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      CHIESA VIVA - 2012:
     DIAGNOSI PREIMPIANTO
   


La scienza permette oggi di sapere se un figlio nascerà sano. Ma a chi spetta di decidere il destino di un embrione malato? Dopo la recente sentenza CEDU, i rischi della nuova cultura della prevenzione estrema

Due genitori hanno il diritto di sapere se il proprio figlio nascerà sano, oppure no?
È la domanda che si sono posti in molti dopo una recente sentenza della Corte europea dei diritti umani su un caso di fecondazione medicalmente assistita: il giudice di Strasburgo ha dichiarato illegittima la Legge 40 del 2004 dove non permette a una coppia fertile, ma portatrice sana di fibrosi cistica, di ricorrere alla diagnosi preimpianto dell'embrione (pgd). Il motivo sta nel doveroso rispetto della vita privata e familiare, che il veto posto dalla legge non consentirebbe.
Non è la prima decisione di un tribunale a riguardo. La Corte costituzionale in passato si è già espressa in merito. Ora l'intervento della CEDU è servito a riaprire la strada ad accesi dibattiti sull'adeguatezza della legislazione e sulle contraddizioni di un sistema che da una parte limita al massimo la pgd e dall'altra ammette l'aborto terapeutico.
Ma sul senso della vita e sul suo bisogno di protezione in una fase delicatissima quale quella embrionale, sono in pochi a pronunciarsi.

Quali coordinate etiche?

Al di là della ricerca delle coordinate giuridiche e tecnico-scientifiche più adatte a contenere il miracolo della nascita, si pone alla radice un dilemma non solo morale ma anche educativo: da quando si comincia a essere considerati persone? A chi spetta la responsabilità di stabilirlo?
La questione non è di poco conto. Per avere un'idea delle dimensioni del fenomeno, basti pensare che nel solo 2011 sono state contate diverse migliaia di coppie italiane in cerca di un figlio con l'ausilio della scienza. Di queste, almeno mille lo hanno fatto nel Belpaese, la metà con l'ausilio della diagnosi preimpianto (la legge lo ammette nel caso in cui la coppia richiedente sia infertile o affetta da particolari malattie).
Alla base delle domande di pgd sta il desiderio che tutto vada bene, che il futuro bebè nasca sano. È un bisogno legittimo. Il livello di prevenzione raggiunto dalla scienza medica lo rende anche pressante. Ma a volte può insinuare la pericolosa illusione che sia realizzabile sempre e comunque.
Purtroppo non è così.

Ricreare la vita

L'attuale concezione della diagnostica preimpianto ha il suo fondamento nella cultura della medicina moderna, che punta sulla prevenzione portata all'eccesso.
Dietro l'angolo c'è il rischio che, continuando di questo passo, il progresso trasformi la genetica in eugenetica, diffondendo il messaggio che la vita vale la pena di essere vissuta solo se si è in possesso di determinate caratteristiche psicofisiche.
Una deriva etica su cui non tutti sono d'accordo.
"Se la diagnosi serve a curare la patologia, allora ben venga - osserva Enrico Larghero, medico, direttore del Master in Bioetica alla Facoltà teologica dell'Italia settentrionale di Torino e coordinatore scientifico del Centro Cattolico di Bioetica dell'Arcidiocesi torinese - Ma se la terapia è eliminare l'embrione non sano, di cosa stiamo parlando?".
Il diritto a generare e ad allevare un figlio sano è un ottimo principio, insomma. Nella realtà quotidiana, tuttavia, ciò non dipende che in minima parte dalla volontà dell'uomo, per quanta attenzione vi si possa prestare. "Occorre imparare ad accettare la finitudine dell'essere umano, i suoi limiti - prosegue Larghero - Fa parte dell'ordine naturale. Bisogna riscoprire il senso profondo della genitorialità, che è di custodire la vita, la cui dignità e il cui valore prescindono ogni condizione".
Anche sotto l'aspetto tecnico-scientifico l'analisi ha dei limiti. Il primo riguarda la possibilità di recare un danno all'embrione con il test. Il secondo concerne l'attendibilità della pgd: in una data percentuale di casi - che a seconda dei morbi rari varia dall'1 al 5% - può dare adito a dei "falsi positivi", cioè a conclusioni sbagliate sullo stato di salute della cellula embrionale. Da queste complicazioni può dipendere una vita in divenire.
Senza dimenticare che un bambino nato sano potrebbe ammalarsi successivamente. Come comportarsi in questo caso?

Un diritto da difendere

Il dramma personale che si cela dietro alla vicenda esaminata dalla CEDU - un figlio nato affetto da fibrosi cistica, da cui la scoperta dei genitori di essere portatori sani della malattia e il loro desiderio di dare alla luce un nuovo figlio senza il morbo - non si può giudicare.
Tuttavia restala necessità di salvaguardare l'individuo nel momento di estrema fragilità: anzitutto, iniziando a capire che non si è di fronte a un oggetto da gestire come una proprietà qualunque, ma a una persona umana, che è tale "in tutte le fasi della sua esistenza e nei suoi confronti esiste il dovere di rispetto e di tutela proprio per favorire lo sviluppo delle capacità e delle funzioni di cui è dotata". Così si è espresso a metà degli anni '90 il Comitato nazionale di bioetica, nel redigere lo statuto dell'embrione. Non c'è ancora una legge a fissare il principio. Più che una normativa, servirebbe però un cambio di rotta culturale, imparando che oltre ai nostri diritti esistono anche quelli di chi non ha voce per difenderli.

                                                                                                     
Luca MAZZARDIS
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L'articolo anche in formato PDF


       RIVISTA MARIA AUSILIATRICE  2012 - 6  
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