti.

Il materiale stratificato, opportunamente sezionato, ha consentito di distinguere due grandi successivi periodi d’uso dei diversi ambienti. La parte superiore era caratterizzata da un notevole ammasso di materiale friabile, sedimento dell’età olocenica (l'epoca geologica più recente, quella in cui ci troviamo oggi e che ha avuto il suo inizio circa 11.700 anni fa), scuro e disseminato di polvere e frammenti rocciosi precipitati lentamente in un periodo di circa tre mila anni a causa dell’azione dell’acqua penetrata da fessure della parete calcarea. La parte inferiore raggiungeva il fondo di roccia: di diverso spessore, di materiale grigio, frammisto a polvere di marna indurita, era riconducibile ad una età tardo pleistocenica (epoca geologica che coincide col paleolitico medio e superiore con la presenza dell’Homo neanderthalensis e dell’Homo sapiens) e non conteneva elementi per uno studio paletnologico. La frequentazione umana della grotta nei millenni è testimoniata dalla presenza di resti di ossa, sia di uomini che di animali, e da oggetti di fabbricazione umana. Tali tracce sono soprattutto presenti nell’ultima cavità completamente buia, che in tempi diversi fu usata come cella funeraria sia per riti di inumazione con la sepoltura dei defunti, che di incinerazione con la conservazione delle ceneri dei defunti. Di quest’ultimo rito si sono trovati in superficie frammenti di piccole urne di ceramica nerastra, presumibilmente usate in età romana, considerando anche il rinvenimento di una moneta del periodo dell’imperatore Gallieno, un antoniniano, risalente al III secolo dopo Cristo. Ciò significa che sino ad allora la grotta venne frequentata, almeno per dare temporaneo rifugio ai soldati di vedetta sul dosso della guardia. Altri resti di vasi di ceramica giallastra o scura, con i bordi decorati con semplici incisioni o coppelle, venivano rinvenuti qualche centimetro al di sotto e risalgono al tardo periodo della Civiltà del Bronzo di questi territori. Sotto di essi, su uno strato più duro di materiale, si scopriva una vera e propria necropoli ad inumazione, con resti umani e corredi funerari.

Le inumazioni avvenute nel Buco della sabbia, si presentano secondo le principali caratteristiche del periodo eneolitico, cioè con i corpi, rivestiti del corredo funebre, deposti direttamente sul suolo della cella funeraria. Quest’ultima è pensata proprio come una dimora del defunto, dove egli possa continuare la propria vita anche al di là della morte. Per questo gli vengono collocate accanto quelle suppellettili o quegli utensili che era solito utilizzare in vita. Ecco perché i defunti non venivano ricoperti di terra. Tali resti umani ovviamente si disunirono e furono sepolti successivamente dal lento sedimentarsi naturale del materiale franato dalle pareti, dopo che gli abitatori eneolitici del nostro territorio cessarono di utilizzare a scopi rituali la grotta. Non solo. La cella funeraria fu senza dubbio utilizzata per un lungo periodo (si pensa almeno due secoli), lasciandoci così testimonianza di una vera e propria necropoli. Infatti, mentre sul suolo dell’ultima cavità vennero rinvenuti i resti di almeno cinque individui, nel fianco della parete fu scoperta una cista litica, cioè una buca scavata nella roccia, che ha avuto la funzione di raccogliere i resti ossei di parecchi individui che di volta in volta venivano raccolti dal suolo per fare posto a nuove inumazioni.

Iscrizioni preistoriche, ritrovate nel Buco della Sabbia, sono soprattutto presenti nelle sue cavità più interne e particolarmente dentro la cista litica, utilizzata per conservare i resti ossei degli antichi defunti. Si presentano come incisioni omogenee, costituite da una serie di linee sottili ravvicinate, a volte parallele, altre divergenti o ricurve in ordine verticale, che formano scacchiere quadrangolari con motivi a forma di “Y”. Mal conservate a causa del deterioramento delle superfici calcaree su cui sono poste, segnalando la loro originalità rispetto a tutte le altre tipologie rinvenute nell’area padana ponevano interrogativi inerenti alla loro precisa datazione e appartenenza culturale. A risolvere tali enigmi intervengono opportunamente gli elementi eterogenei, come ceramiche, utensili di pietra e d’osso, ornamenti di rame che contraddistinguono la Cultura di Civate. Tra questi ultimi, ovviamente, gli utensili in pietra sono i più numerosi e significativi: lamelle in selce sottili con schegge di lavorazione. Tra le pietre lavorate v’è un raschiatoio ricurvo, grattatoi carenati e piccoli utensili lavorati a mezzaluna. A questa tipologia di prodotti del neolitico superiore (cioè dell’ultimo periodo dell’età della pietra), si accompagnano elementi chiaramente eneolitici, come un falcetto e cuspidi di freccia a lavorazione bifacciale con figura a losanga, peduncolo e alette, ricavati da una selce molto dura e chiara, che non corrisponde al materiale d’uso di quel periodo in altre località.

I reperti metallici rinvenuti nella necropoli di Civate sono scarsi, ma significativi: una perla cilindrica ottenuta ravvolgendo su se stessa una sottile lista di metallo; parte di un piccolo anello in lastrina di rame; un filo a spirale sempre dello stesso materiale. D’osso è il resto di un piccolissimo ago e una punta sottile di lancia, mentre è di particolare interesse il fatto che molti manufatti di pietra, d’osso o di denti umani o d’animale presentano un foro all’estremità per permettere la fabbricazione di bracciali, collane o pendagli. I denti sono di numerosi tipi d’animale: cinghiali, volpi, cani, martore e cervidi. Ad essi, come ornamenti, si aggiungono piastrine d’osso rettangolari o tonde, pendagli in calcare a forma di goccia e di perla sferica e cilindrica e piccole perle litiche ad anellino in calcare bianco.

Non poteva certo mancare, tra i reperti, la ceramica, seppur d’impasto grossolano. Benché frantumata in minuscoli pezzi forse al momento dell’uso rituale del culto dei morti, essa è testimoniata da diversi tipi di recipienti di media grandezza con fondo piatto e decorazioni semplicissime poste sugli orli o poco al di sotto, rappresentati da grosse coppelle o minuscole bozze e fori passanti. Il tipo di cottura del vasellame era a mucchio e contrasta col tipo di cottura del neolitico superiore, di cui comunque a Civate sono stati rinvenuti due vasi: una tazza a bassa parete rientrante e un altro recipiente di tipologia non identificabile.

Nella prima cavità d’ingresso alla grotta, i resti d’ossa d’animali sono numerosissimi. Essi possono essere attribuiti a due provenienze. La più semplice e naturale è quella che vede la cavità stessa come rifugio di specie selvatiche diverse. L’altra, suffragata in buona parte dalle tracce di bruciatura su resti ossei d’animali domestici, riconduce alla presenza umana ed in particolare ai cerimoniali d’inumazione che prevedevano la celebrazione di un banchetto rituale, durante il quale venivano consumati cibi e bevande. Ciò lascia anche presumere come l’economia di sussistenza fosse allora di tipo misto, con una tendenza verso la pastorizia, ma con la continuità della caccia. Il cane è fra i resti rappresentati e lo stesso ha lasciato tracce di denti su altri tipi d’ossa animali, tra cui ovini, suini e bovini e pure il cavallo. Tra i selvatici sono numerosi i resti di cervo e capriolo, ma anche il ghiro, il tasso, il gatto selvatico e la lepre, mentre degli uccelli caratteristico è il gallo cedrone, ma anche anatre, oche con le tartarughe provenienti dallo specchio lacustre, ed i colombi, che nidificavano negli anfratti della parete rocciosa.

Gli elementi via via ricordati sono solo in minima parte comuni ad altri ritrovamenti del periodo eneolitico. Per lo più, infatti, essi appartengono in maniera specifica ed unica a questo sito del Buco della Sabbia, e si caratterizzano, per la loro originalità, come una facies particolare che dagli studiosi è appunto riconosciuta come Cultura di Civate. Quanto alla sua collocazione cronologica, dal momento che questa cultura presenta ancora alcuni manufatti risalenti alla tipologia  del neolitico superiore, come le lamelle sottili non ritoccate o la ceramica nera a pareti molto sottili, si deve supporre che essa sia venuta a contatto con culture simili su questo territorio, come ad esempio la Cultura della Lagozza (località che si trova presso Besnate in provincia di Varese), che l’ha preceduta e si è sviluppata nel terzo millennio a.C. precedendo le migrazioni nella regione Padana di popolazioni centro-meridionali della Penisola. Questa datazione certa permette di collocare la Cultura di Civate tra il 2.600 ed il 2.500 a.C., dal momento che si suppone essa abbia avuto uno sviluppo di almeno due secoli. Così essa costituirebbe una delle culture più arcaiche dello stesso periodo eneolitico. Civate pertanto rappresenta il fulcro di una cultura eneolitica specifica, presente in alcuni resti unicamente sulle falde montuose delle Prealpi Lombarde, in siti archeologici vicini come il Tetto del buco del Piombo o la Grotta del Tamborin, entrambi posti in Val Bova nei dintorni di Erba, come in una antica cava di argilla presso Olginate. Sono luoghi dove sono state recuperate poche tracce di manufatti confrontabili con quelli invece così numerosi e specifici della nostra Cultura di Civate.

Ecco perché il Buco della Sabbia dovrebbe richiamare l’attenzione di più turisti e magari di qualche civatese incuriosito! Naturalmente, se volete andarci, ricordate di munirvi d’una pila efficace per farvi luce nelle oscurità della grotta!       

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