1990

LA SPOSA OCCIDENTALE

 

 

·        Tu non ti pungi più

·        Potrebbe essere sera

·        Timida molto audace

·        La sposa occidentale

·        Mi riposa

·        I ritorni

·        Alcune noncuranze

·        Campati in aria

 

Registrato in Inghilterra dopo molte sedute (ed parecchi ripensamenti) in sala di registrazione, “La sposa occidentale” propone ancora una volta una equazione sonora capace di equilibrare ogni strumento e dove il famoso falsetto afono di Lucio Battisti si inserisce nelle linee melodiche (o meglio nei segmenti melodici),  dei brani persino in sottofondo, scelta non facile per il naturale egocentrismo di un cantante.

Terzo atto della ricerca dadaista battistiana l’opera  propone un ritorno, non si sa se frutto del caso o di una stesura volutamente meno irta, a testi meno ermetici. Almeno un paio di brani conservano infatti una struttura testuale definibile come tradizionale e in particolare quello che dà il titolo all’album dove viene espressa una iperbolica e schizofrenica dichiarazione d’amore e  “Tu non ti pungi più” invito ricco di virtuosismi fonetici (su cui Panella può tranquillamente rischiare la leggibilità del suo testo avendo a disposizione una voce duttile che non bada alle misure) e ad un messaggio che invita a vedere la quotidianità in una nuova dimensione.

Le descrizioni che lasciano rimbalzare le opposte spinte ad agire e al sostare sono l’argomento di una cantilena scandita da una azzeccatissima chitarra elettrica ora in un sottofondo hard ora in arpeggi che accompagnano il testo, pregno che non maschera parole di un soffuso ottimismo. Fanno curioso capolino in questa canzone dai risvolti esistenziali anche epifanie improvvise: “se un santino ti visita e ti indora, non rimandando a poi perché dilegua…”

Di grande bellezza è anche la seguente “Potrebbe essere sera”, probabilmente una risposta evasiva e ironica ai versi della “Ed è subito sera” di pascoliana memoria, una straordinaria poesia futurista dove l’abituale ambiente notturno diventa surreale descrizione del momento che precede la notte, un istante infinito in grado di ricreare continuamente il domani che verrà “L'ora nella quale tutto resta non tanto com’era ma come sarà”.

Ermeticità ? Non ci pare: piuttosto ci troviamo di fronte alla descrizione di una realtà urbana affascinante perché ricondotta a figurazioni e metafore assai originali.

Il disco è caratterizzato da un impatto delle musiche scioccante non per la difficoltà di fruizione, di ascolto ma al contrario, per la loro capacità di scorrere quasi prevedibili, in consonanze e ripetizioni scandite da una sezione ritmica meccanica. Uno dei brani più imprevisti e indicativi in positivo di questa precisa intenzione è senza dubbio “Campati in aria” che presenta una spassosa introduzione volutamente “sguaiata” ed autoironica, volutamente copiata dai moduli della disco-music anni settanta e che propone l’ennesimo, funambolico testo, divertito e divertente “…potremmo per miracolo affondare, con la stessa disinvoltura ed eleganza, con la quale sprofondano i piroscafi in mare, con tutte le luci accese, e si direbbe che a bordo c’era un ballo”.

Molti testi di Panella sembrano sondare l’irrazionalità di un mondo femminile che la parità ha reso paradossalmente ancora più distante da quello maschile; così avviene in “Timida molto audace” dove la protagonista viene descritta  come una personalità piuttosto incoerente: “non sei mai la stessa nemmeno a volerlo".

Ma, a dire il vero, stavolta la musica risulta davvero debole e non prende mai un’impennata trascinandosi in un sottofondo che fa divenire anche il canto un intercalare pigro. Insomma è il brano più insignificante del disco, parzialmente reso interessante solo dall’accorto uso di voci campionate (ovvero ottenute sinteticamente tramite un sistema di registrazione dal vero) e da una bizzarra chitarra country and western alla fine del brano.

“La sposa occidentale” diviene sin dal primo ascolto un accattivante ritmatissima e frenetica enunciazione-evocazione sull’identità di una donna a cui si elencano le iperboliche disponibilità tanto insistenti da apparire sospette sulla concreta realtà della ricevente. Il brano gioca, aldilà della accattivante veste musicale, su un testo che svolge il tema di una doppia personalità dello scrivente che si manifesta nella narrazione ossessiva.

Un tempo inusuale lascia libero spazio ai versi ora allusivi ora folli di Panella in “Mi riposa” dove la scansione vocale, il canto di Battisti, stupisce per la capacità di riuscire ad accordare e armonizzare un testo praticamente impossibile da eseguire, saltando le misure, inserendo decine di note in altre, in un crescendo di ascensioni di straordinaria intelligenza e intuizione.

Anche in questo brano utilizzando la massima tecnologia Battisti rimane sempre in grado di mediare calcolo e improvvisazione e la tendenza al reale del testo cede il passo alla fantasticheria compiaciuta in tante metafore folli: “T’esce un amore mio come un colombo dalle feritoie (...) roca, diventi roca con una voce, poca, da ciceronessa che spiega com’è bella se stessa”.

Il titolo, particolarmente evocativo de “I ritorni” offre una delle più belle canzoni del nuovo corso battistiano. Innanzitutto un testo che parla d’amore come pochi hanno saputo fare, pur essendo l’argomento principe delle canzoni. Una interpretazione emozionante e un arrangiamento elettronico ma caldissimo nel suo proporre suoni che ricordano le chitarre tanto care a Battisti, un brano che è la sintesi perfetta di tutte le esperienze del cantante. Dicevamo come la struttura melodica risulti evidente e riporta gli ascoltatori ad un passato mai dimenticato, il testo suona meno asimmetrico degli altri in una ambientazione musicale comunque futurista. (“ é sempre per caso che sulle labbra torna la parola amore. Per noia o esercizio o perché non si sa mai che potrebbe tornare utile...”. Nel brano si avverte uno stato di oscillazione sentimentale che si connota mirabilmente di malinconico e i giochi di Panella questa volta si scoprono in un afflato partecipativo che si sovrappone persino alla solita inventiva dello scrittore campano.

Nel successivo “Alcune noncuranze” (il più lungo del disco: ben sei minuti e mezzo), ritornano invece le allucinazioni e le allitterazioni, tanto indigeste alla poca volontà di un ascoltatore distratto e non divertito sono scoppiettanti: “e invece ti soccorri con un’unghia che sembra fatta apposta per essere un bisturi, e in mano a te diventa pericolosa”.

Più di ogni altro disco di Battisti “La sposa occidentale” innesca polemiche e persino segnali di insofferenza da parte dei vecchi fan del cantante: le definizioni vanno dall’incomprensione totale a definizioni prefabbricate di cervelloticità  di un pop troppo tecnologico.

I nostalgici e gli addetti ai lavori ignorano che le ragioni di un cambiamento di rotta così deciso vanno ricercate non solo nella scelta del mezzo di espressione elettronico ma nell’intenzione imprescindibile per ogni artista autentico, di spingersi sempre oltre i propri limiti.

Superato il traguardo dei cinquant’anni Lucio Battisti ha deciso di usare la musica leggera come fine e non più come mezzo. E forse i pensieri e le parole sono ancora fra le righe, anzi nei versi. Ancora una volta siamo di fronte a sorprendenti allitterazioni, ambiguità, antitesi in testi che si sovrappongono alla musica con grande intelligenza. Sotto il velo della comunicazione si presenta al pubblico una raccolta di canzoni-anticanzoni che legano il nome di Panella a quello di Battisti. Una bella soddisfazione per un paroliere che nel panorama italiano assume la fisionomia del cappellaio matto di “Alice nel paese delle meraviglie”.

Altro e ammirato riconoscimento va invece a Lucio Battisti che consociato al suo nuovo autore di testi firma lavori uguali e diversi ad un tempo e che sortisce miracolosi equilibrismi fra ricerca e melodia componendo musiche su testi polimorfici in grado di mutare significato secondo lo sforzo interpretativo di chi li ascolta.

“Don Giovanni”, “L’apparenza” e “La sposa occidentale” sono lontani dalle vendite record un tempo abituali per Battisti, in quanto ognuno venderà circa trecentomila copie e conquisterà i vertici della classifica per poco tempo.

Il fatto non è da considerarsi reato né assume soverchia importanza per Battisti e per i gli appassionati di musica leggera d’autore. Anche perché, giova ricordarlo, in Italia oggi un disco d’oro viene assegnato non più a chi vende un milione di dischi ma a chi riesce a piazzare cinquantamila e a monte di ciò stupisce il fatto che Mogol, intervistato dal settimanale “Epoca” si affanni a sostenere che con lui Battisti avrebbe venduto assai di più, accomunando una prova artistica elevatissima del suo ex protetto, ad una mera questione di economica.

 

 

TU NON TI PUNGI PIU'

 

La lotta dei cuscini senza sonno che spiumano,

che fanno zampilli di pollini che pullulano

aggressivi, irsuti, istigatori di starnuti.

Così tu te la spassi amoreggiando,

e te la prendi comoda, con morbida ovvietà,

sembrando tu un guanciale contro un altro che t'assale,

il tutto in una schiuma, che coi talloni monti come l'uva.

E come un muschio domestico stampato e quanto inutilmente rimboccato.

Questo composto di onesta futilità mista a passione come un cialdone si sfa;

sulle rovine, vorresti forse anche tu in bricioline come una reggia andar giù.

Tu non ti pungi più, e la vaghezza non osa, vai molto oltre, tanto poi ti raggiungi.

Impenni una montagna solidale e nel suo fianco falle, falle rudimentali,

aperte come portali per i tuoi puntuali appuntamenti molto occasionali.

E la pianura s'ingrossa: fra la cresta e la fossa,

tu non ti pungi più, l'erba enorme cavalca bianca e verde cobalto,

prendendo al volo forme di caduta e di salto,

infine dorme come un binocolo nella custodia la tua vista.

Se un santino ti visita e t'indora, ma rimandando a poi, perché dilegua,

tu, perché ti accora, canonica lo fai languire prima

e mormori un oramai come una preghierina.

Oramai, ora cosa, ora che: perso per perso ohimè.

Candida o perversa ma che non ti pungi più,

raccolta o dissipata, esausta o fresca fresca,

quasi niente per niente pungente pungente,

ma rizzi e doni quel barbaglio alla Luna.

Questo è quanto. Con una belva accanto,

è questo il modo in cui fai l'amorosa: assumi pose inesplose, e non ti pungi più,

non fai più la raccolta d'incanti ardenti ed arsi.

Una vela è un sottile perché, un avvilito ohimè,

e non si dorme bene ché lune piene tutte beate, mutevoli e brune.

Tutte toccanti.

 

POTREBBE ESSERE SERA

 

Potrebbe essere sera,

potrebbe essere una sera alabastrina,

con le sue venature ed una serpentina

fessura per passare dalla sera alla notte con la nostra piccina.

Viola il colore della sera, l'ora nella quale tutto resta

non tanto com'era, ma come sarà.

Rinviate le schegge, s'infrangono come vetrate le saracinesche,

come se non dovessero riprendersi più, risalire, riaprire un domani.

E i viali vanno avanti in due filari, per pura educazione, così per cortesia

non finisce la via, pur avendo diverse ragioni per fermarsi:

cercare gli aggettivi catarifrangenti infranti e lucenti.

Ma con l'educazione e con la cortesia,

c'è da fare attenzione tra i viali e sulla via

nell'ora in cui si avvera soltanto il colorito della sera.

Viola paonazza, la ragazza è sola

con suo grande sollievo per godere con me,

si permette un coda, roteata all'intorno,

se la mette, la leva: potrebbe essere sera.

Le foglie fanno i compiti sui rami: i bilanci, i conti,

la lettura con occhi castani, potrebbe essere sera.

E tu potresti ridendo dire

"Non ho spiccioli, resti d'inverno,

né di primavere, davvero non ne ho,

e non posso cambiare, scusate, né l'autunno, né l'estate".

Viola, paonazza la ragazza è sola, passa e ripassa la linguetta rosa

sopra il quesito del suo labbro squisito.

E come resiste, ma come resiste, al lamento ottimista di una felicità;

si permette un rifiuto con il mento levato, più bellina più altera:

potrebbe essere sera.

Come chi in sonno dicesse una frase così, giorno dopo giorno, un rumore così,

a dissolvere a smorire un frase così "Non è così com'è, non è com'era"

Tu cedi all'insistenza dolce e viola, seguendo la pendenza della sera.

 

TIMIDA MOLTO AUDACE

 

Amato tanto così

me lo ridici

amato tanto.

Timida molto audace

la stessa diversa persona sei tu,

e per cambiare ti basta saperlo,

che non sei mai la stessa, nemmeno a volerlo.

I simboli non sai cosa siano,

un'ortensia non è nemmeno quella.

Hai la pazienza di un'onda

compresa la tendenza a soffermarti mai,

come fosse la fine.

Non un dito notevole,

ma dieci impercettibili soprusi,

aperti come i mari, e come i mari chiusi.

Neri i tuoi neri sconvolti divampati imperi irrisolti,

e matematicamente rivolti a contenere zeri.

Impensabili però malleabili, ballabili mammelle

abbracciate alle quali volteggi

sotto il lampadario delle stelle,

inutilmente imitatrici dei tuoi denti.

Prendi, e dagli spaventi tanto sentimentali,

tiri le diagonali dei sospiri violenti.

Svegliata la mattina, guardi nel posto accanto

lo sfinito e per quanto respira o non respira.

Sai che non si è mai la propria vita,

la tua ti serve appunto per certezza,

tu vivi e lasci vivere te stessa

con un congedo, con una carezza

sicura con la mano, sicura con la mano,

con la guancia perplessa.

Sciolta come le braccia scomparirà la neve:

per sempre se ne andrà, e se dovrà ricadere

sarà come un armadio che si sgancia

e precipita dal cielo in tante schegge.

E tuttavia, però comunque sia, bellezza e compagnia

non vanno bene, non si legano insieme.

Risentirai la neve risuonare dentro le risatine,

come un piacere che non sai trattenere.

La neve tornerà come un pretesto dipinta e sempre finta,

e tu la irridi, la lusinghi e la sfidi

e la solleva il tuo sbuffo selvaggio.

 

LA SPOSA OCCIDENTALE

 

Non dobbiamo avere pazienza,

ma accampare pretese intorno a noi

come in un assedio, ed essere aggrediti

dalle voglie più voluminose:

un fiore, che è un fiore, io non te l'ho mai portato

vuoi improvvisato, vuoi confezionato,

ma trasferisco da te tutti i fiorai,

è più facile a dirsi, e infatti te lo dico.

Ti piacciono i dolci,

ed io sul tuo terrazzo impianto un'impastatrice industriale

che mescola e sciorina la crema per le scale.

Se tu ti vesti, io sul tuo balcone

faccio calare in forma d'indumenti,

tutti i paracaduti ed un tendone bianco da sceicco

e la sua scimitarra per fermaglio

ed è più facile a dirsi che a dimostrarlo falso,

e infatti te lo dico perché non basta il pensiero.

Vuoi prendere un treno di notte

pieno di paralumi e di damasco per dormire,

sennò a che serve un treno:

alzo con le mie leve tutti i binari

e, senza alcun disagio di viaggiare in discesa,

scivolano da te tutti i vagoni.

Detto cosi' e' semplice e infatti lo é detto cosi'.

Ti lascio immaginare cosa succederebbe

se tu volessi bere, se tu volessi nuotare,

se tu volessi l'ultimo centimetro di cima

del monte che ti pare

per farne niente o per otturare

un buchetto qualsiasi in fondo a un mare.

Trascurando il tempo ed il riso

tu escludi le risorse più abusive

che sono state mai precise come

sul tuo bel viso rilassato ed inespressivo.

Se nulla capivo, qui tu finalmente

nulla lasciavi germogliare sulla brulla,

paradossale, tra noi terra infondata,

dove sono i leoni, ammattiti e marroni,

lasciando immaginare la sposa occidentale.

La sposa occidentale che sembra quasi ridere

e invece lei respira, quasi piangere, ma gira

dall'altra parte il viso, ma ritorna

portando sue notizie inaspettate;

amando tutto ciò che adora,

chiama con nomi fittizi le cose:

così, semmai, le rose son spasimi, per ora.

 

MI RIPOSA

 

L'aereo rulla sulla pista sgombra,

e il ruscelletto frulla, radente dentro l'ombra,

dove, non visto, fa certune cose.

Noiosa come sei, mi sei preziosa.

Monotona ottimale, mi riposa la confidenza tua priva di varietà,

la musica camusa che stempera le palpebre,

le strugge in cere fuse e le sigilla su pagine non chiuse.

Noiosa ti dimentichi di me, e siamo soli.

E tu parli di noi senza abbandoni,

e senza animazioni e con la correttezza

di una traduzione che risuoni

facile e fedele senza quelle inutili trappole e stili.

Pratica, con te sei pratica,

sfogliando un argomento prediletto,

ma non sono petali: tu i fiori li divori,

come i gialli: "La corolla assassina", "Il pistillo che sa".

Ti appassioni stordita, tutta in punta di dita al variare dei fiori.

E li divori, come una capretta

illetterata ai titoli dei gialli fiorellini di ruchetta.

Noiosa in un esilio, segnata dallo smalto,

ti scusi se hai le mani che somigliano ad altro.

Scavalli ed accavalli le gambe, d'un tratto,

come i tergicristalli, e infatti ti schiarisci, traspare,

che dentro l'idea chiara, vacillano i corpi giovinetti

col tridente ad infilzare gli amori serrati,

corazzati e profondi dei ricci di mare.

La macchia tonda e dolce dei bicchierini,

le scarpe decoltè, quel capogiro, che

scossa agli orecchini, l'ondaccolo dei vini,

e cirri bronzini dei capelli infantili.

Statica, ritorni statica, con lievi incrinature,

serpeggiamenti dentro le strutture

esce un amore mio, come un colombo dalle feritoie,

che viaggia tanto e tanto, ha già viaggiato tra le noie,

si butta a capofitto, diventa un ruscelletto

che frulla, radente dentro l'ombra,

e la tua voce rulla sopra la pista sgombra.

Roca, diventi roca, con una voce, poca,

da ciceronessa che spiega com'è bella,

com'è bella se stessa.

I nostri tè si bevono da sé, molto corretti,

e intanto è incominciata la sfilata di intere collezioni di biscotti.

 

I RITORNI

 

E da quel punto in poi sentimmo sotto di noi

svolgersi il sentimento, largo e intento

ad una tutta sua meditazione, non curante

che sopra la sua pelle si ballasse.

Le foglie coi barattoli, le casse con i tronchi senza cuore.

E lo scandaglio calava dalle prore, poi ritornava su

chiedendosi "Perché, perché il ritorno?".

È sempre per prova che sulle labbra torna

la parola "amore", per prove d'esercizio

perché si sa che poi non si sa mai, che potrebbe tornare utile.

Tornare, per raccontare il furore e il gelo delle notti aurore.

Bianca e assai provata, scampata per un pelo per poter ritornare,

come dalle crociate, a un futile sopravvissuto a tutto,

che ritorna più utile che vivo, quindi innamorato ancora.

E torna, torna, lei gli ha detto torna

ed era una bambina, finalmente, e gli diceva torna.

Abbiamo un solo limite: l'amore che ci divide.

Come la ragione, perché con la ragione

si sopravvive a tutto, si distrugge il distrutto,

ricostruendo a intarsi la copia fedele dell'innamorarsi,

e un tassello alla fine o è dell'uno o è dell'altro.

E i sogni si allontanano come i cavalli scossi, caduti i sognatori;

bocconi tra le fragole, ma più dolci e più rossi, ridotti a dolenti spifferi.

E docili incompetenti nella lotta incerta tra il ridire e il fare l'amore colloquiale.

E lei continua a dirsi: "Si sopravvive a tutto per innamorarsi".

Amarsi è questo: escludere d'essere i soli al mondo,

i soli ad esser soli amando, sterminandola l'invincibile amata.

 

ALCUNE NONCURANZE

 

Non un complotto e non una soffiata,

nemmeno tra le ciglia, perché tu sbatta gli occhi,

e non un parapiglia senza sbocchi:

niente di tutto questo, ma saranno le disinvolture,

ed alcune noncuranze a tradirti:

come tu resti seduta sulla sponda del letto,

come non dici nulla, quando non lo dici.

Perché lo hai deciso, e fai sì con la testa,

come una ginnastica, perché lo hai deciso

di perdere il filo.

Saranno queste cose un poco oziose a tradirti:

sarà un prurito quando non esiste,

e invece ti soccorri con quell'unghia fatta apposta

per essere un bisturi che in mano a te diventa decorosa.

Innocente, perché curatissima, sarai tradita

dalle tentazioni, nelle quali saprai

come cadere, ossia da sola, solo arricciando il naso,

in modo sorridente, quando il sorriso vive,

essendo bolla d'aria tra il labbro e le gengive.

In campo scenderanno forze prive di forza,

le tue piegate dalle brezze estive,

e saranno a tradirti queste ondate di pigrizia,

di estenuazione senza alcun motivo.

Quando avvertirai, distinto, sopra tutto,

il profumo che sale dal tuo polso.

Quando ti sentirai rotonda in certi punti,

e in altri più in pianura

con zone inesplorate, lontane e lontane da te.

Quando una gamba atterra, mentre tu sei distesa,

hai il peso di tutto quanto resta

sulla terra intera, meno te, l'unica in questo momento

di cui non ti fidi, e saranno dei nervi minori a tradirti.

Se cade un bicchiere da solo, se vola una sedia sullo scaffale,

allora tutto ritorna normale.

 

CAMPATI IN ARIA

 

Sei molto presa dall'idea che infine ci incontreremo:

vedi sempre la stessa scena, e non si sa da dove venga io,

ma per comodità la mia figura si forma in quel momento

e qualcosa ti cade di mano, anzi no.

Sei tornata a fiorire tu vignetta gentile

con una fretta di furbe nubi d'aprile.

E provavo qualche cosa per te,

questo provai, soltanto che mi sfuggì quella prova.

Non ci vediamo che da sempre

e questa ti pare una buona ragione

per sporgere le labbra, come un fischio,

e poi guardare altrove, senza però fischiare,

cominci a capire chi siamo:

i nostri emissari venuti a discutere molti punti difficoltosi.

Ho stravisto per te. Non so chi, non so che,

resta lo stile delle agitate vigilie.

E il tumulto che da te sortì,

detto così, so solo che mi sfuggì qualche sussulto.

E tu nonostante ciò solleciti,

mesta, calma e onesta e un po' scolastica.

Potremmo per miracolo inciampare

con la stessa disinvoltura ed eleganza

con la quale sprofondano i piroscafi in mare,

con tutte le luci accese,

e si direbbe che a bordo c'era un ballo,

luccicando le stesse vaghe spine, indigeste,

degli estri scritti, tra i fitti immensi nerastri.

E ti strinsi, ed il senso sparì:

essendo lì, nel senso che mi sfuggì,

seguendo l'istinto,

tutto il senso che s'è letto, tutti i libri.