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 VITA DELLA CHIESA: 17A GIORNATA MONDIALE DEL MALATO
 EDUCARE ALLA SALUTE, EDUCARE ALLA VITA


L’educazione alla salute è un capitolo fondamentale dell’educazione alla vita perché i due beni, salute e vita, sono profondamente interconnessi, ancorché non sovrapponibili: si può, infatti, avere una vita buona con o senza salute, ma l’equilibrio salute non può prescindere dalle scelte di vita.
Educare alla salute e alla vita significa educare al rispetto della dignità della persona umana che è caratterizzata dalle sue capacità, dalle sue abilità, dalle sue fragilità e dalla sua apertura alla reciprocità e al dono.
La salute si può dire a vari livelli perché c’è un equilibrio organico, relazionale e spirituale, ma ogni aspetto è connesso con gli altri proprio perché è riferito alla persona umana che è sostanza relazionale, unità psico-fisica.
È importante mettere in evidenza l’identità sintetica dell’uomo, sottolineando che il finalismo inscritto nella natura umana, biologico e spirituale, non si oppone alla sua libertà e ne orienta le scelte. Il naturale desiderio di pienezza bio-psico-spirituale, definita come felicità, si struttura attraverso il bisogno di vari beni che trovano origine e fine nell’amore, nella ricerca dell’Assoluto.

Aperti a Dio

Molte dipendenze, da droghe o da particolari abitudini avvilenti, derivano da un mal orientato bisogno di assoluto, che viene saturato attraverso beni finiti, incapaci di valorizzare la dignità umana. Per questo è importante nell’educazione della persona, far crescere la consapevolezza della nostra nobile reciprocità, della nostra apertura all’eterno che costituisce l’unità di senso attraverso cui guardare tutti i nostri beni, anche la salute e la vita.

La responsabilità verso la salute e la vita è la responsabilità verso il progetto iscritto in noi, verso questo dono che noi siamo che ci richiama ad essere capaci di donare. Quando viene meno il senso di Dio, anche il senso dell’uomo viene minacciato e inquinato: «L’uomo non riesce più a percepirsi come “misteriosamente altro” rispetto alle diverse creature terrene; egli si considera come uno dei tanti esseri viventi, come un organismo che, tutt’al più, ha raggiunto uno stadio molto elevato di perfezione. Chiuso nel ristretto orizzonte della sua fisicità, si riduce in qualche modo a “una cosa” e non coglie più il carattere “trascendente” del suo “esistere come uomo”. Non considera più la vita come uno splendido dono di Dio, una realtà “sacra” affidata alla sua responsabilità e quindi alla sua amorevole custodia, alla sua “venerazione”. Essa diventa semplicemente “una cosa”, che egli rivendica come sua esclusiva proprietà, totalmente dominabile e manipolabile» .

Attualmente la medicina non è più soltanto finalizzata come in passato ad alleviare le sofferenze quanto piuttosto all’ottimizzazione. La promessa di ottimizzare indefinitamente la qualità e la durata della vita spinge la medicina a trasformare i desideri in bisogni e a proporsi dei traguardi, che hanno il sapore dell’utopia. Ma in questo modo si genera una sofferenza supplementare e totalmente indotta: la sofferenza di essere normali e dunque mortali, soggetti all’invecchiamento e alla decadenza.

In quest’ottica, la morte, da evento naturale e irrimediabile, si è trasformata in colpa da addebitarsi a qualcuno, un incidente che era comunque possibile evitare oppure in un effetto che si potrà scongiurare in futuro, contando su maggiori mezzi e su una più adeguata preparazione.

Si è tentato di correggere la definizione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità opponendo alla nozione di salute come stato, la salute come proces-so dinamico o come equilibrio e alla nozione di completo benessere, quella di capacità relativa. La salute è, pertanto, quella condizione di equilibrio dinamico, per cui un soggetto, inserito in un determinato contesto naturale e sociale, ha le capacità di realizzare i propri rapporti e progetti vitali in modo adeguato.

In questa prospettiva, una situazione che riduca la capacità di lavoro, come la maternità, non è una malattia, perché non annulla la capacità di un progetto vitale più ampio; mentre una condizione di denutrizione generalizzata, che rende incapaci di assolvere i propri compiti, non può mai essere tollerata come normale, per quanto diffusa possa essere in una determinata zona geografica.

Così è la salute

Bisogna distinguere tra salute perfetta e salute relativa: la prima è un semplice concetto-limite cui ci si può soltanto approssimare, la salute dell’uomo non equivale, pertanto, alla sua perfezione, anche se rappresenta una condizione favorevole per raggiungerla.

La salute, proprio perché non è perfetto benessere, ma equilibrio relativo, contempla anche in sé la disabilità e la precarietà. Si può sottolineare in senso positivo la progressiva accentuazione degli aspetti relazionali dei concetti di salute e disabilità che non sono più solo nozioni bio-mediche, ma bio-psico-sociali, ma è ancor più importante rilevare la prospettiva spirituale dell’incontro con la precarietà.

La coesistenza di salute e disabilità in ognuno di noi ci spinge a considerare il senso della nostra vita e la transitorietà del nostro “pellegrinaggio terreno” con la sua fragile precarietà e, insieme, con la sua promessa di compimento. Il desiderio e la ricerca di salute, quindi, si inseriscono in una ricerca più ampia.

Tocchiamo qui uno dei punti-chiave di tutta l’antropologia cristiana. «L’uomo non può “ritrovarsi pienamente se non attraverso un dono sincero di sé”. Buon Samaritano è l’uomo capace appunto di tale dono di sé».
                                                                                   
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 IMMAGINI:
L'affwetto e la presenza dei propri cari è una medicina senza ocntroindicazioni
2  L'uomo è soggetto all'invecchiamento. In questo prova il suo limite. I tentativi di sfuggire a quedsta realtà possono provocare solo ulteriori sofferenze.
3  
La saalute dell'uomo è un equilibro relativo che ha in sè il senso della precarietà

       RIVISTA MARIA AUSILIATRICE  2009-2  
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