Maffeo da Clivate ed altri concittadini illustri
di carlo castagna
Molte ormai sono le opere che parlano di Civate e del suo più grande gioiello d’arte, S. Pietro al Monte, a cominciare dal noto Giorgio Vasari, che già nel 1550, ricordando le memorie artistiche straordinarie del passato, nelle Vite de’ più eccellenti pittori scultori e architetti, scriveva: “Né fu dissimile a questi il tempio che … Desiderio, il quale regnò dopo Astolfo, edificò di S. Piero (a) Clivate nella Diocesi Milanese…”. Eppure, non è stato solo S. Pietro a rendere famosa Civate nel mondo della cultura. Infatti, avvicinandoci ancor più al nostro secolo, leggiamo con gradevole sorpresa nell’introduzione al Piacere di D’Annunzio, del 1889: “Non gli arazzi medìcei pendono alle pareti, né convengono dame ai nostri decameroni, né i coppieri e i levrieri di Paolo Veronese girano intorno alle mense, né i frutti soprannaturali empiono i vasellami che Galeazzo Maria Sforza ordinò a Maffeo di Clivate”. Dunque non solo architettura, pittura ed arte plastica contraddistinguono la nostra storia, ma anche nomi di uomini illustri che hanno lasciato il segno delle loro egregie capacità nelle arti e nella conoscenza. Ma chi furono questi concittadini?
Considerato il loro numero e la distanza che li separa da
noi nel tempo, non è sempre facile ricordarli tutti, così certamente ne lascerò
molti da scoprire a chi vorrà dedicarvisi.
Comunque alcuni di loro riaffiorano più chiaramente dalle nebbie del passato
per parlarci di sé. Già verso la fine del ‘300, in un Codice Trivulziano appare lo stemma della famiglia dei De Madijs (Maggi) de Clivate:
un castello rosso su sfondo arancio, con due torri simmetriche, sormontato da un’aquila
nera, mentre Lanzalotto de Clivate veniva ammesso nel Collegio
dei Fisici di Milano nel settembre del 1432 e ricordato l’anno successivo da
G. Robolini, in Notizie appartenenti alla storia
della sua patria, come artista e rettore della prestigiosa Università di
Pavia (Lancellotus de Clivate
anche in Cenni Storici dell' Università di Pavia). Lo stesso anno compaiono residenti a
Milano due facoltosi mercanti iscritti alla matricola della lana fine, padre e
figlio, Giovanni e Lorenzo de Clivate,
abitanti in Porta Nuova presso la chiesa di S. Bartolomeo intus. Uno dei più
conosciuti, tuttavia, fu proprio Maffeo da Clivate o Clavate,
come si legge in altri testi, che operò presso i primi indiscussi duchi di
Milano, gli Sforza. Questi ultimi, del resto, sono legati alla storia di Civate
più di quanto qualcuno supponga e tracce nei recenti
stemmi riscoperti nella Casa del Pellegrino lo ribadiscono. D’altronde,
già nel XIII secolo il cardinale Ottone Visconti ebbe a stringere una alleanza col nostro monastero nella lotta contro i Torriani e poco dopo, Giovanni Visconti diveniva abate in
Civate. Fu comunque nei decenni precedenti il momento in cui il monastero
stesso passò definitivamente in commenda, nel 1480, che i rapporti della
signoria milanese col borgo si fecero più intensi. Tanto che, a sottolinearlo, il cardinale Ascanio
Sforza ne diveniva il primo abate commendatario. Attraverso la presenza diretta
e ripetuti contatti, la casa ducale milanese venne dunque a scoprire anche il
pregio che la presenza del monastero costituiva per la formazione culturale ed artistica di chi cresceva all’ombra del monastero. Già,
perché non si deve credere che il gusto, la raffinatezza culturale, la
conoscenza giuridica e la produzione artistica trascorsa in Civate nello
svolgere dei secoli abbia in sé solo una natura straniera, lontana e
sconosciuta a chi in Civate era nato e vissuto nel tempo. Troppo spesso si
afferma con troppa sicumera della provenienza, dell’influenza, delle abilità
esterne come uniche generatrici dell’arte profusa nei tesori civatesi, senza considerare che essi non
possono essere stati estranei ad un processo di assimilazione,
conformazione ed interazione con le maestranze locali, ricca premessa di una
formazione costante e rinnovata nel perdurare lento, ma inesorabile destinata
alla creazione delle opere ideate e compiute nei secoli. E le testimonianze inequivocabili
di ciò sono presenti nelle architetture straordinarie, nelle ineguagliabili
meraviglie degli affreschi e dei modellati plastici, ma non solo! Sappiamo per
certo che il monastero ha mantenuta viva nei secoli
l’arte della trascrizione e produzione dei testi nel suo scriptorium,
fonte inestimabile per la sua biblioteca e per la trasmissione della conoscenza
sul territorio ed oltre. Innumerevoli documenti di carattere giuridico sono
stati meticolosamente redatti nei secoli presso il monastero stesso o in
località appartenenti al suo territorio, da notai che portano i cognomi di La
Canalle, Schola,
Castanea, Sachis,
Isella, Castronovo…
formati prima alle arti del trivio e del quadrivio e poi del diritto
nel monastero civatese. Di essi rimane traccia scritta,
dal momento che altre forme di cultura, come pittura,
scultura e architettura non portavano la firma dell’autore nel lontano passato.
Tuttavia,
quando le preziose capacità e competenze d’arte e di giurisprudenza, ma anche
le conoscenze teologiche e filosofiche iniziarono a diffondersi altre i confini delle proprietà
abbaziali ad opera dei cultori civatesi, emancipati
dagli obblighi feudali di residenza sul territorio, esse lasciarono una traccia
quasi unitaria del loro espandersi. Tale traccia è ancora percorribile
attraverso il cognomen comune con cui tutti venivano riconosciuti per la provenienza. Troviamo così nel
mondo dell’arte, della teologia o del diritto i numerosissimi da Clavate, de Clivate, da
Chivate o più semplicemente Clivati. E va subito detto che anche chi non
apparteneva direttamente al borgo di Civate, ma semplicemente al territorio
circostante, talvolta usurpava tale cognomen speso
come garanzia per aprirsi più facilmente una strada nella grande città di
Milano!
Maffeo da Clivate fu
dunque uno dei personaggi civatesi importanti che vennero chiamati presso i duchi di Milano nel XV secolo. Una
testimonianza della sua presenza la si incrocia
indagando sulla vita nientemeno che di Leonardo da Vinci. Infatti, già nel
1473, Galeazzo Maria Sforza aveva manifestato l’intenzione di farsi erigere un
monumento equestre in bronzo da collocare nel Castello Sforzesco o “nel revelino verso la piaza o altrove
dove stesse meglio…” Fatto sta che l’opera non
doveva essere facilissima, perché il suo sopraintendente ai lavori pubblici,
Bartolomeo Gadio da Cremona, si rivolse innanzitutto
a Maffeo da Clivate,
poi a Cristoforo e Antonio Mantegazza, ma inutilmente,
forse per problema di costi. Solo anni dopo, Leonardo da Vinci si autopropose “a dare opera al cavallo di bronzo che sarà
gloria immortale et eterno onore della felice memoria
del Signor vostro Padre et
de la inclyta casa sforzesca”. Si rivolgeva al
successore di Galeazzo, Ludovico il Moro, ma non se ne fece nulla fino al
Nel 1467, Galeazzo Maria Sforza ordina al pittore Zanetto Bugatto un ritratto per la realizzazione di una moneta, un doppio ducato. La sua realizzazione è documentata come operata da Ambrogio da Clivate e altrettanto si conferma per una medaglia battuta nel 1470, anche se non firmata e di un grosso, altra moneta, che rappresenta Sant Ambrogio a cavallo, del 1474. Ambrogio da Clivate è un altro figlio di Maffeo che in quegli anni lavorava in sodalizio col pittore Zanetto, aiutando anche i due figli a farsi strada. Anzi, è proprio Maffeo che porta a termine una serie di incisioni eccezionali di enormi medaglioni d’oro con il ritratto del duca e di sua moglie Bona di Savoia. I medaglioni pesavano ciascuno dieci mila ducati, circa trentacinque chili. Lo straordinario è che qualche esemplare di essi sopravvisse fino alla fine del ‘400, ma inesorabilmente poi venne fuso come gli altri! Forse su di essi figuravano le stesse immagini del doppio ducato: sul dritto il busto di Galeazzo Maria, testa nuda, capelli lunghi, corazza; sul rovescio un leone che si volge a sinistra. La testa del leone è racchiusa in un elmo a cimiero su cui si legge la scritta tedesca: ich. hor. più volte ripetuta. La belva è accasciata tra le fiamme e sostiene con la zampa destra un tizzone con dei secchi. In alto a destra ed a sinistra del cimiero vi sono alcune lettere. Le scritte, sia sul dritto che sul rovescio sono in caratteri gotici. Poi una lettera, conservata presso l’Archivio di Stato di Milano, rivela che Maffeo, servendosi del ritratto fatto dal figlio Antonio, pittore, realizza nel 1470 un doppio ducato d’oro che rappresenta la duchessa Bona di Savoia. In un volume di Luca Gianazza, pubblicato nel 2009, La moneta in Monferrato tra Medioevo ed Età Moderna. Atti del convegno internazionale di studi, npon ci si stupisce di trovare citati come zecchieri e maestri di zecca Ambrogio, Francesco, Gianluca, Maffeo, Matteo de Clivate con Pietro martire de Givà. Dello stesso autore La zecca di Maccagno Inferiore e le sue monete del 2003, contiene una notizia curiosissima e degna di ulteriori approfondimenti: vi si cita infatti Claudio e Carlo Antonio di Chivate , assaggiatori di corte.
Tutto ciò
chiarisce come i civatesi fossero notevoli medaglieri,
orafi cesellatori, pittori e zecchieri di corte! E
non basta. La fama dei civatesi, maestri di zecca
del ducato milanese, andava anche oltre i confini dello stato. Di fatto
all’inizio del XVI secolo, nel periodo più florido del marchesato di Saluzzo
sotto la guida di Ludovico II, l’imperatore concesse il diritto di battere
moneta. Fu così che dopo un primo periodo affidato a zecchieri
randagi che passavano di paese in paese con un salario di brassaggio,
la zecca venne assegnata al nobile Francesco da Clivate, cittadino milanese, che era ancora maestro
di zecca di Carmagnola alla morte di Ludovico, come risulta da un atto di
locazione stipulato il 18 dicembre 1510 dalla vedova marchesa Margherita di Foix, in cui si allude ai patti già intercorsi fra il da
Clivate ed il marchese Ludovico. Del periodo
trascorso da Francesco nel marchesato di Saluzzo, iniziato almeno nel
1490, è da ricordare una moneta importante: lo scudo d’argento, del
valore di 5 testoni, che porta sul dritto i due busti raffrontati di
Ludovico II e della moglie Margherita di Foix, la
data 1503 e nella fascia la legenda LVDOVICVS ET MARGARITA DE FOIS,
mentre sul rovescio v’è un’aquila coronata con le ali abbassate e sul petto uno
scudo composto dalle armi accostate dei Saluzzo e dei Foix
col motto: SI DEVS PRO NOBIS QVIS CONTRA NOS e la sigla FCL
dello zecchiere di Civate. Il successore di
Ludovico avrebbe dovuto essere, nel 1515, il figlio Giovanni Bartolomeo,
secondo il diritto concessogli dall’imperatore Massimiliano. Ma un novarese di
gran prepotenza, Filippo Tornielli conte di Brionne, che aveva dato manforte ai francesi nella loro
calata in Italia nel XVI secolo, aveva usurpato allora il feudo dei Saluzzo, tenendolo sotto il suo dominio fino al 1529,
allorché lo vendette al duca di Savoia Carlo II, il quale lo riconsegnò nelle
mani del legittimo erede, il conte Giovanni Bartolomeo Tizzoni. Il conte di Brionne comunque, nel corso della sua usurpazione, aveva
stipulato una convenzione con gli zecchieri
civatesi Maffeo
e Francesco per la stampa di monete nella zecca di Desana.
Con Maffeo e Francesco da Clivate lavorava anche il fratello Gianluca come
incisore. Non stupisce perciò che, guardando a questa tradizione, Marco Caffi,
in Archivio Storico Lombardo, nel 1880 scriveva un articolo su Lorenzo
da Clivate ed altri orafi ed
argentieri in Milano. Una piccola nota va spesa anche per una attinenza artistica indiretta. Infatti, il famoso Marco
d’Oggiono, allievo di Leonardo da Vinci, nasceva tra
il 1465 ed il
La capacità e competenza artistica dei civatesi
non si limitavano a questo. In anni recenti, nei Quaderni Brembani, si legge che fra gli artisti ingaggiati oltre
l’Adda per la realizzazione di opere d’arte in legno,
v’era un certo Francesco Civati o Clivati, vissuto tra il 1658 ed il 1718 che visse ed
operò per diversi anni nella zona di San Pellegrino all’inizio del ‘700. A lui
si attribuiscono gli intarsi del pulpito di Valtorta
eseguiti tra il 1703 ed il 1706. Con lui, a Bergamo vengono ricordati, nei registri cittadini, i notai di origine civatese:
Clivati Achille fu Ambrogio . (1697-
1743); Clivati Ambrogio fu Gerolamo (1660 – 1711); Clivati
Antonio fu Gerolamo (1669 – 1710); Clivati
Gerolamo fu Mario (1618 – 1643); Clivati Mario fu Gerolamo (1668 – 1708). Ciò non deve stupirci, perché
a bergamo e nel suo territorio da molto si
conoscevano e si apprezzavano teologi e prelati dell’abbazia. Così da vari
documenti emergono altri personaggi: Antonio de Clivate , prete, canonico della Cattedrale di Bergamo (1408);
canonico Giovanni de Clivate, eletto ad un chiericato
della chiesa di S. Salvatore di Monasterolo (1408); Antonio
di Clivate, abate del monastero di Vallalta, vicario del prevosto e tra i canonici residenti
v’erano i preti Giovanni e Cristoforo di Clivate
(1409); don Gaspare de Clivate, beneficiale
della chiesa di S. Bartolomeo di Lallio (1444); Gaspare
de Clivatis, preposito
della Cattedrale di Bergamo e patrono della Misericordia di S. Maria Maggiore
(1452); Venturinus de Clivate,
vicario della Valle Brembana Superiore di serrina Alta (1584); Filippo de Clivatis,
canonico di Bergamo e vicario generale (1587).
Insomma, la presenza dei civatesi, accompagnati dall’appellativo di provenienza Clivati, in altri territori nello scorrere dei secoli è spesso segnalata in posti di prestigio. E senza scomodare ancora una volta i vari Marchiolo Nava di Civate, castellano nella rocca bergamasca di Ubiano ed il suo omonimo, capitano del castello di Montorio nel veronese o Giovanni de Civate comandante del castello di Candia, di cui già si è detto nell’articolo su Civate borgo murato, voglio concludere richiamando l’attenzione sul fatto che il cognome Clivati, con quello di Canali compaiono ancora ad inizio ‘800 fra i cognomi delle nobili famiglie veneziane e di quest’ultimo cognome si conserva, negli archivi araldici veneziani, anche lo stemma nobiliare.