1986

DON GIOVANNI

 

 

·             Le cose che pensano

·             Fatti un pianto

·             Il doppio del gioco

·             Madre pennuta

·             Equivoci amici

·             Don Giovanni

·             Che vita ha fatto

·            Il diluvio

 

All’uscita di “Don Giovanni” risultano trascorsi ben quattro anni dall’ultimo insolito e lunare disco di Lucio Battisti: è infatti l’inverno del 1986, quando negli scaffali dei negozi appaiono le prime copie: non si ha il sentore che questo a tutt’oggi è l’opera della definitiva svolta di Lucio Battisti.

La mutazione farà discutere ancora i sostenitori del Battisti melodico, già divisi dalla precedente prova discografica.

Senza dubbio e a partire da “Don Giovanni” il pubblico riscontra cambiamenti epocali nella composizione e nella struttura delle canzoni, assolutamente imprevedibili per chi aveva prima amato Battisti come enorme talento vocale infatuato dalla musica nera e in seguito cantore dei disagi urbani della vita a due.

Colti da un dubbio alcuni cercano persino di capire se e quanto si viene presi in giro dai testi e la musica. Una musica ritmatissima eppure non ballabile, no troppo allegra non troppo triste, che utilizza una strumentazione prevalentemente elettronica.

A partire da questo disco, Battisti comincia una serie di momenti creativi nel continuo segno della  novità, riuscendo a modificare gli schemi della musica leggera italiana, in un accanimento provocatorio e giustamente iconoclasta sui resti del paese del che ancora oggi celebra cantanti e canzoni della più preoccupante banalità e che offre ogni anno una inquietante sarabanda pubblicitaria al “Festival dei Fiori”.

Come si accennava, a fianco di Battisti non è più presente Giulio Rapetti-Mogol. La separazione risulterà, nonostante le illazioni su un suo ritorno, inequivocabile e definitiva. 

Al suo posto, c’è un autore sideralmente lontano da lui, dal nome tranquillizzante ma dai testi spiazzanti: Pasquale Panella, poeta postmoderno, neodadaista e Dio sa cos’altro.

L’incontro e il successivo accordo fra questi con Battisti non viene testimoniato da eventi particolari e volutamente mantenuto nel mistero. Lo stesso Panella contribuisce alla riservatezza affermando di essersi trovato quasi per caso a fornire testi al cavaliere solitario della musica italiana.

Anche le informazioni biografiche che lo riguardano non sono molte Nativo di Sorrento, Panella (non privo di esperienze teatrali), ha collaborato in passato con interpreti come Enzo Carella, che con uno dei suoi testi   conquisterà nel 1979 un sorprendente secondo posto al Festival di Sanremo con “Barbara” e nel 1993 inciderà un altro interessante e trascurato disco avvalendosi dei suoi testi. 

Ci sembra illuminante in questo senso la spiegazione che offre del suo ruolo di paroliere, lo stesso Panella in un’intervista concessa a Federico Vacalebre: “Il difetto della canzone e' quello di avere un senso. Quando sarà insensata sarà vera poesia (...) a me piace portare la canzone all'estenuazione, cercarne il limite estremo, dare alle parole e al loro susseguirsi una strana configurazione. Mettere a rischio le parole, provare a confonderle, prima che loro e la noia abbiano il sopravvento”.

Pare quindi che l’intento sia quello di dare un significato testuale a ciò che testuale non è. 

I suoi testi ad un primo ascolto appaiono casuali, aleatori, contenitori di un provocatorio rifiuto del pensiero coerente: in una dimensione dove i versi sembrano nascere tramite funzioni combinatorie o addirittura eventi imponderabili. Liriche che si lasciano cullare dai suoni con ritmiche e stilemi musicali che svolgono la funzione di indirizzare il flusso dei versi quasi tirate a sorte.

E’ un astrattismo sonoro paradossale, ironico, ma non solo: molte di queste canzoni hanno uno strano fascino e nonostante gli intenti di partenza sono musicalmente molto interessanti per il pattern minimale e lo svolgimento deliziosamente automatico.

Qualche anno prima aveva costituito una novità l’entrata e il successo di Franco Battiato nel panorama musicale leggero (“L’era del Cinghiale Bianco” e “Patriots”), con dei testi di grande intelligenza e originalità ma è bene precisare subito che nel caso del musicista siciliano, la singolarità delle liriche, era il risultato del collage orfico delle parole, degli effetti combinatori delle citazioni a ricreare (con esiti eccezionali), la forma-canzone in assemblaggi coordinati e non il creare e pensare versi, insomma scrivere poesie come avviene nel caso di Pasquale Panella.

Però è curioso osservare come negli ultimi dischi di Battiato prevalga anche per Battiato la stessa scelta di Battisti, ovvero affidare i testi alla penna di uno scrittore di professione come Manlio Sgalambro.

In “Don Giovanni”, si evince subito come il significato dei testi di Panella non stia in un luogo specifico, ogni fruitore può darne uno; anzi, si ha l’impressione l’informazione attenda di essere scoperta e che sia recondita.

Panella lo sa e gioca sui messaggi e i luoghi comuni lasciando aperto il solco fra eventi reali, casuali e ipotetici, tutti dotati di un’irresistibile logica interna, prendendo le mosse dalla crisi del linguaggio (derivata dalla estrema consunzione delle forme), dei testi della musica leggera creando un universo parallelo con personalissimi e geniali spostamenti intertestuali, come la rottura della regolarità sintattica con sfumature, reticenze, interruzioni, digressioni interrotte.

Il rinunciare alla struttura-trappola del testo per canzone, libera gli imponderabili psicologici e quindi sono sottili allegorie del quotidiano, a cui l’estro ironico della dissimulazione, dell’improvvisa apostrofe infantile, della apparente frivolezza colloquiale diventa enigmatica confidenza.

Il mondo e le suggestioni create incessantemente si spostano da un punto focale all’altro, in metalinguaggi che proiettando idee, pulsioni ed osservazioni sotto forma di serrati monologhi, in scissioni tra reale ed immaginario di situazioni quotidiane e avvenimenti minimi da dove i personaggi si presentano come emblematici ed allusivi. La follia e la talvolta divertente insensatezza della vita; un disordine nel quale immergersi.

Infatti anche narrazioni inframmezzate da inserti apparentemente estranei  offrono quello che possiamo definire un riverbero delle situazioni, residui di un accadimento narrato che si apre ad altre presenze. Un percorso (e uno sbocco), sotterraneo.

Insomma in Panella lo spettro della scrittura si amplia in una diversa percezione delle cose, in una riflessione poetica che diviene scambio affascinante di autocreazione e autoannientamento dello stesso poeta.

Il suo ruolo é quello di un narratore che offre all’ascolto la periferia impalpabile del sognatore e l’extraterritorialità dei sogni, ironici, seri, maschere, confessioni, contemplazione di un mondo sospeso fra realtà e fantasia, euforia e malinconia.

Ma questa oggettivazione di contenuti onirici si sviluppa sui versanti di allucinazioni nitide perché Pasquale Panella è un visionario lucido, che  passa indifferentemente dal fattuale al concettuale, dal reale all’astratto raccordando i piani con le metafore attraverso cose che non corrispondono alla loro destinazione e alla loro morfologia. Di rilievo in molti testi  come il presente si incastri con il flashback attraverso perfette sovrapposizioni.

Senza dubbio la fruizione di questi straordinari testi musicati causa l’impressione di un collasso del reale.

A completamento di questa serie di considerazioni esiste l’approccio al testo instaurato da Lucio Battisti in un trattamento vocale e in intonazioni che hanno dello straordinario.

“Don Giovanni” si inaugura in maniera memorabile, presentando a tutt’oggi una delle più belle canzoni del nuovo sodalizio. “Le cose che pensano” preceduta da un arpeggio tridimensionale di piano introduce una musica vagamente solenne inducendo subito ad ascoltare guardando le immagini evocate dalle parole. Il testo è una singolare, malinconica delucidazione di quanto i sentimenti siano legati più che alle persone, alle cose che le ricordano. Più avanti, oltre le bellissime e ricercate assonanze delle parole c’è un continuo, a tratti drammatico ripensamento e meditazione sull’argomento: “Sono le cose che pensano, ed hanno di te sentimento, e se t’amano e non io, come assente rimpiangono te. Son le cose: prolungano te”. La canzone innesca  e intreccia il temporale con l’atemporale attraverso la descrizione della memoria rievocante e quella del pensiero che fissa e proietta immagini indicatrici fra le cose e il tempo in un sondaggio nei territori dell’inconscio.

“Fatti un pianto” conduce l’ascoltatore ad un brano con interventi orchestrali alla Bacharach, stavolta il testo è completamente ironico nel suo capovolgere il valore psicologico del pianto nei rapporti affettivi e la sua talvolta ipocrita funzione di scudo.

Ritorna l’identificazione tipicamente battistiana dell’accostamento del cibo con l'amore: “Da un chilo d’affetto un etto di marmellata, se sbatti un addio c'esce un omelette (...) parole d’amore, grosse lacrime sciocche, sono uova alla coque”.

Il nuovo progetto di Battisti risulta quindi felicemente partito, dopo soli due brani l’ascoltatore è piacevolmente spiazzato. “Il doppio del gioco” rientra nella forma combinatoria fra passato reale e immaginario di tante liriche di Panella assecondato da suoni filtratissimi e serenamente glaciali.

Sono di nuovo i ricordi a fare spettacolari bizze nel seguente “Madre pennuta” caratterizzato da controtempi e ritmi inusuali che sincopano le folgorazioni proposte da uno ieri che trasporta la mente tramite suggerimenti improvvisi, dove “il vero è nella memoria e nella fantasia”, il brano si svolge dove “non c’è storia e il tempo finge e poi commette ingenuità, non cancella mai le tracce sue”.

In “Equivoci amici”, il ricordo del passato diventa intenso ma stemperato e dissimulato dall’allegria. la canzone è una filastrocca dadaista in cui ogni nome di un conoscente ha un contrappunto in “equivoci”, modi di dire  invertiti, capovolti, stravolti, l’elenco di amici di cui “uno andò saldato, uno vive all’estro, uno ha messo plancia, uno fa il trans-aitante”. Panella pare suggerire come ognuno è direttore dei propri ricordi, anche magari su un tavolo da buffè dove i “dimenticati” sono per associazione “mantecati” in una processioni di innocenti baldorie  passate e di volti ugualmente e purtroppo trascorsi per sempre.

“Don Giovanni” ha il compito di rappresentare l’adagio del disco e nel contempo di spiegarne la copertina: l’attaccapanni abbozzato rappresentato è infatti il ruolo rivestito del protagonista del brano, sorta di amletico latin-lover di amante inutile e inutilizzato (“rivesto quello dello che vuoi, son l’attaccapanni”). Il Don Giovanni di Panella-Battisti è l’iconizzazione del logorio, svalutazione e il collasso dell’uomo che desidera un amore finendo per feticizzare pulsioni frenate, rimosse e infine risarcite.

“Che vita ha fatto” sembra quasi una canzone ripresa da uno degli ultimi lavori di Battisti con Mogol. Il paragone è in positivo poiché il brano si svolge con una delicata melodia in “vecchio stile” battistiano ma a cui viene aggiunto uno stravagante uso delle allitterazioni. 

La frase “Apres de moi le deluge” è attribuita a Luigi IV o secondo altri, a Madame Pompadour in riferimento alla sconfitta militare di Rosenbach, dà la stura (è il caso di dirlo) al “Il diluvio”, nubifragio musicato da Battisti che usa la famosa citazione e la inserisce in un’atmosfera scandita dal battito e dal violento incedere di percussioni elettroniche su un testo ironico che accenna alla preparazione ad una precipitazione imminente a cui seguirà un ambiguo e parziale bel tempo poiché in quanto: “dopo di noi il bello verrà, fin che terrà l’ombrello”.

Dopo l’arrivo di Don Giovanni nelle classifiche di vendita, la critica che un tempo accusava Battisti di musicare canzoni prive di un messaggio politico, grida all’incomprensibilità e all’eccessivo cerebralismo.

Di fronte a tanta preoccupante perché progressiva incapacità di giudizio viene da giustificare i motivi che hanno condotto all’esilio dorato il cantante di Poggio Bustone.

 

 

LE COSE CHE PENSANO

 

In nessun luogo andai per niente ti pensai

e nulla ti mandai per mio ricordo.

Sul bordo m'affacciai d'abissi belli assai.

Su un dolce tedio a sdraio amore ti ignorai

invece costeggiai i lungomai.

M'estasiai, ti spensierai

m'estasiai, e si spostò

la tua testa estranea che rotolò.

Cadere la guardai riflessa tra ghiacciai

sessanta volte che cacciava fuori

la lingua e t'abbracciai di sangue m'inguaiai

Tu quindi come stai se è lecito che fai

in quell'attualità che pare vera.

Come stai?

Ti smemorai, ti stemperai.

E come sta la straniera?

Lei come sta?

Son le cose che pensano,

ed hanno di te sentimento

esse t'amano e non io

come assente rimpiangono te

Son le cose prolungano te.

La vista l’angolai di modo che tu mai

entrassi col viavai di quando sei

dolcezza e liturgia orgetta e leccornìa.

La prima volta che ti vidi non guardai

da allora non t'amai tu come stai?

Come stai?

Rimpiangono te:

son le cose, prolungano te.

Certe cose.

 

FATTI UN PIANTO

 

Dal monte ventoso dei miei sentimenti

sfoglio all'aria una rosa ricettario

l'inizio è già indiziario: “Lei si sciolse e poi si tolse lo chignon”.

E calva d'amore lustro sguardo da biliardo

boccia sul tappeto il suo pallino

E la “stecca del peccato” c'è tanta nuda verità.

Fatti un pianto.

Da un chilo di affetti un etto di marmellata

Se sbatti un addio c'esce un'omelette.

Le cosce dorate van fritte, coi sorrisi fai croquettes.

E tu dici ancora che non parlo d'amore

batte in me un limone giallo basta spremerlo.

Con lacrime salate agli occhi tuoi ben condita amata t'ho.

Dài piangete. Dài cantate. E dài che ne ho sete!

Parole d’amore, grosse lacrime sciocche

sono uova alla coque. E dai e dai...

(Fatti un pianto)

Lacrimoni che sono lenzuola da strappare, da calare giù

(Fatti un pianto)

e lì perdutamente qualcuno che ti sfugga o che salga su.

Per intanto qualche vento qualche tentativo fa.

 

IL DOPPIO DEL GIOCO

 

Son lenti affluenti i suoi pianti a dirotto

son diamanti striscianti che il silenzio hanno rotto.

La vetrina con acqua è lei che si incrina e che sbrina via.

Ride a fiore del pianto come piove contro sole

giura in concreto di non fare mai più l'agente segreto.

Ed io mai che io sospettai fosse un'altra o due o sei

che il doppio giocò se scherzai con lei.

E ne parlò, certo che ne parlò

e che saziò i gusti di chi vide o intuì non visto

gli opposti su un ponte e brume

su un fiume con molte schiume.

L'ha sempre saputo e l'ha sempre ignorato

ed il doppio del gioco l'ha molto moltiplicato.

Ed io mai che lo sospettai quante volte con lei scambiai.

Me ne parlò, spesso me l'indicò

Li vedi, stanno scambiando.

C'è un centro sopra il ponte

e loro si vanno incontro e lì che si sfioreranno.

È fina e lei già s'incrina e l'agente segreto

come ondeggia, come ondeggia, come ondeggia

Si diffonde, si diffonde, si diffonde.

 

MADRE PENNUTA

 

La strada che curva e l'insegna notturna.

Un Tir che si ritira tutto il sole al Nadir.

E alte a prua chiome d'albero e zolle che non mi arenano.

Finita la storia e caduto l'impero

di vivere dal vero ecco me di anni tre

è lì che fui faraonico tra bumbe e tra rumbe tiepide.

Con tante madri e il tempo un laghetto coi pesci dei giorni

è il gamberetto del mio compleanno che torna lì

fu molto dopo che dentro la pioggia

vidi tra mille la goccia d’acqua mia.

Prigionia.

Ho visto la neve nei vetri che agitai

ma agitai le finestre e mai sfere da souvenir.

Guidai, l'accostai e sorpassai il tempo, l'obeso in limousine.

Ho usato penne più degli uccelli ma quando mai.

Ho perso il sonno per scrivere solo: "Io volo"

Madre pennuta il mio morbidìo

mia pelle d'oca, cuscino mio. Il mio.

Il vero è nella memoria e nella fantasia

Non c'è storia e il tempo finge e poi commette l'ingenuità

Non cancella mai le tracce sue

vuoi esser preso, arreso, inchiodato lì.

Ho visto un film normale ma con un bel finale:

faccia a faccia  fra tutt'e due che infine uno è.

Madre mia la gente che s'è alzata,

ma che dico la gente: uno uscì

 

EQUIVOCI AMICI

 

Cassiodoro Vicinetti, Olindo Brodi, Ugo Strappi

Sofio Bulino. Armando Pende, Andriei Francisco Poimò

Tristo Fato, Quinto Grado, Erminio Pasta. Pio Semi

Ottone Testa. Salvo Croce, Facoffi Borza. Aldo Ponche.

Uno andò saldato, uno vive all'estro

uno s’è spaesato, uno ha messo plancia

e fa il trans-aitante, uno fa le more

uno sta invecchiando perché è un nobile scotch.

Uno fa calzoni dai risvolti umani,

uno ha un solo naso, uno ha mani e polsi

uno è su due piedi, uno è calvo a onde

uno si nasconde poi non sa in che vano sta.

Un viso ucciso dal pensiero, Un tal con voce da uccelliera

Un sostituto a sua insaputa, e un misto storie e geografie

Uno per uno li ricorda, l'orchestra mentre si accorda

la verità viene sempre a palla, dolce chi era sei tu

Il maestro solitario fischietta ariette d'oblio

Sei tu!

I dimenticati ce li ha tutti in testa

gli altri sono entrati chi da sé chi dalla finestra.

C'è il direttore, l'orchestra c’è apparecchiati sul buffè

son mantecati i dimenticati.

Se il pasticcino ha un senino in sé del maraschino effetto è

Uno nel rinfresco pensa: "E' peggio se esco"

Un altro, un altro deglutisce, volentieri gradisce

Non si capisce chi mangi, chi

Non gli rincresce. Grazie sì, grazie sì.

 

DON GIOVANNI

 

Non penso quindi tu sei questo mi conquista.

L'artista non sono io sono il suo fumista.

Son santo, mi illumino, ho tanto di stimmate.

Segna e depenna Ben-Hur: sono Don Giovanni

rivesto quello che vuoi, son l’attaccapanni.

Poi penso che t'amo, no, anzi, che strazio.

Che ozio nella tournee di mai più tornare

nell'intronata routine del cantar leggero

l'amore sul serio, e scrivi

che non esisto quaggiù, che sono l’inganno.

Sinceramente non tuo. Sinceramente non tuo.

Qui Don Giovanni, ma tu, dimmi chi ti paga?

 

CHE VITA HA FATTO

 

Che vita ha fatto a immaginarsela cosi, colà la vita

che vita ha fatto ad aspettarsela, convinta che la vita c'è.

Che vita ha fatto, se torna a nascere non torna più, non sia mai

Che vita ha fatto, ha pianto a piovere

e sul pendìo dello sgocciolìo lei sdrucciolò.

Lei m’amò, tu l’amasti, io no: i verbi non coincidono.

Che vita ha fatto, ma ben più rapida con lei duellò la vita.

Che vita ha fatto metà sognandola metà in realtà

se poi è realtà quel che in realtà sognò a metà.

Lei m'amò, tu l'amasti, io no: i verbi la tradirono

che c’entro io?

Che vita ha fatto a immaginarsela cosi, colà la vita.

Come sta, come stai, come sto?

La voce coniugandoci s'allontanò.

 

IL DILUVIO

 

Dopo di noi diluvierà, non spioverà, va bene.

Noi la fortuna degli ombrellai.

Chili di liquidi dopo di noi

Va bene, come vuoi, dopo di noi.

Diluvierà, non spioverà.

Dopo di noi: il diluvio.

Vittime fa l’ottima idea d'essere noi finali.

Straziante d'estri tristi annegherà

la più assetata arsura nel frullìo.

Un ingordo gorgo umido è l'addio.

Dopo di noi non spioverà

Dopo di noi: il diluvio

Buona l’idea del tempestio

tuona di già, stai buona.

Piove con ghiaccia semplicità

con truci gocce dal bel luccichio

e piove, piove, piove, siamo annaffiatoi

Dopo di noi, il bello verrà finché terrà l’ombrello.