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VALDOCCO
INCONTRO CON IL DOTT. MARIO
MELAZZINI:
E' TROPPO BELLO
VIVERE
Per respirare si aiuta
con un ventilatore, per mangiare ha un sondino nello stomaco.
Viaggia in carrozzina e dipende dagli altri. Ma questo non gli
impedisce, nella sua doppia veste di medico e paziente, di far
sentire con la voce che gli rimane la voglia di vivere anche
con una malattia che porta alla morte.
Quanto rumore
si è fatto attorno al dolore di Piergiorgio Welby, malato
di sclerosi laterale amiotrofica che chiedeva di morire perché
la vita, in quelle condizioni così dolorose, gli era diventata
ormai insopportabile.
Ma ci sono molti altri malati di SLA che gridano il coraggio
ed il diritto di vivere, anziché di morire.
Simbolo di questa lotta è Mario Melazzini, primario al
Day Hospital Oncologico S. Maugeri di Pavia, colpito quattro
anni fa da questa cara ragazza: così chiama
affettuosamente la sua SLA. Una malattia neurodegenerativa che
lo ha inchiodato ad una sedia a rotelle ed ha ridotto il suo
corpo ad un contenitore, togliendogli ogni possibilità
di compiere gesti volontari. Da medico, ora anche paziente, dice
che il problema reale da risolvere «è labbandono
delle famiglie e delle persone che soffrono».
Un uomo dolce, un belluomo, con una carriera tutta in ascesa.
Dopo aver scoperto il male che lo affliggeva ha compiuto un cammino
tortuoso e passando per il libro di Giobbe ha capito che la vita
è un dono e come tale vale la pena viverla sempre, ad
ogni costo.
«Vivere
è bello, in qualsiasi modo, anche in un corpo che non
sento più mio».
Labbiamo
intervistato a Verona, presso una casa famiglia della Comunità
Giovanni XXIII.
Sempre impegnato
in questa battaglia per la vita?
«Attorno
a questa malattia cè il più totale abbandono
e me ne sono accorto quando mi sono ammalato. Questo mi ha spinto
a farla conoscere. Non è una malattia solo dellindividuo
ma anche della famiglia. Il malato si scontra direttamente con
le problematiche che questa malattia neurodegenerativa provoca,
senza venire informato in maniera corretta, non tanto sul problema,
ma sulle soluzioni».
Quali sono?
«L80%
dei pazienti decede entro tre anni dal momento della diagnosi
perché non è sufficientemente supportato con strumenti
che facilitano la vita. Come laiutarsi nella respirazione
con la ventilazione, che io faccio con una maschera, e con una
alimentazione adeguata tramite un sondino che mi permette di
condurre una vita qualitativamente accettabile».
Prima di
ammalarsi che persona era?
«La mia
è stata una vita dura, adesso lo è di meno. Mi
sono posto degli obiettivi e li ho raggiunti dal punto di vista
familiare e professionale. Ho una famiglia bellissima. Sono diventato
primario oncologo a 39 anni. Ero proiettato in una tranquillità
sia professionale che personale stupenda anche se non ero mai
contento perché cercavo di raggiungere sempre qualcosa
di più».
Quali progetti
aveva?
«Dare
un po di serenità pratica a me, ai miei figli e
a mia moglie per goderci la nostra vita di coppia, dato che tante
cose ce le eravamo perse. Avevo un progetto per il mio lavoro:
creare un gruppo di oncologi clinici con una maggior attenzione
ai bisogni dei pazienti terminali. Poi improvvisamente, a 45
anni compiuti, entrò in me questa ragazza».
I primi
segnali della malattia?
«Strisciavo
il piede sinistro. Facevo molto sport. Andavo in bici e non riuscivo
a mettere il piede nello scarpino del pedale. Da qui decisi di
farmi degli esami dai quali non risultò nulla se non una
modestissima riduzione degli enzimi muscolari».
Quindi?
«Pensai
ad un semplice problema di schiena. Fino a quando il problema
si trasferì allaltra gamba. Per camminare dovevo
aiutarmi con il bastone. Decisi allora di fare tutti gli esami
di accertamento. E lì avvenne un brusco contatto reale
da paziente con il mondo medico. Dopo ore di attesa chi mi visitò
mi disse: Ah! Ma lei è medico... perché non
lha detto?. E perché avrei dovuto?.
Lavrei ricevuta prima. E poi con altrettanta
grazia mi disse: Fa sport?. Sì.
Bene, se lo scordi!».
Come si
è evoluta la malattia?
«Da una
stampella dovetti passare a due. Lei dovrà cominciare
a pensare di utilizzare la carrozzina, mi disse il riabilitatore.
Nel giro di un mese la situazione precipitò. Andai in
montagna con i miei figli e, senza farmi vedere da nessuno, verificai
quanto tempo impiegavo a fare la pista ciclabile a piedi e in
carrozzina. Dal lunedì, tornando in ospedale, cominciai
ad usare la carrozzina. Prima la consideravo una
sconfitta, poi una vittoria nei confronti della malattia».
Lessere
cosciente degli effetti degenarativi della malattia sul proprio
corpo, come le ha fatto vedere la vita?
«Fu bruttissimo
sapere la diagnosi. Con questa malattia non si può fare
nulla, pensavo. Allontanai mia moglie, tutti. Volevo accelerare
la malattia. Non accettavo laiuto di nessuno. Fino a quando
toccai il fondo. Mi hanno aiutato due carissimi amici: Ron, amico
fraterno, che con discrezione mi è sempre stato vicino,
ed il mio padre spirituale, Silvano Fausti, un gesuita. Volevo
stare lontano da tutti. Ho passato quattro mesi in montagna.
Portati la Bibbia mi disse il mio padre spirituale
. Se hai voglia leggiti il libro di Giobbe. La Bibbia
rimase sul comodino per un mese, poi decisi di aprirla. Giobbe
mi aiutò a capire lessenza dellesistere».
Qual è?
«Ho la
fortuna di avere questa malattia che ti porta via tutto e tu
sei prigioniero di un corpo. Un contenitore che è pieno
di nulla ma è ricchissimo di emozioni. È questo
il valore aggiunto di questa malattia. Ho la fortuna come malato
di provare e di affrontare determinate problematiche: perché
non mettersi a disposizione degli altri?».
NellAssociazione
Italiana Sclerosi Laterale Amiotrofica?
«Sì,
e da dieci mesi sono diventato presidente nazionale, nonostante
la mia malattia progredisca. Conoscendo le problematiche che
la malattia può dare, puoi andare avanti in maniera dignitosa».
Il caso
di Welby ha suscitato un bel vespaio. Lei hai denunciato che
chi è nelle sue condizioni e vuole vivere fa meno notizia
di chi invoca la morte...
«Credo
nel valore della vita, la amo in tutte le sue manifestazioni.
Mi sono reso conto di quanto sia importante, per una persona
fragile, il sentirsi considerata, il sentire che esiste anche
quando si trova a vivere in determinate situazioni. Gridare il
coraggio di vivere e di far vivere è una cosa forte».
Cè
invece molta disinformazione attorno a questo problema.
«In questo
periodo si parla tanto di eutanasia, di accanimento terapeutico,
suicidio assistito, autodeterminazione
e autonomia del paziente, cè una confusione mostruosa».
Cioè?
«Si sta
strumentalizzando il problema. Si vuole normare un evento per
arrivare alleutanasia. Il messaggio che è passato
è che i malati che si trovano in una condizione simile
a quella di Welby hanno una sofferenza tale che è incompatibile
con una dignità e qualità di vita accettabile».
La sofferenza,
il dolore si può evitare?
«Ci sono
tutti gli strumenti fisici per lenire la sofferenza fisica ma
cè anche la sofferenza psicologica che a volte fa
molto più male di quella fisica. Ci vuole un rapporto
personalizzato con il paziente, condividendolo con i familiari
proprio perché è una malattia della famiglia. Così
cè una presa in carico del paziente e in questo
modo non si parla più di accanimento terapeutico perché
è un percorso che si compie insieme».
Quali cambiamenti
le ha imposto la malattia?
«Dipendere
dagli altri, adattarmi a tutte le situazioni. Sono passato dallaltra
parte e questo mi ha insegnato a fare il medico. Mi ha fatto
capire i valori reali della vita, apprezzare le piccole cose.
Programmare ma non pianificare».
Cè
spazio per la felicità?
«Alla
sera sono molto stanco ma sono felice. Mi alzo felice. Con un
po di pensieri perché mi sento delle responsabilità
nei confronti dei miei compagni di malattia e anche dei miei
colleghi medici».
Con i figli
che rapporto ha?
«Loro
sono la mia benzina, tutti e tre in modo diverso. Da questa nostra
esperienza di malattia loro traggono un beneficio. Spero che
la sofferenza che sto vivendo in modo positivo possa essere per
loro una carica positiva. Sono maturati molto».
Che ruolo
ha sua moglie Daniela?
«Lei
mi dà forza e sicurezza. La malattia può sfasciare
le migliori famiglie. Ci ha tentato ma Daniela è stata
bravissima. Se fosse stato per la mia arroganza... Non si può
affrontare sofferenza e malattia senza amore».
Vale sempre
la pena di vivere?
«Sì!
Perché la vita è un dono e come tale va accettata,
va vissuta dallinizio alla fine. Vissuta con amore e positività
perché bisogna godere di ogni istante che si vive e ringraziarlo,
per chi crede nel buon Dio. Chi non crede può ringraziare
chi vuole, per il fatto di essere stati messi al mondo».
Lei è
credente?
«Moltissimo».
La fede
lha aiutata ad accettare la malattia?
«Soprattutto
ad accettare la morte».
Nicoletta Pasqualini
Luomo delle stelle
Mario Melazzini
è nato a Pavia 48 anni fa. È sposato con Daniela,
40 anni, conosciuta tra i banchi del liceo. Tre figli: Federica,
22 anni, studentessa di medicina, Michele, 18 anni, studente
al Liceo scientifico e Nicolò, 12 anni che frequenta la
scuola media.
Si laurea a 24 anni e a 39 è
già primario del day-hospital oncologico dellIstituto
Scientifico Salvatore Maugeri di Pavia.
A 44
compaiono i primi sintomi della malattia. La diagnosi precisa
arriva nel 2003: sclerosi laterale amiotrofica. Una malattia
tanto difficile da riconoscere quanto da accettare.
A
lui Ron dedica una canzone al festival di Sanremo: Luomo delle stelle.
Lamicizia con
Ron
Si sono conosciuti
più di ventanni fa in montagna a sciare. Cerano
20 gradi sotto zero. Ron faceva la fila allo skilift senza giacca
a vento e berretta. Il dottor Mario non resistette dal dirgli:
«Guardi che si prende un bel mal di gola». «Non
si preoccupi, sono abituato» fu la risposta. La sera lo
chiamano, come medico, dallalbergo dove Ron alloggiava:
aveva un ascesso tonsillare mostruoso. «Da lì abbiamo
cominciato a condividere tante battaglie racconta Melazzini
. È come un fratello e si è messo a disposizione
per far conoscere la SLA. Ha realizzato un CD dal titolo Ma
quando dici amore i cui proventi sono andati tutti allAisla.
Lalbum riunisce grandi artisti italiani che non hanno voluto
nessun compenso. Contiene anche una chiacchierata a tre fra me,
Ron e Renato Zero».
IMMAGINI:
1 Mario Melazzini, medico, affetto da una grave
malattia conosciuta come sclerosi laterale amiotrofica è
uno strenuo difensore della vita quale dono inalienabile di Dio.
2 Le cause della sclerosi
laterale amiotrofica sono ancora sconosciute. Si sa che è
una malattia degenerativa che uccide le cellule nervose della
corteccia motoria cerebrale, portando ad una paralisi progressiva.
3 La fede e la preghiera,
la vicinanza dei suoi cari, laffetto degli amici aiutano
il dott. Melazzini a vivere ogni giorno il suo donarsi agli altri.
RIVISTA MARIA AUSILIATRICE 2007 - 8
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