AMORE DI DIO
E DEL PROSSIMO

Testimonianze dei Padri della Chiesa

Chi parla della carità, parla di Dio stesso. È opera difficile e rischiosa, per chi non valuta i termini con somma cautela. Parlare della carità è appena possibile agli angeli e, anche per essi, è più o meno difficile, a seconda del grado di illuminazione ricevuta.

Dio è carità, sta scritto: ma chi volesse con le parole esporre la profondità di questa rivelazione, assomiglierebbe a un cieco che, stando su una nave, volesse misurare sino a che limite si estende la sabbia del mare” (La scala del Paradiso 30,197).

Con queste parole San Giovanni Climaco († 649) riporta un pensiero largamente condiviso dalla tradizione patristica, in Oriente come in Occidente. È ben nota l’affermazione di Sant’Agostino († 430): Immo vero vides Trinitatem, si caritatem vides (La Trinità 8,8). Contemplare la carità significa contemplare il mistero insondabile di Dio.

È per questo – per umiltà, o forse per il timore di confondere il grande mistero cristiano con i concetti profani – che i Padri più antichi, prima di Nicea, parlano relativamente poco dell’amore di Dio. Lo fanno preferibilmente in contesti esegetici (si vedano i più importanti commenti patristici a Luca 10,25-38; Matteo 25,31-46; 1 Corinzi 13), e soprattutto in riferimento alla metafora sponsale del Cantico dei Cantici.

D’altra parte nella tradizione patristica, saldamente radicata nel Vangelo, il nesso tra amore di Dio e amore del prossimo è costantemente sottolineato, e non è mai messo in discussione. La connessione viene chiarita con diverse argomentazioni e da punti di vista differenti. Talvolta la carità verso il prossimo è considerata come condizione prima del nostro amore per Dio, altre volte – all’opposto – come sua diretta conseguenza.

I Padri greci:
da Basilio al Crisostomo

In ogni caso, sono soprattutto i cosiddetti Padri cappadoci (Basilio di Cesarea, Gregorio di Nissa, Gregorio di Nazianzo) e Giovanni Crisostomo († 407) che – elaborando alcune intuizioni di Origene alessandrino († 254) – giungono, con i loro interventi teorici e pratici, a fondare una sorta di ordo caritatis, cioè a promuovere un’organica sintesi teologico-pastorale tra l’amore di Dio e l’amore del prossimo (specialmente del prossimo povero e bisognoso).

Basilio di Cesarea, il primo dei Cappadoci († 379), teorizza l’identità della fede cristiana poggiandola direttamente sul vincolo della carità: “Dio”, giunge a dire nel suo Commento ai Salmi, “non è veramente Dio, se non per coloro che sono uniti a lui nella carità” (29,3); e l’Enarratio pseudobasiliana in Esaiam estende l’amore di Dio fino all’amore dei nemici: «Bisogna amare Dio con tutta la forza che abbiamo, per amare (agapân) chi ci è vicino [cioè “il prossimo” in generale] e anche i nemici, affinché siamo perfetti, imitando la bontà di Dio, che fa sorgere il sole sui giusti e sugli ingiusti» (1,15,9).

Da parte sua San Giovanni Crisostomo nella celebre Omelia 50 sul Vangelo di Matteo, pronunciata ad Antiochia intorno al 390, sviluppa nel modo più chiaro le conseguenze morali del discorso teologico sulla carità:

“Che nessun Giuda... si accosti alla mensa!”, prorompe l’omileta durante la liturgia eucaristica. Perché non è certo un criterio sufficiente di dignità quello di presentarsi alla mensa con vasi d’oro: “Non era d’argento quella mensa, né d’oro il calice da cui Cristo diede il suo sangue ai discepoli... Vuoi onorare il corpo di Cristo? Non permettere che egli sia nudo: e non onorarlo qui in chiesa con vesti di seta, per poi tollerare, fuori di qui, che egli stesso muoia per il freddo e la nudità. Colui che ha detto: «Questo è il mio corpo», e ha confermato il fatto con la sua parola, ha detto anche: «Mi avete visto affamato, e non mi avete nutrito»;

e: «Quello che non avete fatto a uno di questi piccoli, non l’avete fatto a me»... Impariamo dunque a essere sapienti, e ad onorare Cristo come egli vuole... spendendo le ricchezze per i poveri. Dio non ha bisogno di vasi d’oro, ma di anime d’oro... Che vantaggio c’è, se la sua mensa è piena di calici d’oro ed egli stesso muore di fame? Prima sazia la sua fame, e allora con il superfluo ornerai la sua mensa! Fai un calice d’oro e non dai un bicchiere d’acqua fresca? E che vantaggio c’è? Prepari per la mensa paramenti ricamati in oro e non gli offri nemmeno il rivestimento necessario? E che profitto ne deriva?”.

Ecco chi è Giuda, secondo il Crisostomo. È colui che si accosta al Corpo e al Sangue del Signore, ma in realtà non ne condivide il progetto di vita. Giovanni, sempre attento ai risvolti concreti e alla rilevanza sociale dell’identità di fede, non perde l’occasione per sottolinearlo con forza.
Egli approda così a uno dei temi caratteristici della sua predicazione, quello dell’elemosina. Il tema dell’elemosina, infatti, scaturisce come un corollario: il Corpo di Cristo condiviso richiama i fedeli alla solidarietà fraterna. Questo spiega perché i sermoni crisostomiani sui poveri si svolgono alla presenza dell’Eucaristia.

In effetti, essa crea un nuovo linguaggio di solidarietà per una duplice ragione, che il Crisostomo non manca di sottolineare: anzitutto la partecipazione alla stessa mensa rafforza i vincoli della comunione; in secondo luogo nell’Eucaristia si svela la synkatabasis di Dio, ossia quella “condiscendenza” (abbassamento), che è la rivelazione suprema dell’agape.

Riecheggiando il Crisostomo, l’Enciclica di Benedetto XVI afferma che l’Eucaristia

“attira nell’atto oblativo di Gesù... La ‘mistica’ del Sacramento, che si fonda nell’abbassamento di Dio verso di noi... conduce ben più in alto di quanto qualsiasi mistico innalzamento dell’uomo potrebbe realizzare” (n. 13).

Siamo giunti così alla conclusione dell’Omelia crisostomiana:

“L’elemosina”, vi si legge, “purifica dal peccato..., è più grande del sacrificio..., apre i cieli. Essa è più necessaria della verginità; così infatti quelle [le vergini stolte] furono scacciate dalla sala delle nozze; mentre le altre [le vergini prudenti] vi furono ammesse. Consapevoli di tutto ciò, seminiamo generosamente per mietere con maggiore abbondanza e conseguire i beni futuri” (Omelia sul Vangelo di Matteo 50,3).

I Padri latini e l’antica comunità cristiana di Roma

L’Occidente latino raccoglie dall’Oriente questa sintesi organica della carità.
Ma i Padri latini, pur sviluppando di meno l’aspetto filosofico e mistico della connessione tra amore di Dio e amore del prossimo, fin dagli inizi (Tertulliano, Cipriano) – e anche in maniera indipendente dai Padri greci –, ne valorizzano in massimo grado le conseguenze morali, soprattutto sui versanti della solidarietà e dell’elemosina.

La parola più usata da loro per indicare questo comportamento è caritas (termine che in tale accezione sopravvive ancor oggi nel linguaggio popolare, tanto che “fare la carità” significa comunemente “fare l’elemosina”).

A questo riguardo, l’Enciclica dedica un’ampia digressione all’ambiente romano del secondo secolo:

“Il martire Giustino († ca. 155) descrive, nel contesto della celebrazione domenicale dei cristiani, anche la loro attività caritativa, collegata con l’Eucaristia come tale... Tertulliano († 220) racconta come la premura dei cristiani verso ogni genere di bisognosi suscitasse la meraviglia dei pagani.

E quando Ignazio di Antiochia († ca. 117) qualifica la Chiesa di Roma come colei «che presiede nella carità (agape)», si può ritenere che egli, con questa definizione, intendesse esprimerne in qualche modo anche la concreta attività caritativa” (n. 22).

L’excursus storico prosegue nel paragrafo successivo dell’Enciclica, dove il Papa si riferisce alle primitive istituzioni relative al servizio della carità nella Chiesa. Si tratta in particolare dell’istituto della diaconia, che affonda le sue radici – ancora una volta – in Oriente, nelle origini del monachesimo, ma che proliferò in Occidente (soprattutto a Roma) a partire dal settimo e dall’ottavo secolo.

“Ma naturalmente già prima, e fin dagli inizi”, precisa il Papa, “l’attività assistenziale per i poveri e i sofferenti, secondo i principi della vita cristiana esposti negli Atti degli Apostoli, era parte essenziale della Chiesa di Roma. Questo compito trova una sua vivace espressione nella figura del diacono Lorenzo († 258).

La descrizione drammatica del suo martirio era già nota a Sant’Ambrogio († 397) e ci mostra, nel suo nucleo, sicuramente l’autentica figura del Santo. A lui, quale responsabile della cura dei poveri di Roma, era stato concesso qualche tempo, dopo la cattura dei suoi confratelli e del Papa, per raccogliere i tesori della Chiesa e consegnarli alle autorità civili. Lorenzo distribuì il denaro disponibile ai poveri, e li presentò poi alle autorità come il vero tesoro della Chiesa” (n. 23).

L’allusione dell’Enciclica a Sant’Ambrogio (precisamente al De officiis [ministrorum] 2,28, 140) suggerisce almeno un cenno a quel formidabile testimone della carità, che fu il vescovo di Milano. Tornano alla mente alcuni suoi gesti profetici (in verità criticati da alcuni, fin dai tempi dello stesso Ambrogio), come quello di fondere i vasi sacri per il riscatto dei prigionieri; e rivediamo lo sguardo ammirato del giovane Agostino, che contemplava il suo “modello” – appunto il vescovo Ambrogio – perennemente assediato da catervae di poveri, per i quali generosamente si prodigava (Confessioni 6,3).

Ancora in riferimento all’Occidente e all’esercizio pratico della carità, il Papa cita la Vita di San Martino, scritta da Sulpicio Severo verso il 397, pochi mesi prima della morte del Santo. Martino di Tours, prima soldato, poi monaco e vescovo, mostra – quasi come un’icona – il valore insostituibile della testimonianza individuale della carità.

“Alle porte di Amiens, Martino fa a metà del suo mantello con un povero. Gesù stesso, nella notte, gli appare in sogno rivestito di quel mantello, a confermare la validità perenne della parola evangelica: «Ero nudo, e mi avete vestito... Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (Mt 25,36.40)” (n. 40).

Il monachesimo delle origini

Ma in tutto il movimento monastico, fin dai suoi primi inizi con Antonio abate del deserto († 356), l’amore di Dio comporta un ingente servizio della carità verso il prossimo.
La contemplatio, che è il gradino più alto dell’antica lectio monastica, rimane sempre in intimo rapporto con l’operatio, cioè con l’esercizio pratico della carità: nel confronto “faccia a faccia” con quel Dio, che è tutto Carità, il monaco avverte l’esigenza improrogabile di trasformare in amore e in servizio tutta la sua vita. Si spiegano così le grandi strutture monastiche di accoglienza, di ricovero e di cura, e le ingenti iniziative di promozione umana e di formazione cristiana destinate anzitutto ai poveri.

Come è noto, la predicazione e l’attività ascetica e caritativa di quel grande monaco e vescovo, che fu Basilio di Cesarea, si concretizzarono nella costruzione della Basiliade, città ospedaliera di ricovero e di cura dei poveri e dei malati, che doveva diventare il centro dell’attuale Cesarea. Da Sebaste, dove era vescovo, Eustazio († ca. 380) gli mandò un gruppo di discepoli, per organizzare le cose sul modello di quanto già si faceva nella sua città.

Una sola carità

In definitiva, il rapporto inscindibile tra amore di Dio e amore del prossimo è il “filo rosso”, lungo il quale si snoda l’itinerario della santità tracciato dalle testimonianze dei nostri Padri nelle Chiese di Oriente e di Occidente.

È questa la “storia della carità”. In essa – come scriveva un altro santo monaco, Massimo il Confessore († 662) – la carità va considerata “senza dividerla tra carità verso Dio e carità verso il prossimo”. Infatti, “la carità è unica, tutta intera; è dovuta a Dio, ma unisce gli uomini gli uni agli altri.

L’azione della perfetta carità verso Dio, e la sua evidente dimostrazione, risiedono in una sincera disposizione di volontaria benevolenza nei confronti del prossimo, perché, dice il divino apostolo Giovanni, «colui che non ama il fratello che vede, non può amare Dio che non vede»” (Epistola II sulla carità a Giovanni cubiculario).
                                                                       
 Enrico dal Covolo SDB


IMMAGINI:
1  
Nella sua prima enciclica, il Papa pone la carità di Dio al centro del messaggio cristiano, quale annuncio essenziale per il mondo di oggi che ha perso il senso e la bellezza dell’amore.
 Giovanni Crisostomo (XV sec.), Museo di Archangel’sk. / Giovanni Crisostomo in una delle sue splendide Omelie, pone l’amore verso al prossimo la prova dell’autenticità della fede.
3  Visione di San Romualdo, di Andrea Sacchi (1631), Pinacoteca Vaticana.
4  Sant’Agostino medita sulla Trinità, di Benozzo Gozzoli, (1464) San Gimignano.
5  Dalla Croce scaturisce ogni amore.


RIVISTA MARIA AUSILIATRICE  2006 - 5
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