UN OSPEDALE CHIAMATO CASA
PADRE PIO DA PIETRELCINA
E LA CASA DI SOLLEVO DELLA SOFFERENZA

Il processo di canonizzazione di un frate cappuccino, padre Pio da Pietrelcina (1887-1968), che per anni vive in una cella di un convento a San Giovanni Rotondo, può sembrare un fatto che non ha nulla a che fare con il mondo della sanità, e soprattutto può dare l’idea di un andare all’indietro nel tempo dimenticando l’oggi. Ma non è così. Francesco Forgione (divenuto fra Pio nel 1903 quando veste l’abito di San Francesco) sperimenta la realtà del dolore prima da ragazzo, con un tipo di malattia intestinale che fece temere per la sua vita. Poi, da giovane, con la tisi. Divenuto sacerdote era considerato tubercolotico. Il calice e i paramenti con i quali celebrava venivano tenuti a parte, appositamente per lui. Nel periodo di leva conosce la situazione dell’ospedale militare di Napoli. E prende atto della mentalità di molti medici, del trattamento riservato ai malati. Il suo giudizio di base è negativo. Lo dice esplicitamente in alcune lettere.

In un luogo arido e selvaggio

Nel 1916 padre Pio è assegnato ad un convento posto in un luogo arido e selvaggio. Distante due chilometri da San Giovanni Rotondo. La sua vicenda terrena poteva concludersi qui. Nel silenzio. E nella solitudine. Avvengono però dei fatti che non si riesce a “coprire”. Il 20 settembre del 1918 appaiono sul religioso cinque piaghe, nei punti corrispondenti ai segni della Passione di Cristo. In realtà queste stimmate si erano già rivelate anni prima, ma padre Pio aveva chiesto al Signore di non renderle visibili, ed era stato esaudito. Comincia ad accorrere gente. L’agire del frate, però, non muta. E rimane noto il suo comportamento verso chi esaltava la sua persona, dimenticando la centralità di Cristo.
Il sostegno ai malati
Ma la santità di padre Pio non è qualcosa che guarda al Cielo dimenticando la terra. Egli conosce a fondo i tanti problemi del Meridione. Sa quindi che la sua gente è priva di una rete sanitaria qualificata. Spinge così vari conterranei a costruire a Pietrelcina una piccola struttura di tipo ospedaliero con pochi posti letto per le situazioni di urgenza.
L’iniziativa però non dura a lungo e presto tutto finisce.
Il frate comincia allora a pensare a un ospedale da far costruire vicino a lui, per seguire meglio i lavori. Soprattutto per sostenere le persone che dovevano realizzare l’opera.
Sul piano umano l’idea è tutta in salita. C’è una montagna da tagliare. Servono risorse umane. Economiche... Comincia così una serie di contatti personali con interlocutori che avevano già scelto da tempo il proprio posto nella società. E che a tutto pensavano fuorché alla prospettiva di cambiare radicalmente il proprio programma.

Casa Sollievo della Sofferenza

Il 9 gennaio del 1940 un gruppetto di figli spirituali di padre Pio si organizza in comitato. Verso sera riceve l’approvazione del frate. A fine giornata del 14 si arriva anche alla scelta del nome. L’ospedale si chiamerà Casa Sollievo della Sofferenza.
Si vede da qui l’idea del cappuccino: un luogo di cura è prima di tutto un ambiente (e non una struttura) che accoglie in modo corale, rispettando la dignità di ogni persona. Ed è, ovviamente, anche un centro ove si contrasta il male fisico. La seconda guerra mondiale sembra travolgere tutto. Ma l’opera di padre Pio non è cancellata. Fin dall’autunno del 1943 (il fronte è posizionato più a nord) truppe alleate sono presenti nella zona del Gargano. E riprende il fluire dei fedeli.
I primi collaboratori
Ma per tirar su un ospedale occorre pur iniziare da qualche parte. E padre Pio deve cominciare a “spingere” sulle persone a lui più vicine. Tocca così a Don Giuseppe Orlando (anche lui di Pietrelcina) di ricevere le insistenze del frate. E alla fine questo prete prende due gomitoli di spago, coinvolge un po’ di operai, e fa tracciare una prima strada. Comunque il problema vero non è il terreno (che è stato già offerto) ma il progetto. Ognuno ha qualcosa da suggerire. Non ci si concentra su un’unica idea. Diversi sono i progetti esaminati. Alla fine, l’attenzione si ferma su uno che veniva da Pescara. Era firmato dall’ingegnere Candeloro. Venne poi fuori che l’aveva fatto un uomo chiamato Angelo Lupi. Non era un ingegnere. Non era un geometra. Ma il suo disegno convinceva, si prestava alla natura del luogo. Così fu scelto quello. E venne chiamato lui stesso a dirigere i lavori.

Il medico di padre Pio

Ma c’è un’altra persona che porterà sulle proprie spalle molti pesi. È un medico condotto di Borgo San Lorenzo (Firenze), Guglielmo Sanguinetti. Fortemente innamorato di Emilia Spilman (sua compagna di scuola al liceo classico Tasso di Roma) la sposa, subito dopo la fine della guerra. Rinuncia poi alla vita universitaria che gli aveva prospettato il prof. Cesare Frugoni. Il grande maestro s’era accorto delle sue doti non comuni nell’ospedale da campo dove curavano i feriti, e lo aveva invitato a valorizzarle presso la sua scuola. Ma Guglielmo vuole subito metter su famiglia per poi esercitare la professione nel Mugello. Nell’ottobre del 1946 il dott. Sanguinetti arriva a San Giovanni Rotondo. Vuole fermarsi otto giorni. Ne sarà trattenuto per quaranta. Assiste così anche alla morte del babbo di padre Pio, “Orazio”. A un certo punto il frate gli dice: «È tempo. Lascia il Mugello e vieni sul Gargano». Così, dopo 27 anni spesi a favore delle genti di Toscana, questo medico si trasferisce a San Giovanni Rotondo. Definitivamente.

Inaugurazione della Casa

Accanto a queste figure c’è un movimento di persone che attivano una forza propulsiva inarrestabile arrivando anche a coinvolgere lo stesso governo americano. Penso, ad esempio, al dottor Mario Sanvico, un industriale di Perugia ma anche a Nora Figna (di Firenze), laureata in ingegneria al Politecnico di Torino, compagna di corso di Pier Giorgio Frassati (beatificato da Giovanni Paolo II). È grazie all’azione di queste persone che si arriverà il 5 maggio del 1956 all’inaugurazione della “Casa Sollievo della Sofferenza”. A questa era stato affiancato un simposio di cardiochirurgia, presieduto dal prof. Pietro Valdoni. Il medico di padre Pio, al quale tanto si deve sul piano umano e scientifico non era però tra i presenti. Era morto improvvisamente. Il 6 settembre del 1954. Per il santo frate fu uno schianto. Forse, ad affrettare la morte del suo primo e più valido collaboratore erano state le molte amarezze.

Il cammino prosegue

La storia della “Casa” prosegue fino ai nostri giorni arrivando a 70.000 ricoveri l’anno, con attrezzature modernissime e collegamenti con i principali istituti di ricerca nel mondo. Nelle pagine della cronaca si trovano tante luci. E ore segnate dai limiti dell’umano. Angelo Lupi, autore del progetto “storico” della “Casa”, verrà esonerato dal suo incarico di direttore dei lavori per divergenze con il consiglio di amministrazione dell’opera. Nel 1957 viene richiamato (grazie anche all’intervento di padre Pio che lo stimava), ma pochi anni dopo lascerà San Giovanni Rotondo non riuscendo a sintonizzarsi con i nuovi metodi di management. Però, quando arriva anche per lui l’incontro con sorella morte, egli chiederà ai suoi di chiudere gli occhi nell’ospedale che aveva costruito con la benedizione di padre Pio. Il decesso avviene il 31 agosto del 1969. Mario Sanvico, intanto, era morto nel 1955. Con il migrare del tempo il frate “crocifisso” (è difficile per me dimenticare l’incontro avuto con lui nella povera cella) non perderà mai di vista l’opera che aveva sempre avuto tanto a cuore. Vi celebrerà Messa. Incontrerà i malati. Battezzerà un bambino. Benedirà nuovi reparti. Presiederà alcune riunioni.

Alcune sottolineature

All’età di 81 anni padre Pio lascia questa terra. È il 23 settembre del 1968. Mentre si incomincia a preparare il processo di beatificazione, il mondo della sanità percorre una strada di riflessione per non disperdere l’insegnamento ricevuto, Senza essere uno scrittore di grido, o un oratore celebre, il frate di Pietrelcina ha chiamato tutti coloro che operano nell’ambito della tutela della salute a vivere la propria professione come partecipazione diretta a un’esperienza vitale segnata dall’incontro armonico tra fede e ragione. Tra fede e cultura. Tra fede e diaconia della carità. In tal modo ha rigettato – con i fatti – sia le posizioni fideistiche, sia le affermazioni legate a un principio di auto-salvezza o a quello nichilista. È nel servizio ai fratelli, infatti, che la dimensione umana acquista la sua vera nobiltà perché si celebra la vita. E perché “questa” vita è dono del Signore. Il 20 gennaio del 2000, un bambino, Matteo Pio Colella, figlio di un medico della “Casa Sollievo della Sofferenza”, è colpito d’improvviso da meningite fulminante. Dopo una nottata di tentativi per salvarlo, i medici prendono atto del progressivo e inarrestabile deterioramento delle funzioni vitali.
La letteratura scientifica internazionale in questi casi documenta la mortalità quando cinque organi vengono compromessi. Nel piccolo Matteo sono ben nove gli organi collassati. Varie persone, allora, si raccolgono in preghiera. E “corrono”, con mente e cuore, da padre Pio. All’improvviso il bambino si sveglia dal coma. E dopo un po’ si mette a giocare con la sua playstation. Racconta poi che aveva “visto” il frate. E che questi lo aveva rassicurato. Nonostante i danni che ha subìto, il suo fisico non presenta strascichi e, quel che risulta incomprensibile, non ha nessuna lesione cerebrale. Che senso ha ricordare questo episodio dichiarato scientificamente inspiegabile dalla medicina?

L’evento-segno e l’orientamento “verso”

Il miracolo è un qualcosa che riguarda la Chiesa. Così come anche la proclamazione a santo di padre Pio. Ma il fatto che tutta la dinamica fin qui delineata coinvolge la sofferenza umana – e quindi anche il mondo sanitario – è una realtà che fa riflettere tutti. Senza escludere nessuno. Prima ancora che il Parlamento italiano approvasse la Carta dei Servizi, i principi-base sulla qualità, sull’umanizzazione, sul passaggio dal concetto di “assistenza” a quello di “prendersi cura”, sui diritti del malato, sulla riorganizzazione della rete ospedaliera, sulla centralità del territorio, sull’integrazione socio-sanitaria, ecc., un uomo, senza una lira in tasca e senza qualifiche professionali, coinvolge in un’avventura incredibile nobili e contadini, presidenti del consiglio dei ministri e illustri clinici, muratori e celebri cantanti... Si taglia una montagna, si ottengono finanziamenti, si realizza una struttura ospedaliera proprio in un luogo ove nessuno avrebbe scommesso un centesimo. Perché si è arrivati a tanto? Per la potenza politica di qualcuno? Per la fortuna di camminare su strade tutte in discesa? Non penso. Piuttosto perché il mondo ha intuito vagamente che non sarà la tecnica con tutte le sue risorse, né la scienza con tutte le sue promesse, a “salvare”, ma solo la santità. Che è come dire l’amore.  

                                                                                       Pier Luigi Guiducci


RIVISTA MARIA AUSILIATRICE 2004-8
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