1994
· Almeno l'inizio
· Hegel
· Tubinga
· La bellezza riunita
· La moda nel respiro
· Stanze come questa
· Estetica
· La voce del viso
L’ultimo capitolo delle
canzoni dadaiste-meccaniche di Battisti, allontana i dubbi di una involuzione
artistica poiché il lavorio svolto nel rendere cantabili i testi, di organizzarli
vocalmente ha pochi precedenti, ed è stavolta tanto inimitabile da mettere
spesso in secondo piano la musica, che rimane in un contesto spesso danzabile.
L’espressività data ai testi
(a dire poco intricati), è stupefacente come lo è altrettanto l’impegno vocale
di Battisti in questo disco allunga, velocizza la musica, ferma e mutare il
canto, lasciandolo improvvisamente cadere in flussi di parole come
scioglilingua, in momenti di atletica linguistica in un brulicare di assiomi e
neologismi.
Pasquale Panella dimostra
ormai di essere un poeta vero e un giocoliere del linguaggio paragonabile ad
altri illustrissimi precedenti (Petrolini, Palazzeschi, Govani), anch’egli
creatore di un surrealismo che parte dalle assurdità del costume e dalle convenzioni
sociali per terminare talvolta in inaspettate e affascinanti rarefazioni
testuali.
La sua collaborazione con
Battisti è un’operazione talmente riuscita da poter essere definita alchemica,
vedere i suoi testi, trasmutare in musica.
La sensazione prende forma e
sostanza quando si ascolta come il cantante abbia disposto la sua voce su piani
ora sovrapposti (splendidi esempi di arrangiamento ideati negli anni passati),
altre volte in parallelo ed equilibrata al testo da interpretare.
In tutto il disco i piani interpretativi scelti sono falsetti al limite delle possibilità presenti in brani come “La voce del viso” e “La moda nel respiro” e per tutto il disco, la sfera vocale di Battisti che in alcuni brani affascina per velocità e applicazione.
Sono passati quasi dieci
anni dalla svolta a operata da Battisti: ed è sconcertante il fatto che pochi
critici e ascoltatori abbiano compreso il valore, la portata e le conseguenze
del suo cambio di rotta. Altrettanto sconcertante è la dichiarazione di Giulio
Rapetti-Mogol rilasciata al settimanale “Epoca” in cui egli, nel nuovo corso di
Battisti, non vede altro che un minore successo commerciale rispetto ai tempi
della loro collaborazione.
E dire che dopo cinque
dischi, si delineano nei versi di Panella nuovi temi e ispirazioni in
evoluzione come quello dell’universo femminile che a differenza di Mogol si
concentra in un bizzarro rapporto con una folle ma imprescindibile musa
ispiratrice di azioni e dispiaceri. Rimane sempre l’abbinamento
donna-cibo-oggetti ma si compie in iperboliche similitudini.
Nei testi sono decisamente aumentate le rivolte, persino feroci, all’uso e alla stupidità delle frasi fatte, dei modi di dire, delle banalità universalmente accettate dalla società moderna.
“Almeno l’inizio” parla dell'indecisione di una donna di cui Panella
illustra i rimandi e i ritorni della sua psicologia, il suo sesto senso, e la
sua forza affiancandole alle sue nevrosi da operetta, i bronci preludio a
improvvise gioie di matrice infantile.
Una donna mossa ad arte da
falsi bisogni, che non vuole essere né sola né in compagnia, né manager, né
madre, che rischia di perdere le percezione, la magica intuizione dell’istinto:
“Non è di calore che hai bisogno ma di un orgoglioso refrigerio”.
Le due canzoni che seguono, “Hegel”
e “Tubinga” trattano entrambe i repentini ed inaspettati richiami a
lontane giornate scolastiche dedicate anche allo studio del filosofo tedesco
con innamoramenti trasversali. “Tubinga” è, anche (per ammissione dello stesso
Panella), un titolo ispirato ad un nome di una donna, di conseguenza,
l’atmosfera sondata dal testo risulta ricca di rimandi ad una infatuazione
scolastica svoltasi durante l’apprendimento di materie filosofiche. Tubinga
(città che vide gli studi di Georg Friedrich Hegel), prende infatti un nome “in
prestito dai libri” e associa oggetti a persone, momenti privati a simboli,
pensieri che diventano oggetti e viceversa. L’innamorato confonde amore e
filosofia quando pensa che “Lei nel suo bel nome era una Jena”, mescolando con
arguzia il nome della città dove il filosofo scrisse le sue opere e l’animale
africano.
Il percorso dei versi passa
così attraverso “cataste scolastiche”, “esercizi obbligatori estetici”.
Su una partitura quasi sopra
le righe, la canzone accoglie versi in cui riappare uno schema testuale vicino
a quello (nientedimeno), di Mogol: quello della donna, microcosmo da esplorare,
in sentimenti e abitudini senza soluzione di continuità; le storie di amore
degli anni di piombo, hanno semplicemente lasciato il posto a meditazioni
sentimentali dell’epoca dei computer.
“La bellezza riunita” svolge invece il suo
discorso in uno stile quasi rap già apparso come episodio fisso in ognuno dei
quattro dischi precedenti, ma anche in questo caso, con esiti inferiori
all'attesa, se si vuole stimare anche l’apparato musicale e non solo i pregi
dei versi.
Discorso nettamente diverso
per “La moda nel respiro” che rappresenta il testo più leggibile del
disco e senza dubbio il più cinico.
L’inutilità della moda è l’argomento scelto da Panella che si avvicina al concetto espresso da un illustrissimo predecessore: Giacomo Leopardi, che definì la moda come sorella alla morte in quanto generata anch’essa dalla caducità. L’introduzione sonora è in rapporto al testo, assai aspro quando esprime che “è molto comoda se esclude sempre di presentarsi in figure immediatamente tutte nude, così che quando passa questo eccesso, ci pare non avere perso nulla, ci pare non avere perso il tempo che la nudezza sbriciola e maciulla...”.
La moda di Battisti-Panella
finisce “nel respiro”: ed essi assurgono a stilisti amari e amareggiati,
personalità cui l’ironia e il gioco coprono lo sgomento di una attualità
mistificante e votata alla vuota apparenza.
Volendo azzardare
un'interpretazione potremmo considerare il brano “Stanze come questa”
come un delicato riferimento anche alle stanze poetiche.
Un armonia ribattuta di pianoforte
attrae immediatamente l’orecchio ed invita ad testo riuscito e ironico “Ho
visto la tua nuca ad Alessandria e poi me lo racconti se ci sei mai stata”. Si
riconosce nel testo una delle caratteristiche di alcune liriche di Panella che
potremmo definire “imperative”, ovvero caratterizzate da un esplicita
esortazione a commettere stranezze assai più sane di quelle del quotidiano
fatto di luoghi “dai quali non c’è fuga”. Luoghi dai quali forse si può
sfuggire solo prendendo “una carrozza anacronistica da aggiornare in quanto
inesistente”.
In questo brano, il canto
battistiano è caratterizzato da studiati mancamenti da mezzosoprano che
tradiscono ancora un’urgenza espressiva, la stessa degli inizi, portata alla
sperimentazione vocale ma su moduli orientati all'ascolto. “Stanze come
questa” termina sulle note di un
delizioso suono d’organo menefreghista e casuale e una chitarra che snocciola
accordi scordati, formano un finale scoordinato e simpaticissimo che serve da
introduzione ad “Estetica” dove il testo allude a quella parte della
filosofia che vaga sull'essenza del bello e nella canzone si lascia ammaliare
da “colori che divorano colori” sul “periodico ritratto” che il sonno fa
all’uomo immobile. Un sonno che diviene, per usare il frasario barocco del
poeta spagnolo Gongora davvero un “impresario di finzioni”, dove queste ultime
rischiano di assumere il posto del reale. Oniricamente ritornano alla mente gli
astrattismi della filosofia applicati “su mente giudicante su lampo e
riflessione, su coscienza e allucinazione”. La musica risulta però
eccessivamente priva di spinte o di cambiamenti, troppo di sottofondo per poter
essere ricordata quanto le parole.
Capolavoro del disco, e
purtroppo ultimo brano inciso da Lucio Battisti è “La voce del viso”,
straordinario scioglilingua dell’epoca spaziale, messo a punto con nuovi
meccanismi descrittivi, spiazzanti esempi di analogie fra copri, visi, bocche e
lingue che accompagnano satiricamente la frase fatta “il volto è tutto”.
L’incedere del clapping elettronico rende folgorante il brano giocato su due
piani vocali di domanda e risposta, un falsetto che illustra assurde regole
estetiche e una voce sul registro grave che guarda oltre, verso un “portento
che tende a scomparire”, che ricorda come “Quella voce ha un solo volto che
sotto il mio rotola si impenna e preme alle mie mani freme”. Un verso che
rigetta ogni punteggiatura con il suo frenetico ritmo verbale e un testo che
non accetta neanche virgole.
Ma la nuova lezione
d’estetica di Battisti-Panella pone in chiaro la negazione della stessa
efficacia delle descrizioni, delle verbalizzazioni che si fanno di fronte al
potere della naturalità; l’ultimo verso ricorda infatti che: “sul viso la
sintassi non ha imperio, non ha nessun comando”.
Una affinità elettiva d’eccezione
è costituita con il parallelo fra Panella e Joris Karl Huysmans, il grande
scrittore decadente francese che nel suo romanzo “Per strada” scrive: “Non c’è
che dire, l’anima è tutto in gente simile e le loro fisionomie sono da essa
modellate. Vi sono chiarità sante in quelle pupille, in quelle bocche, in
quelle sole aperture dalle quali l’anima affiora, guarda oltre il corpo e quasi
si disvela”.
E’ massima aspirazione che le espressioni dell’arte
si risolvano in musica e pensiamo con certezza che le poesie di Panella abbiano
trovato uno sbocco senza precedenti nelle musiche composte da Lucio Battisti.
Si ha l’impressione che il
loro interprete si lasci prendere anche fisicamente dalla celerità che questi
testi necessitano al canto, impostando un falsetto da voce bianca, una
scansione velocissima, precisa che ha l’impatto di una esperienza quasi di
trance, un invito alla dimenticanza di sé nel canto in un’ebbrezza di un canto
errante su suoni di alta tecnologia che cela un sudore polmonare antico. La voce
di Lucio Battisti rivela un assimilazione delle tecniche tradizionali
dell’esposizione vocale della musica leggera passando dai grandi vocalist del
soul e proseguendo per le strade non convenzionali della poesia sonora.
A questo proposito, viene in
mente un’intervista data da Lucio Dalla sul “Venerdì” del quotidiano Repubblica
a Giandomenico Curi. Il musicista bolognese osserva che Battisti “è un cantante
strepitoso, perché non ha nessuna vocalità classica, ed ha una voce che sembra
una lametta da barba. Mi sembra molto simile a Dylan, perché tutti e due usano
una voce d’emergenza, cioè fanno della necessità una originalità assoluta”.
In effetti, una delle
evoluzioni fatte da Battisti è quella di sondare, nei confini della musica
leggera un approccio al canto che diviene sempre più perfezionato sfociando in
uno sperimentalismo che rifiuta ogni tradizione, in un parlato ritmico spinto
addirittura verso vocalità caratteristiche della musica colta contemporanea. In
“Hegel” il lavoro di Lucio Battisti non assomiglia a nessuno ed è sinonimo di
ricerca, estro ed intelligenza musicale.
A tanti anni di distanza
risulta illuminante una intervista rilasciata da Battisti al quotidiano “Il
Giorno” che dice “ho sempre avuto dalla mia vita una qualità che molti mi invidiano,
forse ancora più della fortuna e dei soldi che posso aver guadagnato: il senso
della sicurezza. E un giudizio di me stesso che forse gli altri non hanno”.
“Hegel” è l’ultimo atto
della carriera e della vita di Lucio Battisti terminata sotto il segno della
malattia. Alla soglia di altre opere, il 9 settembre del 1998, una grave
malattia renale il cui nome “Glomerulonefrite”, il cui nome sembra essere
uscito da uno dei fantasiosi testi di Pasquale Panella lo ha portato via.
Battisti è deceduto all’Ospedale
San Paolo di Milano, viveva da qualche anno nell’alta Brianza, a Molteno
(un altro nome che suona irreale), in provincia di Lecco. Oggi riposa fra le
colline brianzole quelle che si alzano e si abbassano nelle loro irregolarità e
presentano a chi viaggia un paesaggio sempre rinnovato, proprio come le canzoni
che ci ha lasciato.
Battisti
aveva vissuto fuori dal nucleo abitato e gli agglomerati urbani, fuori da
quella che nel brano “Una giornata uggiosa” definiva “Brianza velenosa”.
Ora rimangono tutte le sue canzoni.
Sono dischi da scoprire ascolto dopo
ascolto.
Gli ultimi dischi rappresentano una nuova
era della musica italiana e il Nuovo Mondo di Battisti. Facili e difficili,
ascoltabili e ostici tracciano il futuro.
Non fu scandalo e tantomeno la fine di un
mito. Pochi si preoccuparono di capire che il l’ultimo periodo di Battisti ma
quei dischi sono una pietra miliare, un monumento di originalità che non ha
pari nella storia della Musica italiana e che non è stato ancora compreso
perché anticipa ciò che accadrà.
Come scrive acutamente Lucio Cadeddu,
capirle ed amare le canzoni di Battisti “è un atto inconscio, automatico ed
involontario: c'è qualcosa in questi brani che entra piano piano nel nostro
intimo, silenziosamente ma inesorabilmente e che ci conquista. All'improvviso
anche quei testi così strani assumono un significato preciso e tutti i
frammenti di prosa/poesia impazzita del genio Panella si riunificano
automaticamente in modo da comporre un mosaico infine comprensibilissimo e mai
ovvio. Ascolti ripetuti, per decine e decine di volte, rivelano sempre delle
squisite sorprese, giochi di parole, allusioni, citazioni e significati
nascosti che erano sfuggiti in precedenza, come se ogni volta fosse una nuova
esplorazione di un segreto ramo del labirinto di parole concatenate le une con
le altre e musiche che hanno anticipato i tempi, inventando atmosfere musicali
nuove ed insolite”.
su queste opere è sceso il silenzio, non si è compresa la loro
immensa portata innovativa esse testimoniano come la genialità compositiva di
Battisti non fosse affatto dimuinita, ma in grande progresso.
Valga per i critici musicali la massima di Goethe, un poeta, non a
caso. “Chi pretende di rimproverare ad un autore la sua oscurità farebbe bene a
guardare prima dentro di sé per vedere se vi fa ben chiaro. Nella penombra,
anche una scrittura chiarissima diventa illeggibile”.
ALMENO L'INIZIO
Alla fine ti trovasti in un bel posto
e lì capisti perché t’erano stati chiesti gli occhi in prestito
per il loro particolare colore,
fai tu quale, che ora è l'iride delle finestre.
Alla fine ti fu chiaro perché quel gran parlare
della tua bella conchiglia auricolare e quel solleticare.
Eccoli i padiglioni i disimpegni, la chiocciola , i vestiboli,
ecco la stanza.
E tu entrasti perché c'era tutto
e tutto a oltranza i tuoi comportamenti e le reazioni
le tue belle presenze e gli abbandoni,
le carezze in cambio delle tue carezze
e le scontrosità, le irritazioni.
C'era anche qualcuno che ti diceva “è tardi
dobbiamo andare”.
E tu dicevi. “No io voglio ancora,
ancora io mi voglio, mi voglio rivedere,
e se non tutta almeno l'inizio”.
Che cosa avresti fatto per sentirti un po' più sola,
e per dolcemente navigare sul dorso, sul tuo petto
e fare una capriola che ribaltasse il cielo.
Lì c'eran tutti predisposti i baci asciutti
e meno e tutti i desideri
e le istintive applicazioni di te
erano montate ad arte accanto al tuo profilo
vicino a ogni tua parte.
E tu dicevi ancora un altro poco
e se non tutto almeno un po' d'inizio.
Fare si può fare ed anche disfare ma è un'impalcatura.
Dipende da chi sopra ci sale. E tu dicevi ancora un poco
e se non tutto e se non tutto almeno l'inizio.
E tu una volta su, osservi la tua stanza.
Tu la tua nella quale oltre il disfare e il fare
si delineano cose appena, appena verosimili.
Con ciliegie passeggere e grappoli appannati
d'uva segrete e nere dalle pelli boriose e fini
perché tu che ti senti alle volte una mandria
possa indire turchini selvaggi festini.
Con curvi cieli estivi che scendono
come coperchi su te che bollivi.
Con i freschi provvisori che soffiano
sotto i cuscini e tu li assalivi con gli abbracci e le guance
giaciute con l'equatore perché di te già cibata
non è di calore che hai bisogno
ma di un orgoglioso refrigerio.
HEGEL
Ricordo il suo bel nome Hegel Tubinga
ed io avrei masticato la sua tuta da ginnastica.
Il nome se lo prese in prestito dai libri
e fu come copiare di nascosto
fu come soffiare sul fuoco.
Cataste scolastiche perché ?
quando tutto è perduto non resta che la cenere e l'amore
e lei nel suo bel nome era una Jena.
Chi di noi il governato e chi il governatore.
Son fatti che attengono alla storia
chi fosse la provincia e chi l'impero
non è il punto.
Il punto era l'incendio.
Erano gli esercizi obbligatori estetici
le occhiate di traverso e tu guardavi indietro
c'eravamo capiti, capiti all'inverso.
Ci diventammo leciti per questo.
D'altronde d'altro canto,
a volte essere nemici facilita.
Piacersi è così inutile.
Un bacio dai bei modi grossolani
sfuggì come uno schiaffo senza mani.
Talmente precisi ci si rese conto
d’essere un allegoria soltanto quando
ci capitò di dire indicando il soffitto col naso
di dire "noi due" e ci marmorizzammo.
La corda tesa a mò d'arco e la tempesta, la schiuma.
Il cuore amò se stesso ma noi non divagammo.
L'animo umano è nulla se non è
una pietra da scalfire ricavando
i capelli e il suo bel piede.
Era la collisione, il primo scontro epico
perché non scritto ma cavalcato a pelo
ed ognuno esigeva la terra dell'altro
le mani, la terra, la carne e il terreno.
TUBINGA
Da qualche tempo è recente anche l'antico.
Il disco del discobolo è cromato.
Nella testa di Seneca si sente il motorino di un frullatore.
Nelle piramidi continuamente scatta un otturatore.
E in te Tubinga in te non c'è un juke-box e non un tostapane.
Tu mi risparmi d'essere testimone antico e recente
delle istruzioni lette attentamente.
Non un tasto in comune, non un percorso
passando per “B” e “C” dalla “A” alla “D”.
Non un cablaggio, non una connessione.
Non la contemplazione, nemmeno l'esperienza.
Ma una delicata leggera confusione,
perché mi sfugga come una stoltezza
l'invocazione a te mio generale, mia generalessa.
E al posto del carattere.
E al posto del carattere mia cara,
poniamo una tempesta un caso esterno,
un alto mare che i giorni, i mesi, gli anni
inseguono e non possono afferrare.
Io decorato di passamanerie come un divano
per dirti siediti distendi le tue gambe ed usura il tessuto col
tallone
poi dormici su che poi quando ti svegli parlandoti di me ti dirò
egli.
Egli è qui. E' qui ed ora e non ti dirò altro.
Non parlerò di stili e di reliquie.
Tutto è recente come uno squillo di sveglia.
La data più vicina è un dormiveglia.
E al posto di cose ci sono le cose, poniamo le cose, esaurite le
stesse.
E dopo le stesse mettiamo le cose se le medesime vanno esaurendo.
Un bel poligono al posto della stella e nel quadrato il tondo
andando bene.
Nel coraggio di Achille le rotelle per fare l'orlo alle
pastarelle.
E supplicante l'immagine è morente narciso e dalia e insetto
galleggiante
come pasto rimastica le spente nature morte virtuosamente.
Ahi! c'è qualcosa che cade e una cosa sta su.
Ahi! c'è del chiaro e del bruno c'è.
C'è una cosa chiusa in sé, fa un rumore un po' tacito.
Sembrerebbe il sussurro dell'acqua.
Ahi! c'è qualcosa che odora, una, profumo non ha.
Ahi! c'è del grande e del piccolo.
Una c'è fintantoché ce n'è un'altra che mormora.
Sembrerebbe il sussurro dell'acqua.
Ahi, c'è qualcosa che chiude. Una schiude, una resta dov'è.
C'è dell'asciutto e dell'umido nelle cose cosicché piatte l'une
altre ripide.
Sembrerebbe sussurro dell'acqua.
LA BELLEZZA RIUNITA
Mi apparisti vestita e più carpita da me, più che tu non lo fossi.
Misurarti la vita mi pare proprio che sia tutto quello che posso.
La bellezza riunita ha più difesa di sé mi dicesti
"sospira".
Come chi si ritrae con il dito chiedendo silenzio
la totale pienezza di te.
Dal mio braccio destro si disincagliava e calava nell'ansa
del sinistro mista alle piegature e declinava.
Di te, in te stessa l'attività assoluta.
Era una lotta contro la natura che è dimessa al vento, succube
alla furia.
Ma tu non soccombevi eri impennata sulla tua forma finita e
creata.
E la tua finitezza superavi sapendo di te stessa
non solo di convessa, di concava, di cava, umana pelle umana.
E la realtà finiva e il vero cominciava.
Certo imbruniva, ma imbruniva fuori.
All'interno i colori erano luci spente umiliati dalla tua bocca
ponente.
Dopo un po' si vedeva, soltanto quello che può perdonare la vista.
E scoprire le gambe, fu qui la tua miglioria per distinguere
meglio.
Ogni tuo gesto è compreso in tutto quello che sa di te stessa quel
gesto.
LA MODA NEL RESPIRO
La moda è generosa pensi, cade più docile delle mura
più facile dei bastioni ai tuoi piedi sciolta la chiusura.
Dici i Greci e pensi sono pieghe,
son colori i Fenici e i Macedoni fibbie, intimi i Latini.
La moda è generosa pensi, meglio di un pugile si risolleva,
più agile perde i sensi, crolla in pezzi senza alcun patema.
Dici i sogni e pensi ai bottoni, son asole i risvegli,
e gli scolli effusioni e spacchi gli sdegni.
E chi teme la moda è immerso in essa comunque
e d'essa intriso come un cardo dal gambo reciso.
E dici è molto comoda se esclude sempre di presentarsi in figure,
in tagli forme e positure immediatamente tutte nude.
Così che quando passa questo eccesso ci pare non avere perso nulla
ci pare non avere perso il tempo che la nudezza sbriciola e
maciulla.
Dici la via di mezzo ecco la via, quella percorsa dai ragazzi
alteri
che vanno a divertirsi nei misteri, spiegabili perché non
intralciati
dai cupi sedimenti dei passati.
Mi dici il mezzo giro, quello che va di moda dei tuoi fianchi,
gli occhi totali, come elianti, la spossatezza semplice formale
ed un rilassamento collegiale.
Come se intorno a noi, in curvi corridoi i disciplinatori,
le studentesse e gli studenti rapinatori del momento d'oro,
consumassero un lusso di moine un rimandare sempre all'anno dopo
frenetici in un ballo senza scopo.
Noi nella stanza accanto, e la moda cambiava nel respiro,
il nostro che cambiava ogni tanto.
STANZE COME QUESTA
Prendiamo una carrozza anacronistica,
aggiornandola in quanto inesistente.
Saliamo alla sua guida.
Di redini,di lacci se ne trovano, di legami tra noi di dolci
bende.
Bardiamo un animale a caso: il cuore.
Dai fianchi pretenziosi da roano.
Ecco che trotta. Che ci prende la mano.
Abbiamo visto le regge dietro le inferriate
e le foreste nere e le campate non so di quanti ponti.
Ho visto la tua nuca ad Alessandria
e poi me lo racconti se ci sei mai stata,
se ti senti, ti sentivi osservata.
Il posto è qui.
E' qui quel lavorio dell'erba simile al pensiero
che contiene nel vello quell'orma del tuo corpo
ed uno stelo sconvolto.
Dal tuo gomito che avrebbe dimenticato d'essere carnale
per non dimenticarlo in generale.
Qui si incavano senza corpi a pesare
le nostre impronte a muoversi a sedere.
Vedi là, vedi là.
E gli occhi saltanò come chiaro e pupilla capinere.
Ci sono posti al mondo dai quali non c'è fuga.
Stanze come questa nelle quali restano le nostre rappresentanze,
i nostri uffici doganali.
Dove noi veramente, ci impieghiamo
avviluppati in teneri sofismi, cavilli di permessi,
arzigogoli tropismi, nella nostra direzione.
Una frontiera fatta di due righe.
E bastavano le dita di una sola mano mandata avanti
in viaggio all'altra le farà da testimone.
Si può vedere tutto e fermamente se di due righe è fatta
facciamo la frontiera, dove passa fauna e flora straniera.
ESTETICA
E' successo quello che doveva succedere.
Ci siamo addormentati perché è venuto il sonno
a fare il nostro periodico ritratto.
E per somigliarci a noi, più che noi stessi
ci vuole fermi, che appena respiriamo
e mobili ogni tanto, come un tratto sicuro di matita.
Ecco che siamo, la viva immagine di una
distilleria abusiva che goccia a goccia secerne puro spirito.
Noi dietro una colonna ridevamo per l'aneddoto
e ci contrastavamo amabilmente
su aria, fiato e facoltà vitale, su brio d'intelligenza,
sull'indole e sull'estro,
soffio, refolo, vento e venticello. Sull'essenza e sulla
soluzione,
sul volatile e sulla proporzione, sul naturale e sul denaturato.
E poi sulla fortuna. La fortuna non c'entra,
quando una cosa per terra si posa.
E vale sia per l'estetica che per l'allodola.
E lui continuava a ritrattare. A ritrattare, quindi.
E la reale e doppia fisionomia nostra
spariva via, come una coppia annoiata di visitatori da una mostra.
Noi dietro le sue spalle, ridevamo per l'aneddoto,
mimetico, drammatico, faceto, ditirambico.
E ci contrastavamo amabilmente, su verde, rosa e viola del
pensiero,
su mente giudicante, su lampo e riflessione
e sul limpido e il cupo e il commovente,
su coscienza e su allucinazione, sulla celebre cena e gli
invitati.
Colori che divorano colori.
Se lo spirito s'eccita per caso esilarando
oppure ardendo bruciando bruciando.
E chi dei due, ha le parti fredde cercando le tue.
LA VOCE DEL VISO
Per insignificanti movimenti tanti e tanti il volto è tutto
e tutto sta raccolto sopra il tuo bel volto,
lingua che sei straniera, e non si sa se vuoi che io
ti distingua dalla mia o se mia lingua ti finga.
Bocca di gradazioni, intera gamma dalle predilezioni alla maniera
amara.
Bocca che mi sei cara appena appena schiusa quando armatura in te
quella fessura è un dissuadendo le svariate forme labili
d'espressione
per tentativi ed approssimazione. Ed il tuo volto è tutto
nel momento in cui passando sopra la tua immagine
della quale è troppo facile dire che in superficie
affiori l'anima passando sopra alla tua immagine invece
ci si vede intraducibile l'estraneità al lavoro.
Che il volto è tutto, ma non è del corpo, al quale pare unito.
Il corpo contentando il senso della nutrizione
il viso l'ascensione, l'assorbenza dell'inappetenza
perché un bel volto è bello se lo si può guardare
è un disimparare del mondo questo e quello.
Così ci si innamora di un viso in cui l'estraneità lavora.
Il corpo segue come un testimone casalingo e familiare
e di questa apparizione in su la cima.
Quest'opera sensibile il tuo volto che si manifesta ed è
oltre all'ordine della natura, e come tutti i portenti tende a
scomparire
più cerchi di tenerlo a mente e nelle spire dei ritrovamenti
portentosi.
E la voce del viso allora nemmeno ricorre ai miracoli
non un riso, un pianto non una smorfia, densa d'oracoli.
Ma dà senso quella voce a un solo volto che sotto il mio
rotola si ferma e freme alle mie mani preme
perché lo riporti in cima, in vetta al suo sistema dei piaceri.
Secondo un canone, un precetto ed una disciplina
che inumidisce i capelli e per discrezione stende un velo di
malore sulla pelle.
Ti spadroneggia allora il tuo godìo disincantato in quanto più è
restìo
al racconto lenitivo, al riassunto giulivo.
E non è riso appunto.
E non è pianto il tuo perché racconto è il riso e pianto il suo
riassunto.
Sul viso la sintassi non ha imperio, non ha nessun comando.