FEDE E MUSICA:
IL TEATRO RELIGIOSO NEL MEDIOEVO

Nelle puntate precedenti, prima della parentesi mozartiana, si era parlato della genesi dell’opera lirica, nata come tale al primo inizio del XVII secolo, ma già vivente in embrione nei drammi liturgici delle celebrazioni monastiche. Si era evidenziato, quindi, come l’unione tra canto e suono strumentale trovi la sua radice precisamente nella religione cristiana. Da essa sorge la cultura, in ogni sua espressione: architettura, scultura, poesia, musica, pittura hanno un debito immenso verso il cristianesimo.

Fin dai primi tempi del suo avvento, il cristianesimo ha ispirato il desiderio di mettere per iscritto o in altra forma tutte quelle sensazioni provate dall’anima che si accostava al suo Dio. Lo stesso San Paolo non è forse un geniale scrittore, oltre che uno straordinario comunicatore?

San Luca, dotato di una preparazione notevole, non è forse uno storico, oltre che un elegante letterato? Lo stesso enigmatico libro dell’Apocalisse non presenta forse immagini che anticipano le allegorie e i simbolismi più potenti, oltre che, almeno in qualche modo, le più attente diagnosi psicologiche? E ancor prima, nell’Antico Testamento, il libro di Giobbe non è forse, con la sua torrenziale eloquenza, uno dei capolavori della letteratura mondiale?

Un Medioevo di luce

Il cristianesimo trova poi la sua espressione artistica più valida ed efficace nel tanto deprecato Medioevo. Quando si dice Medioevo il pensiero èvoca all’istante, almeno comunemente, una situazione umana avvolta dalle tenebre, dall’ignoranza e dalla violenza. Come se oggi queste componenti antropologiche fossero scomparse. Il razionalismo e il positivismo dei secoli appresso hanno i loro meriti che nessuno può porre in discussione. Ma le basi del sapere, sacro e profano, non sono forse state fondate dai filosofi, dai teologi, dagli architetti delle cattedrali (di pietra e di poesia) del Medioevo?

Due brevi esempi, comunissimi: un Dante, una cattedrale di Firenze, di Orvieto, una cappella degli Scrovegni e affreschi di chiarezza e di luminosità quasi palpabile non sono forse prodotti degli “anni bui” del Medioevo? E non è forse il cristianesimo che in tutta Europa, cioè nel mondo allora conosciuto, ha ispirato tali documenti immortali di cultura? A questo punto, alla tentazione di aggiungere immediatamente la qualifica “occidentale”, come limitazione categorica, cedono subito quanti ritengono un Nino Bixio o un qualunque Dan Brown delle illuminanti e illuminate persone, a differenza, ad esempio, di un qualunque Tommaso de Torquemada, sadico, retrivo e perverso. Da qui, ovviamente, si può tirare l’incontestabile somma che il Medioevo è tenebra e il post-moderno (browniano) è luce.

Gran merito del tempo è “placare le liti, smascherare l’inganno e rivelare la verità” (Shakespeare, che, grossomodo, può essere sbrigativamente etichettato come medioevale). Il tempo farà emergere gli inganni e la disonestà che, da sempre e da menti ben più attrezzate, tentano di “uccidere quel Dio che chiamò Abramo, che, parlando a Mosè sul Sinai, stabilì i criteri orientativi dell’umanità che restano validi in eterno” (Benedetto XVI, discorso ad Auschwitz, 28-5-2006). E si vedrà allora come il cristianesimo, più di ogni altra fede religiosa, sia la sorgente della cultura, della civiltà, della pace. Che purtroppo, in mani non oneste, il cristianesimo sia stato usato per fini loschi e in definitiva tornacontisti, nessuno si sogna di negarlo; ma che abbia donato all’umanità un tesoro immenso di cultura e di bontà, di generosità e di progresso, è un dato di fatto che l’onestà storica non può non riconoscere.

L’uso della lingua del popolo

Il dramma liturgico ebbe vita fino a che i decreti del Concilio di Trento (conclusosi nel 1563) non lo spazzarono via definitivamente dalle funzioni ecclesiastiche in compagnia di “tropi” (dal greco tròpos, da trépein, “rivolgere, usare in altro modo”), cioè di interpolazioni o aggiunte letterarie e musicali introdotte nelle parti della funzione liturgica, e di sequenze, considerati troppo fantasiosi o perfino offensivi della primitiva severità del culto romano. Comunque il dramma liturgico aveva già perso interesse per lo svilupparsi al suo fianco, dalla fine del XII secolo in poi, di altre forme drammatiche religiose, sorte dal suo stesso seno e prosperanti in tutta Europa in diverse varietà, con le denominazioni comuni di miracoli, misteri, passioni, moralità (di questo genere ampiamente parla V. Hugo nel romanzo Notre Dame de Paris), sacre rappresentazioni, tutte in lingua volgare.

Se si considera che a cominciare dallo Sponsus (testo monastico celebrante Cristo sposo della fine dell’XI secolo), alla Passione composta dai monaci cassinesi, ai drammi di Ilario, discepolo di Abelardo (XII secolo), Suscitatio Lazari e Iconia Sancti Nicolai, all’originale e commovente Ludus Paschalis del monastero femminile di Origny-Sainte-Benoite, il bilinguismo era fatto assai comune nel dramma ecclesiastico, si comprende facilmente come la lingua volgare, prima confinata a modesti brani del componimento drammatico, abbia potuto poco per volta farsi strada e, a partire dalla fine del XII secolo, invadere talvolta l’intera rappresentazione a danno del tradizionale e sontuoso latino.

Questo è anche uno dei grandi meriti di quell’anima universale che fu Francesco d’Assisi. Egli, intanto, nella predicazione parlava la lingua del popolo e non la dotta lingua latina, bensì la giovane lingua italiana, che, conquisterà presto il suo posto come lingua letteraria. Dalla predicazione di Francesco, inoltre, scaturì una nuova concezione della vita di Cristo, una concezione più umana, più vicina al povero e al lebbroso, cosa che produsse un effetto immenso, non solo per la religione, ma anche per la letteratura e per l’arte. Se il mondo deve moltissimo alla Regola benedettina, che ha promosso la civiltà, ha custodito e alimentato la cultura, ha bonificato i terreni, non meno deve all’attività pubblica e alla vita itinerante di Francesco. Queste sono assolutamente all’opposto della vita monacale, staccata dal mondo e chiusa in se stessa. In essa l’oggetto principale è la preghiera, di norma molto solenne, consacrata alla salvezza dell’anima dei monaci stessi; per Francesco l’oggetto principale è la predicazione, l’impiego delle proprie esperienze interiori a vantaggio degli altri.

E il suo canto all’Altissimo, onnipotente e bon Signore, oltre ad essere il primo documento della letteratura italiana, può probabilmente considerarsi come il canto religioso in lingua volgare più bello e penetrante di ogni epoca. Non a caso oggi vi sono maestri che su quel testo si basano per eccellenti opere teatrali.

Un teatro popolare

Con il latino uscirono dal teatro religioso sia gli atteggiamenti di troppo scoperta reminiscenza liturgica, sia le raffinate elaborazioni poetico-retoriche dei drammi versificati, mentre si facevano avanti in loro luogo espressioni più immediate e realistiche, spesse volte persino comiche e lascive. La stessa ragione d’essere degli spettacoli cambiava, non trattandosi più di funzioni drammatiche paraliturgiche di iniziativa ecclesiastica, ma di recite pubbliche generalmente organizzate da confraternite laiche, sia pure con il benestare e l’assistenza delle autorità religiose e civili; teatro delle recite, di solito, la piazza principale della città.

Questo maggior realismo del teatro, sempre di tono religioso, nasceva nell’atmosfera di benessere commerciale e artigianale che allietava la vita cittadina dell’età gotica, e lo spinse a fare a meno del tutto, e abbastanza velocemente, del latino. Il teatro divenne anche un fatto commerciale: si riscontra negli annali il caso di un certo musicista Arnoul Gréban, maestro di cappella a Notre Dame, il quale nel 1452 cedette una copia del suo Mystère de Passion, completo di musiche di scena, al teatro di Abbeville dietro compenso di 10 scudi d’oro. Che il dramma religioso divenisse oggetto di commercio, non fu sentito come fatto disdicevole, trattandosi in fondo di avvenimento mondano, che traeva pretesto dalla festa religiosa per creare un piacevole trattenimento per la cittadinanza borghese e popolana. In fondo, le feste patronali, tuttora in auge presso non pochi agglomerati urbani, sia pure di modesta entità, coniugano il sacro e il profano celebrando magari la Madonna insieme alla distribuzione di pasti e di bevande.

Eventi oggi ignoti nelle grandi città, ma conservanti una tonalità religiosa che non è tutta da guardare con sufficienza. Perfino un autore al di sopra di tutto come D’Annunzio inquadra alcune novelle nella festa patronale dei paesi dell’Abruzzo, calcando tuttavia, com’è da attendersi da lui, più sull’aspetto carnale e sulla materia terrena che sull’area spirituale. Si vedano le famose Novelle della Pescara.

Il canto del mistero

Per concludere, un accenno alle diverse tipologie delle composizioni, chiamate, come si è detto, miracoli, misteri, moralità. Un certo Jean Bodel scrisse per la piazza di Parigi un Jeu de Saint Nicolas (fine secolo XII), dove ancora l’elemento edificante ha la prevalenza: si tratta qui del miracle, rappresentazione appunto di fatti miracolosi aventi per protagonisti un santo o la Vergine. Nel secolo XIV la confraternita parigina degli orefici possedeva tutto un repertorio di Miracles de Notre Dame. Sul finire di quel secolo prevalse il termine “mistero”, recante un mutamento che faceva prevalere l’aspetto drammatico su quello fideistico.

Tuttavia i “misteri” si volgevano di preferenza verso grandiose rievocazioni del mistero della Redenzione (vedi le innumerevoli Passioni, fiorenti dalla Catalogna alla Polonia, dall’Inghilterra all’Italia, in genere non limitate strettamente alla morte di Gesù, ma inquadrate in uno svolgimento teologico più ampio) o sulla morte e Assunzione della Vergine (vedi il catalano Mistero di Elche, ancora rappresentato ogni anno in quella località il 15 agosto). Si ebbero anche i misteri riguardanti intere vite di santi, come pure molti aventi per argomento episodi storici prossimi o remoti, come il Mystére du siége d’Orléans o La vengeance et destruction de Jérusalem.

In questa ottica, certe opere dell’epoca moderna di carattere eminentemente religioso ben ricordano l’antenato “mistero”. Vedi ad esempio il Diluvio universale di Donizetti, composto con la definizione di “azione tragico-sacra” per il San Carlo di Napoli il 28 febbraio 1830; prima ancora il grandioso e stupendo Moïse et Pharaon di Gioachino Rossini, scritto per l’Académie Royale di Parigi il 26 marzo 1827, e tradotto nel 1829, ancora per Napoli, dal poeta Calisto Bassi, con il titolo Mosè.
Quel torrente inarrestabile di melodie che è Rossini, trova spunti di straordinaria bellezza per momenti di preghiera. La sortita di Mosè, ad esempio, che sprona gli ebrei a non perdersi d’animo:

Cessi omai dolor cotanto!
Dio, Mosè, con voi non sono?
Madianiti, il vostro pianto
è d’oltraggio all’uomo e al Ciel.

Alla fine dell’opera, si innalza all’Onnipotente una preghiera celestiale, che quasi si stenta a credere essere il prodotto della vulcanica mente rossiniana:

Dal tuo stellato soglio
Signor, ti volgi a noi.
Pietà dei figli tuoi,
del popolo tuo, pietà!
Se pronti al tuo volere
sono elementi e sfere,
Tu amico scampo addita
al dubbio, errante piè.
Nel nostro cor dolente
deh! scendi, o Dio clemente:
e farmaco soave
gli sia il tuo nome almen!

Rossini, musico della Restaurazione dell’inizio del XIX secolo, è riuscito a comporre una melodia di forza e dolcezza forse ineguagliabili. Certo, circa quarant’anni dopo verrà la Vergine degli angeli a competere – e forse vincere – in potenza spirituale. Non possiamo non chiederci: se la Restaurazione e il Risorgimento hanno saputo esprimere con tanta soavità il loro sentimento religioso, quanto più dovremmo saper fare noi, anche senza il sostegno della melodia, ma soltanto con la preghiera e la forza dei sacramenti?

                                                                          Franco Careglio


IMMAGINI:
Teatro greco di Siracusa / Nel mondo occidentale sono stati i greci ad aver fissato i criteri del teatro, tanto da farne una delle massime manifestazioni della loro cultura. Dal mondo greco, il teatro è passato in quello romano e dalla tradizione latina, tramite la Chiesa, è giunto fino a noi.
 Trento vide lo svolgersi del celebre Concilio dal 1542 fino al 1563. Da qui si ebbero sempre più chiari i confini fra la liturgia e l’espressione teatrale.
3-4 Il dramma popolare, tendeva a riproporre in scena le narrazioni eroiche della difesa della cristianità dal pericolo musulmano o scene di vita di corte legate alle narrazioni favolistiche popolari.
5  Nelle rappresentazioni teatrali non mancavano certamente quelle di ispirazione religiosa che si rifacevano ai giorni della Passione ma che sempre avevano come sfondo il mistero cristiano della Trinità.
 Uno dei primi teatri ad essere costruiti fu quello del Globe di William Shakespeare. Funzionò per 15 anni, dal 1599 fino al 1644, quando i Puritani lo rasero al suolo.
 

  RIVISTA MARIA AUSILIATRICE  2006 - 8
  
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