NATALE:
RINASCERE NELLA FEDE

Se Dio c’è, con la mia vita e con quella del mondo Egli non ha nulla a che fare». Così pensa l’uomo di oggi. Siamo in un tempo in cui cresce l’indifferenza religiosa, preludio dell’atei-
smo pratico.

Questo ateismo, è diventato una mentalità diffusa. Molti ancora non se ne rendono pienamente conto, ma questo, purtroppo, è il fenomeno più significativo della nostra epoca. Tuttavia, questa tendenza viene sovente camuffata: la fede è soppiantata da una spiritualità autogestita: «Io credo ciò che mi pare bene credere».

Si tratta di una spiritualità sganciata dalla fede in Gesù: tutt’al più considerato un esempio di generosità ed altruismo.
Tale spiritualità, ha nei buoni sentimenti e nelle buone azioni il suo risvolto più spettacolare. Facilmente si traduce in attività benefiche ed in iniziative a vantaggio di gruppi e persone bisognose. Si ha l’impressione che, al di là delle intenzioni, si voglia infiocchettare questa spiritualità senza fede, in modo da poterla spendere con successo. Splendente come le strenne natalizie, essa appare una convincente e moderna alternativa alla fede in Cristo e al cammino di conversione, dove ognuno deve, invece, assumere la misura di Cristo e rinunciare alla propria.
Qualcuno potrebbe obiettare: “Cosa c’è che non va in tutto questo? Il cristiano non deve forse aiutare il prossimo?”. Senza dubbio l’amore al prossimo e l’approvazione per chi è impegnato ad aiutare gli altri sono parte dell’agire e del sentire cristiano. Ma la fede non si riduce alla sola generosità. Altrimenti chi più ha, più avrebbe fede. Il che è semplicemente ridicolo, in quanto i ricchi sarebbero i primi nel Regno dei Cieli. Basta che siano un po’ generosi...
Ma il vero pericolo è ancora un altro.

Sovente, la fede è data per scontata, mentre al suo posto sono messe ben in evidenza le attività benefiche di ogni tipo anche se condotte senza alcun buon senso.

Il pauperismo, il terzomondismo, l’ecologismo, sono diventati i contenuti della fede e il cristiano è colui che di queste cose deve primariamente occuparsi. Così, non pochi pensano che la persona buona, cioè “cristiana”, sia quella che aiuta il prossimo. Ma alla fine avremo a che fare con una concezione del cristiano e della sua identità basata non su ciò che egli è, ma su ciò che egli fa.

Puntando tutto sull’agire ne consegue che la fede in Cristo e la sua Grazia diventano irrilevanti, e così la Chiesa e i Sacramenti.
Il rapporto con Cristo, che si oggettivizza nei Sacramenti ricevuti con fede, appare qualcosa di secondario rispetto all’urgenza di aiutare gli altri, in primo luogo gli “ultimi”.

La Chiesa non è più lo strumento voluto da Cristo per incontrarlo, seguirlo e fare la sua esperienza, non è più il suo Corpo, il prolungamento della sua Incarnazione nel mondo, ma un’istituzione che richiama tutti alla rettitudine morale e alla convivenza civile, non più alla conversione e alla fede. Non stupisce allora che Cristo, per molti, abbia perso la sua divinità, che la sua Grazia sia svanita come componente essenziale della vita cristiana, che la Celebrazione Eucaristica sia ridotta ad avvenimento sociologico, dove l’omelia è un richiamo moralistico al volersi bene (tanto insistito quanto disatteso). E non stupisce poi che il Sacramento della Riconciliazione sia praticamente scomparso.
Ci troviamo così di fronte a una riduzione sociologica del cristianesimo, come dimostrano questi anni in cui non ci si preoccupa più di annunciare Cristo per la conversione delle persone, ma si è tutti presi da qualche attività sociale da svolgere.

Occorre tornare a Cristo, a quell’avvenimento di cui facciamo memoria a Natale.
Urge ritrovare la fede, non quella generica in Dio, ma quella in “colui che Egli ha mandato”.
Meglio ancora: urge la conversione a Cristo, quella conversione che è la fede diventata sequela di Cristo. Occorre che nelle nostre comunità, nelle nostre Parrocchie, si torni a curare la fede, consapevoli che essa mai può essere data per scontata.

Curare la fede affinché diventi giudizio sulla realtà e da essa scaturisca una mentalità e una sensibilità capaci di spendere efficacemente questa fede in ogni circostanza.

Occupati ad assumere le mode ideologiche del tempo, impegnati ad aggiornare il cristianesimo e a modernizzare la Chiesa, molti non hanno più annunciato Cristo.

Al Natale ci si prepara partendo da quel grido (o forse sussurro?) che scuote la coscienza. Ascoltiamolo. Lo sentiremo implorare la salvezza, l’esperienza di quel centuplo che Cristo ha promesso a coloro che lo seguono.
Per il grido dell’uomo, insopprimibile nonostante tutto, Cristo è disceso in una culla e in questa culla può essere riconosciuto e accolto. Solo così, lasciando che Cristo invada il nostro cuore e riempendolo di sé ci renda autenticamente uomini, possiamo celebrare il suo Natale. Tutto il resto, comprese le opere buone, o sono la conseguenza di ciò (“ex abundantia cordis”) oppure sono una distrazione che ci allontanano da quella gioia per cui Cristo è venuto, la stessa gioia che ebbero i Magi: “Al vedere la stella, essi provarono una grandissima gioia” (Mt 2,10) quella stessa gioia che Cristo ci ha promesso: “Questo vi ho detto perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena” (Gv 15,11).

                                                                                          Don Giuseppe Pelizza


RIVISTA MARIA AUSILIATRICE 2004-11
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