VERSO ROMA  (Atti 25,13-28,31)

Nella sezione precedente abbiamo visto come i Giudei si sono accaniti contro Paolo, mentre i procuratori e governatori romani si sono comportati come Pilato nel processo di Gesù. Nella nuova sezione, Paolo è sempre prigioniero, ma sotto custodia romana e gode di una certa libertà. Presto lo contempleremo, innocente come Gesù innocente, davanti ad un re e ascolteremo il suo ultimo discorso, nel quale trasparirà tutta la sua grandezza, tutto il suo amore per Cristo e tutta la sua gioia di poterlo ancora una volta testimoniare. Infine, lo seguiremo nel suo travagliato viaggio verso Roma.

A Cesarea: Festo e il re Agrippa (25,13-27)

Festo, succedendo al governatore Felice (anno 60), si è trovato tra le mani il “caso Paolo”, che si è appellato a Cesare. Una cosa lo preoccupava: non sapeva come motivare l’invio di Paolo all’imperatore. Gli venne un aiuto dalla visita che gli fece Agrippa II, re dell’Iturea, della Traconitide, della Galilea e Perea. Agrippa era inviso ai Giudei e in particolare ai sommi sacerdoti. Incontrandosi con Agrippa, Festo ne approfittò per esporre a lui il “caso Paolo”. Agrippa gli chiese di poterlo ascoltare e fu esaudito. Il giorno dopo si presentò con la moglie Berenice e un grande seguito, Festo fece entrare nella sala Paolo e rivolgendosi ai presenti disse: «Re Agrippa e voi tutti qui presenti. Guardate quest’uomo che i Giudei vogliono morto. Ora io sono convinto che egli non ha commesso alcuna cosa che meriti la morte. Poiché si è appellato ad Augusto ho deciso di farlo partire. Ma sul suo conto non ho nulla da scrivere al sovrano; per questo l’ho condotto davanti a voi... per avere dopo questa udienza qualcosa da scrivere. Mi sembra, infatti, assurdo mandare un prigioniero senza indicare le accuse che si muovono contro di lui». Agrippa, rivolgendosi a Paolo, gli disse: “Ti è concesso di esporre il tuo caso”.

Il discorso di Paolo (236,1-23)

Siamo forse di fronte al discorso più elaborato e raffinato di Paolo. Sostanzialmente sembra un discorso di difesa, ma verso la fine diventa testimonianza di Gesù. Qui si compie esattamente quanto Gesù ha detto ad Anania: «...deve portare il mio nome davanti ai re...» (9,15). Ora è di fronte ad un re, come lo è stato Gesù (Lc 23,6-13). La struttura del discorso è simile a quella di 22,1-16: Paolo parla della sua vita di fede come fariseo (26,4-8), di come ha perseguitato i cristiani (26,9-11), di come il Risorto lo ha chiamato ad essere suo testimone (26,12-18) e della sua testimonianza di fronte ai piccoli e ai grandi (26,19-23).

26,4-8: «La mia vita vissuta fin dalla giovinezza è ben nota a tutti i Giudei se vogliono darne testimonianza... Ora mi trovo sotto processo a causa della speranza nella promessa fatta da Dio ai nostri Padri e che le nostre dodici tribù sperano di vedere compiuta, servendo Dio giorno e notte... Ma perché c’è tra voi chi considera incredibile che Dio risusciti i morti?».

Da questo testo appare chiaro che la sua controversia con il Sinedrio e tutto il giudaismo ufficiale non è politica, ma teologica: è sulla speranza di tutto Israele nella futura risurrezione. Tutto Israele ne attende il compimento mentre per altri è qualcosa d’incredibile. Non lo si dice esplicitamente, ma è chiaro che il compimento ha avuto inizio quando Dio ha risuscitato Gesù dai morti.
26,9-11: Ora parla della sua vita di fariseo, come mai ha fatto altrove. Il suo desiderio di essere coerente con la sua fede lo ha portato a perseguitare la Chiesa. La sua coscienza gli diceva che doveva agire così. Ascoltiamolo: «Eppure anch’io ritenni mio dovere lavorare attivamente contro il nome di Gesù Nazareno. E così ho fatto. Con l’autorizzazione dei capi dei sacerdoti, rinchiusi in prigione molti fedeli e quando venivano condannati a morte anch’io ho votato contro di loro. ... Era tale il mio furore contro di loro che davo loro la caccia anche in città straniere. In una di tali circostanze stavo andando a Damasco, quando...».
24,12-18: Ora parla di come Cristo lo ha chiamato, ma il suo racconto è assai diverso da quello dei capitoli 9 e 22. Ora non si parla di Anania. Qui tutto gli è rivelato dallo stesso Gesù. È probabile che Paolo raccontando ora a distanza di anni l’evento lo rilegga nella luce di tutta la sua esperienza apostolica. Quello che dice è molto importante: «…stavo andando a Damasco, quando verso mezzogiorno, o re, vidi una luce venire dal cielo più splendente del sole. Essa avvolse me e i miei compagni di viaggio. Tutti cademmo a terra e io udii una voce che mi diceva in ebraico: “Saulo, Saulo, perché mi perseguiti? È duro per te recalcitrare contro il pungolo”. Io dissi: “Chi sei, Signore?”. E il Signore mi rispose: “Io sono Gesù che tu perseguiti. Ma ora alzati e rimettiti in piedi. Io, infatti, ti sono apparso per costituirti ministro e testimone di quelle cose che hai visto di me e di quelle per cui ti apparirò. Ti libererò dal popolo e dai pagani, ai quali ti mando, per aprire loro gli occhi e perché passino dalle tenebre alla luce, dal dominio di Satana a Dio, in modo tale che ottengano il perdono dei peccati e l’eredità in mezzo a coloro che sono stati santificati per la loro fede in me”».
“È duro per te recalcitrare contro il pungolo”. In greco questo è un proverbio che definisce vana e inutile ogni resistenza all’influsso divino nella condotta futura. È quello che subito dopo dirà Paolo: “Non potevo disubbidire” (v. 19). Da quel momento Paolo si sentì come costretto al servizio di Cristo risorto o, come dice in Fil 3,12: “catturato da Cristo”, cioè gli fu iniettato uno spirito irresistibile: la necessità di predicare il Vangelo (1 Cor 9,15-18). Però ha ricevuto pure una grande certezza: il Cristo continuerà ad apparirgli come gli è apparso pochi giorni prima (23,11). E lo assicura di liberarlo da tutti i pericoli e di sostenerlo nella sua missione che ha come scopo quella conversione che porta al perdono dei peccati e a tutto ciò che lui ha sempre fatto e che ora racconta al re Agrippa.
26,19-23: «Per tanto, o re Agrippa, io non potevo disubbidire alla voce celeste. Perciò prima al popolo di Damasco, poi al popolo di Gerusalemme, in tutta la Giudea e infine ai pagani ho predicato di pentirsi e di convertirsi a Dio, comportandosi in maniera degna della conversione. Per questo i Giudei mi assalirono nel Tempio e tentarono di uccidermi. Ma con l’aiuto di Dio fino ad oggi sto rendendo testimonianza ai piccoli e ai grandi (a te, re Agrippa). Null’altro affermo se non quello che i Profeti e Mosè dichiararono che doveva accadere che cioè il Cristo doveva soffrire e che sarebbe stato il primo a risorgere dai morti» (26,19-23).
Quante volte abbiamo udito Paolo annunciare queste verità. Perciò non poteva finire diversamente il suo discorso. E noi dobbiamo essere riconoscenti a Luca che, riportando questo discorso e quello ai capi delle comunità di Efeso, ci ha dato la più bella immagine di Paolo.

Reazioni al discorso (26,24-32)

A un certo punto Festo disse: «Paolo, tu sei pazzo; la troppa scienza ti ha dato al cervello». Paolo rispose: «Non sono pazzo, ma sto dicendo la verità». Non meravigliamoci della reazione di Festo. Per lui il discorso di Paolo è pura erudizione ed è impossibile seguirlo quando parla di Mosè e dei Profeti e, soprattutto, della risurrezione. Egli sente tutta la sua incompetenza a esprimere una sentenza giudiziaria su questioni teologiche. Diversa la reazione di Agrippa, conoscitore delle discussioni dottrinali giudaiche. E forse è per dire a Paolo che ha capito che butta lì una frase: «Per poco non mi convinci a farmi cristiano». Ma quando sentì dire da Paolo: «Volesse Dio», si alzò e con tutti gli altri abbandonò la sala. E, mentre si allontanavano, presero atto insieme che «quest’uomo non sta facendo nulla che meriti la morte». Agrippa disse a Festo: «Costui poteva essere messo in libertà immediatamente se non si fosse appellato a Cesare». La conclusione è ovvia: “Paolo è innocente, non ha fatto nulla di male”. Quante volte abbiamo sentito risuonare questa frase a Gerusalemme e a Cesarea.

Verso Roma: da Cesarea a Malta (c. 27)

Qui, oramai, ritorna continuamente il “noi”, segno della presenza di Luca. L’ultima volta che l’abbiamo letto è quando Paolo con i suoi compagni entrarono nella casa di Giacomo a Gerusalemme (21,18). Quello invece che abbiamo letto tra questi due estremi è tutto dedicato a Paolo e perciò è logico che sia stata usata la terza persona.
La prima parte del viaggio da Cesarea fino a “Buoni Porti” nell’isola di Creta fu abbastanza facile. Il primo scalo fu a Sidone nel Libano dove “il centurione Giulio, con un gesto cortese verso Paolo, gli permise di recarsi dagli amici e di riceverne le cure” (v. 3). Quando poi giungemmo, dice Luca, a Mira di Licia, il centurione trovò una nave di Alessandria diretta in Italia e ci fece salire a bordo. Di lì si navigò non senza fatica, fino a Buoni Porti. Qui Paolo disse: «Uomini, vedo che la navigazione comincia a essere rischiosa non solo per il carico e per la nave, ma per le nostre stesse vite». L’invito era di svernare lì. D’inverno, infatti, le navi rimanevano nei porti. Il pilota non fece caso all’avviso di Paolo, egli voleva arrivare a un porto migliore. Ma non ci riuscì. Il vento e la burrasca investirono la nave e la dovettero lasciare andare alla deriva per ben quindici giorni. Luca li racconta dettagliatamente.
Il lettore, se vuole, legga l’intero racconto. Si tratta di un racconto così drammatico e rocambolesco che certamente è unico nella letteratura nautica. Si ha sempre il senso che non c’è scampo. Sono tanti i dettagli che solo un testimone oculare, come Luca, può avere scritto queste pagine. Comunque egli cerca di evidenziare Paolo che un giorno disse: «Non perdetevi di coraggio, non ci sarà alcuna perdita di vite, ma solo la nave. Questa notte mi è apparso un angelo di quel Dio che io servo e mi ha detto: “Non temere, tu devi comparire davanti a Cesare; ed ecco, Dio ha voluto conservarti tutti i tuoi compagni di navigazione”. Perciò non perdetevi di coraggio. Ho fiducia in Dio che avverrà come mi è stato detto» (vv. 22-25).
A un certo punto i marinai, sentendo vicina la terra, tentarono di fuggire. Paolo avvisò il comandante che fece tagliare le gomene in modo che le scialuppe cadessero in mare. Al quattordicesimo giorno Paolo disse: «Vi invito a prendere cibo; è necessario per la vostra salvezza. Neanche un capello del vostro capo andrà perduto. Detto questo prese il pane, rese grazie a Dio davanti a tutti, lo spezzò e cominciò a mangiare. Tutti ripresero coraggio e anch’essi presero cibo» (vv. 34-35). Il giorno dopo la nave si incagliò, mentre la poppa si sfasciava sotto la violenza delle onde. Si gettarono a nuoto e riuscirono a mettersi in salvo a terra. Erano giunti a Malta.
«Gli indigeni ci trattarono con rara umanità: ci accolsero attorno a un grande fuoco, perché pioveva e faceva freddo». Ora mentre Paolo raccoglieva un fascio di rami e li gettava nel fuoco, una vipera saltò fuori e gli morse una mano. Al vedere ciò gli indigeni dicevano fra loro: «Certamente costui è un assassino perché, sebbene scampato dal mare, la dea della giustizia non lo ha lasciato vivere». Paolo però non cadde morto e allora pensarono che fosse un dio. Nel racconto c’è qualcosa di strano. Sono rimasti tre mesi a Malta e Luca non parla di Paolo evangelizzatore ma solo di lui come operatore di prodigi. È quasi impossibile pensare a una cosa simile, data la buona accoglienza degli isolani e l’ardore missionario di Paolo.

Da Malta a Roma (28,11-31)

«Dopo tre mesi lasciammo Malta su una nave che aveva svernato nell’isola. Approdammo a Siracusa, poi a Reggio e infine a Pozzuoli. Qui trovammo alcuni fratelli che ci accolsero e ci invitarono a rimanere con loro una settimana. Quindi arrivammo a Roma. I cristiani di quella comunità già sapevano che stavamo arrivando e ci vennero incontro». Per loro Paolo non era uno sconosciuto perché da Corinto (anno 58) aveva inviato loro la sua più bella, dotta e importante lettera: La Lettera ai Romani. Ci vennero incontro fino al Foro Appio e alle Tre Taverne. “Paolo, al vederli, rese grazie a Dio e prese coraggio”. A Roma gli fu concesso di vivere per conto suo con un soldato di guardia.
Gesù gli aveva detto: «Mi darai testimonianza anche a Roma». Questo è il compito che ora lo attende ed egli si mise subito a organizzare la sua testimonianza secondo il suo metodo: “Prima ai Giudei”. È l’ultima volta che compie questo gesto. Fece chiamare le persone più in vista tra loro e raccontò quello che i Giudei gli fecero a Gerusalemme: lo arrestarono e consegnarono ai Romani. «Volevano mettermi a morte benché non ci fosse alcuna colpa in me degna di morte e io mi appellai a Cesare... senza però volere con questo accusare il mio popolo. Ecco perché vi ho chiamati: per vedervi e parlarvi, poiché è a causa della speranza di Israele che io sono legato a questa catena». I suoi interlocutori risposero che non sapevano nulla di tutto ciò, ma che desideravano parlare con lui.
Così ebbe inizio la sua catechesi: «Dando la sua testimonianza cercava di convincerli riguardo a Gesù in base alla Legge e ai Profeti». Il risultato fu come sempre: pochi credettero, la maggioranza lo rifiutarono e se ne andarono. Paolo capì allora che continuava a realizzarsi quanto lo Spirito Santo aveva detto per mezzo di Isaia. E qui cita Is 6,9-10, che anche i Sinottici citano per parlare della reazione degli increduli (Mt 13,14-15): «Sono diventati duri di orecchi, hanno chiuso il loro cuore per non vedere e sentire... perché io non li risani». Che fare? La risposta di Paolo l’abbiamo udita altre volte: «Sappiate che questa salvezza di Dio è stata inviata ai pagani». L’annuncio del Vangelo non si ferma. Gli Atti non sono un libro chiuso, ma aperto sul futuro di tutti i popoli. Se giungendo a Roma, Paolo pensa di essere giunto alle estremità della terra, ora si accorge che queste estremità sono assai lontane e che tocca agli apostoli di ogni tempo il compito di “predicare ovunque il Vangelo con tutta franchezza e senza ostacoli e insegnare quello che riguarda il Signore Gesù”. La storia continua e il fatto che il Vangelo sia giunto fino a noi dice che c’è sempre stato qualcuno che lo ha trasmesso alle generazioni future. Oggi questo compito tocca a noi.

Preghiamo

Signore, che bello quello che Paolo dice quando racconta la sua chiamata: “Non potevo disobbedire”. Oramai capiva che solo tu potevi dare un senso alla sua vita e realizzarla in tutta la sua pienezza e capì anche che questo poteva essere realtà solo se l’annuncio del Vangelo era l’unica cosa che dava senso a tutta la sua attività. E lui si gettò a capofitto fino a dire: “Per me è una necessità annunciare il Vangelo. O Signore, ora ti prego per me e per tutti coloro che hanno come compito primario l’annuncio della tua Parola. Fa’, o Signore, che ti sentiamo come l’unico che dà senso alla nostra vita intima e che tutta la nostra attività può ricevere il suo vero senso solo dall’annuncio del Vangelo. Per questo ti chiediamo di effondere su di noi la pienezza del tuo Santo Spirito perché possiamo sempre annunciare la Parola con franchezza, audacia e coraggio. Amen!

                                                                                                         Mario Galizzi


RIVISTA MARIA AUSILIATRICE 2005-2
 VISITA Nr.