Con unAve Maria
reci- tata da Don Bosco e da Bartolomeo Garelli nella chiesa
di San Francesco dAssisi a Torino, aveva inizio, l8
dicembre 1841, il primo oratorio salesiano. Non era una novità:
loratorio era stato inventato ­
tre secoli prima, da san Filippo Neri. Di nuovo e di suo, Don
Bosco metteva il modo di vivere loratorio e il modo di
essere prete.
Un prete che non aspettava
i parrocchiani nella tranquillità della chiesa o della
canonica, ma andava a cercarli di persona nelle squallide periferie
cittadine, ai margini della società. Andava a scovarli
nelle carceri. Erano tutti giovani. Tutti emarginati, con situazioni
familiari difficili. Loratorio, il suo oratorio, li avrebbe
accolti. Non sarebbe più stato soltanto un luogo di preghiera,
svago e cultura per ragazzi-bene.
Sarebbe diventato il rifugio
dei senzatetto, la famiglia per gli orfani, dilatandosi da realtà
parrocchiale a realtà cittadina, dilatando senza misura
il tempo dellevangelizzazione e dello svago. Luogo di incontro
e di amicizia, di formazione cristiana, avrebbe offerto, oltre
al divertimento gratuito, cultura, istruzione professionale,
inserimento nel mondo del lavoro con sicure e solide garanzie.
In un gelido
mattino di dicembre
Questo, lideale di Don
Bosco, in quel gelido mattino del dicembre 1841. Occorreranno
cinque anni prima che il sogno si realizzi e venga completato
in tutti i dettagli. Bartolomeo Garelli, però, non avrebbe
dovuto aspettare tanto. Lui era un povero orfano dorigine
astigiana, sedicenne. Quel mattino aveva tentato di partecipare
alla Messa in una bella chiesa del centro cittadino, ma il sacrestano
laveva cacciato a bastonate perché non sapeva pregare
e non sapeva servire Messa.
O forse, soltanto perché
era malvestito. Don Bosco lo aveva inseguito, convincendolo a
tornare in chiesa e a pregare con lui. Il prete e il ragazzo
avevano una cosa in comune: sapevano fischiare! Sulla base di
quella competenza nacque una bella amicizia. Bartolomeo
Garelli avrebbe portato a Don Bosco altri diseredati, poveri
e soli come lui.
Il tam-tam dei disperati attraverso
le periferie cittadine avrebbe presto informato tanti adolescenti,
(oggi li definiremmo a rischio), che in compagnia
di quel prete sempre allegro, oltre ad imparare il Catechismo,
si poteva giocare, scherzare e qualche volta anche mangiare.
Perché la fame era tanta. E Don Bosco, che laveva
provata, sapeva bene che non si può parlare di Dio a gente
che ha lo stomaco vuoto.
Una tettoia
che diventa casa
Non sarebbe stato facile per
lui trovare un posto dove sistemare in modo dignitoso i ragazzi,
togliendoli dalla strada. Anche perché i loro giochi erano
terribilmente rumorosi e distruttivi. Scacciati da un prato allaltro,
dal cortile di una chiesa ad un cimitero sconsacrato, mal tollerati
dalle autorità civili e malvisti anche negli ambienti
ecclesiastici, Don Bosco ed i suoi ragazzi approdarono finalmente
alla tettoia Pinardi, nel quartiere di Valdocco, che allepoca
non godeva certo di una bella fama. Ma sarebbero stati finalmente
a casa, senza più rischi di essere sfrattati.
La tettoia oggi trasformata
in cappella artisticamente decorata, in un cortile del grandioso
complesso della Basilica di Maria Ausiliatrice era una
conquista che aveva del miracoloso.
Inaugurato il mattino di Pasqua del 1846, loratorio non
più itinerante ma stabile, benché di modeste dimensioni,
diverrà residenza abituale di tanti giovani, scesi in
città dalle valli alpine e dalle campagne piemontesi,
sotto la spinta del bisogno.
Le loro braccia avrebbero avviato
la rivoluzione industriale con un lavoro duro, non regolato dalla
legge, senza garanzie per il futuro, senza forme di assistenza
di alcun genere. Se, sfiniti dalla fatica o dalla fame, cadevano
dalle impalcature o dallalto dei comignoli che si accingevano
a ripulire, nessuno piangeva la loro morte. Le famiglie, spesso,
non esistevano più o se esistevano, erano a loro volta
troppo oppresse dalla miseria per cercare i figli che si allontanavano.
Anzi, spesso il loro allontanamento risolveva il problema di
una bocca da sfamare.
Compagno
di giochi e primo sindacalista
Per tanti di quei ragazzi e
giovani, Don Bosco sarà per loro padre, fratello, amico
e compagno di giochi, e soprattutto guida spirituale ed educatore.
Non avrà paura di sporcarsi di calce o di fuliggine andando
a trovare nei cantieri, durante la settimana, i muratorini e
i piccoli spazzacamini. La sua presenza attirerà verso
i giovani apprendisti la simpatia dei datori di lavoro: lamicizia
di un prete era pur sempre una garanzia!
Un prete che sarebbe stato,
alloccorrenza, anche sindacalista. Certo il primo della
storia, forse lunico sindacalista vero, perché la
sua difesa dei diritti dei giovani lavoratori non poggiava su
volubili correnti politiche, ma sul concetto della santità
del lavoro e sul rispetto della persona.
La città di Torino non
era pronta ad accogliere quella massa di giovani disorientati
e sbandati. Presa dalla rapida corsa verso lindustrializzazione,
li avrebbe stritolati, sfruttandoli con assurdi orari lavorativi
e calpestandone i diritti. Ne avrebbe fatto martiri o delinquenti.
Don Bosco ne farà semplicemente dei buoni cristiani e
onesti cittadini. E prima di tutto, ne farà uomini consapevoli
della propria dignità.
Ai ragazzi Don Bosco insegnerà
la strada della vera felicità: vivere nella grazia di
Dio, amare il prossimo, impegnarsi seriamente nel lavoro, nello
studio, nel gioco, essere sempre allegri.
Ai confratelli sacerdoti trasmetterà quella che il poeta
dialettale piemontese Nino Costa considerava la sua virtù
segreta: «la gran virtù dij Sant e dij
poeta: / cola d brusè so cheur fin-a a la mort».1
1La gran virtù dei santi e dei poeti: quella di
ardere damore fino alla morte; Nino Costa, Don
Bosch, in Fruta madura, edizioni Viglongo,
Pinerolo, 1980.
Anna Maria Freniier
(ex Allieva FMA