CHIAMATI A CRESCERE

Molti pensano che i Comandamenti di Dio si riducano a dieci. Osservati i quali, talvolta un po’ malvolentieri, ci si possa arrogare il diritto di presentarsi davanti al Trono dell’Altissimo con la ricevuta per la riscossione di un credito fiscale.

Una visione un po’ triste e miope, ed in fondo assai infelice, della vita cristiana. Non solo perché ci si perde il più: la relazione amorosa e filiale con Dio, ma anche perché si smarrisce la gioia dell’esistere che è nascosta in un altro comandamento che viene molto prima delle famose Dieci Parole donate al Sinai.
Come, dirà qualcuno, non bastano i Comandamenti che già abbiamo, perché andare a inventarne altri? In realtà non si inventa proprio nulla. Basta solo leggere quanto è già scritto nella Bibbia.

Quanto poi alla suddivisione dei Comandamenti nel numero di dieci, le opinioni nel corso della Storia della Chiesa non sono mai state uniformi. Oggi sappiamo che è solo una comoda ripartizione di un Codice della Vita consegnato al popolo ebraico e che occupa diversi capitoli dei primi cinque libri della Sacra Scrittura.
Ma tutto questo è solo per specificare nel concreto – secondo le consuetudini storiche e la capacità di intendere degli ascoltatori del tempo – un ordine primordiale che sta all’inizio della Rivelazione e che purtroppo, sovente, sfugge ad una lettura veloce delle prime pagine che seguono la narrazione della Creazione.

Nel primo capitolo della Genesi al versetto 28, leggiamo: «Dio li benedisse e disse loro: Siate fecondi e moltiplicatevi». La benedizione di Dio non è unicamente nell’ordine spirituale, quasi una sua benevolenza astratta. È una parola che diventa efficace e viva, talmente reale che presenzia ad ogni affacciarsi della vita.

Questa benedizione è un ordine verso la fecondità. Una fecondità che non è esclusivamente fertilità (nella Bibbia, molte persone chiamate a realizzare il disegno di Dio sono inizialmente impoverite sotto questo aspetto, tanto da essere addirittura sterili), investe, invece, tutta la persona. È una fecondità globale dell’essere vivente che coinvolge la sua capacità creativa, relazionale, professionale, spirituale.

È un comando alla crescita totale della persona. E questo comando precede l’invito al moltiplicare la specie. Quasi come se il divenire padre e madre richiedesse una precedente crescita umana da cui non è possibile prescindere. Una fecondità dell’esistenza che sprigiona e celebra la bellezza dell’esistere in tutte le sue forme. Un essere specchio di quell’abbondanza che si riversa nella creazione e che dalla creazione tracima come torrente in piena verso l’uomo coinvolgendolo nell’armonia della vita.

Quando Gesù riafferma la visione originaria del matrimonio (Matteo 19,3-9), pone nuovamente l’uomo e la donna sullo stesso piano, con eguali diritti e doveri, suggerendo così non solo l’unicità della situazione nuova in cui vengono a trovarsi marito e moglie, ma richiama tutta la narrazione della creazione in cui l’uomo e la donna ricevono, entrambi, da Dio l’ordine alla fecondità.

Per l’uomo e la donna vi può essere piena e totale realizzazione solo nella crescita reciproca. Una crescita che non può prescindere da una precedente maturazione e che non si può chiudere ad un ulteriore sviluppo spirituale che deve necessariamente seguire al momento del loro incontro.
Pertanto, la mentalità attuale del “faccio come mi pare” è in realtà un veleno e dei più letali, in quanto fissa l’individuo nel capriccio e non lo spinge a superare i suoi limiti.

Anzi, lo convince che tutto ciò che fa, pensa, prova, esperimenta rientri a pieno titolo nel cartello della sua realizzazione. Vi può essere crescita e fecondità psicologica solo quando si prende atto del proprio limite, delle proprie insufficienze e ci si apre all’altro riconoscendo il bisogno di superare la barriera del proprio egoismo. In questo senso il matrimonio è un rimedio al male insito nella natura umana, poiché in due, spinti dall’attrazione che si fa affetto, ci si incammina verso la perfezione dell’altro, la sua piena fecondità e la sua santità.

Minare lo statuto della crescita a cui l’uomo e la donna sono chiamati conduce pericolosamente a sancire l’infantilismo affettivo che rinchiude la persona nel recinto dell’emotività e non la sospinge verso gli orizzonti dell’amore a cui, per natura, è chiamata.

Compito dello Stato non è quello di regolare il presente secondo gli umori della piazza. È suo preciso dovere garantire la solidità della sua stessa base, che è poi la famiglia, offredole l’opportunità per crescere verso quella pienezza di umanità, in cui ciascuno risponde alla chiamata della vita e non viene, invece, sospinto verso il nanismo psicologico prima e spirituale poi.
                                                                                   
 Giuseppe Pelizza SDB


IMMAGINI: © Forme Archiv.
1  
L’Europa è attraversata da una forte corrente di sfiducia verso la vita che ne mina la sopravvivenza e rende instabili le previsioni sul suo futuro.
 L’unità familiare è una ricchezza che va difesa e sostenuta con scelte lungimiranti che mirino a consolidarne la serenità e lo sviluppo.
RIVISTA MARIA AUSILIATRICE  2006 - 4
VISITA Nr.