La scienza
permette oggi di sapere se un figlio nascerà sano. Ma
a chi spetta di decidere il destino di un embrione malato? Dopo
la recente sentenza CEDU, i rischi della nuova cultura della
prevenzione estrema
Due genitori
hanno il diritto di sapere se il proprio figlio nascerà
sano, oppure no?
È la domanda che si sono posti in molti dopo una recente
sentenza della Corte europea dei diritti umani su un caso di
fecondazione medicalmente assistita: il giudice di Strasburgo
ha dichiarato illegittima la Legge 40 del 2004 dove non permette
a una coppia fertile, ma portatrice sana di fibrosi cistica,
di ricorrere alla diagnosi preimpianto dell'embrione (pgd). Il
motivo sta nel doveroso rispetto della vita privata e familiare,
che il veto posto dalla legge non consentirebbe.
Non è la prima decisione di un tribunale a riguardo. La
Corte costituzionale in passato si è già espressa
in merito. Ora l'intervento della CEDU è servito a riaprire
la strada ad accesi dibattiti sull'adeguatezza della legislazione
e sulle contraddizioni di un sistema che da una parte limita
al massimo la pgd e dall'altra ammette l'aborto terapeutico.
Ma sul senso della vita e sul suo bisogno di protezione in una
fase delicatissima quale quella embrionale, sono in pochi a pronunciarsi.
Quali coordinate
etiche?
Al di là
della ricerca delle coordinate giuridiche e tecnico-scientifiche
più adatte a contenere il miracolo della nascita, si pone
alla radice un dilemma non solo morale ma anche educativo: da
quando si comincia a essere considerati persone? A chi spetta
la responsabilità di stabilirlo?
La questione non è di poco conto. Per avere un'idea delle
dimensioni del fenomeno, basti pensare che nel solo 2011 sono
state contate diverse migliaia di coppie italiane in cerca di
un figlio con l'ausilio della scienza. Di queste, almeno mille
lo hanno fatto nel Belpaese, la metà con l'ausilio della
diagnosi preimpianto (la legge lo ammette nel caso in cui la
coppia richiedente sia infertile o affetta da particolari malattie).
Alla base delle domande di pgd sta il desiderio che tutto vada
bene, che il futuro bebè nasca sano. È un bisogno
legittimo. Il livello di prevenzione raggiunto dalla scienza
medica lo rende anche pressante. Ma a volte può insinuare
la pericolosa illusione che sia realizzabile sempre e comunque.
Purtroppo non è così.
Ricreare la
vita
L'attuale concezione
della diagnostica preimpianto ha il suo fondamento nella cultura
della medicina moderna, che punta sulla prevenzione portata all'eccesso.
Dietro l'angolo c'è il rischio che, continuando di questo
passo, il progresso trasformi la genetica in eugenetica, diffondendo
il messaggio che la vita vale la pena di essere vissuta solo
se si è in possesso di determinate caratteristiche psicofisiche.
Una deriva etica su cui non tutti sono d'accordo.
"Se la diagnosi serve a curare la patologia, allora ben
venga - osserva Enrico Larghero, medico, direttore del Master
in Bioetica alla Facoltà teologica dell'Italia settentrionale
di Torino e coordinatore scientifico del Centro Cattolico di
Bioetica dell'Arcidiocesi torinese - Ma se la terapia è
eliminare l'embrione non sano, di cosa stiamo parlando?".
Il diritto a generare e ad allevare un figlio sano è un
ottimo principio, insomma. Nella realtà quotidiana, tuttavia,
ciò non dipende che in minima parte dalla volontà
dell'uomo, per quanta attenzione vi si possa prestare. "Occorre
imparare ad accettare la finitudine dell'essere umano, i suoi
limiti - prosegue Larghero - Fa parte dell'ordine naturale. Bisogna
riscoprire il senso profondo della genitorialità, che
è di custodire la vita, la cui dignità e il cui
valore prescindono ogni condizione".
Anche sotto l'aspetto tecnico-scientifico l'analisi ha dei limiti.
Il primo riguarda la possibilità di recare un danno all'embrione
con il test. Il secondo concerne l'attendibilità della
pgd: in una data percentuale di casi - che a seconda dei morbi
rari varia dall'1 al 5% - può dare adito a dei "falsi
positivi", cioè a conclusioni sbagliate sullo stato
di salute della cellula embrionale. Da queste complicazioni può
dipendere una vita in divenire.
Senza dimenticare che un bambino nato sano potrebbe ammalarsi
successivamente. Come comportarsi in questo caso?
Un diritto
da difendere
Il dramma personale
che si cela dietro alla vicenda esaminata dalla CEDU - un figlio
nato affetto da fibrosi cistica, da cui la scoperta dei genitori
di essere portatori sani della malattia e il loro desiderio di
dare alla luce un nuovo figlio senza il morbo - non si può
giudicare.
Tuttavia restala necessità di salvaguardare l'individuo
nel momento di estrema fragilità: anzitutto, iniziando
a capire che non si è di fronte a un oggetto da gestire
come una proprietà qualunque, ma a una persona umana,
che è tale "in tutte le fasi della sua esistenza
e nei suoi confronti esiste il dovere di rispetto e di tutela
proprio per favorire lo sviluppo delle capacità e delle
funzioni di cui è dotata". Così si è
espresso a metà degli anni '90 il Comitato nazionale di
bioetica, nel redigere lo statuto dell'embrione. Non c'è
ancora una legge a fissare il principio. Più che una normativa,
servirebbe però un cambio di rotta culturale, imparando
che oltre ai nostri diritti esistono anche quelli di chi non
ha voce per difenderli.
Luca MAZZARDIS
*** L'articolo
anche in formato PDF