ATTI DEGLI APOSTOLI 4,32-7,60:
LA VITA DELLA PRIMA COMUNITA'

Gesù aveva indicato come prima tappa della testimonianza la città di Gerusalemme e Luca ne ha già parlato a lungo, ma non è ancora entrato nel pieno della vita concreta della comunità. Sì, ne ha fatto una breve descrizione in 2,42-47, un brano che abbiamo giudicato troppo idilliaco: la perfezione non s’improvvisa. Ora però la comunità è maturata e si trova perseguitata. In questo contesto, come vive la sua vita cristiana? Luca descrive due quadri (4,32-35 e 5,12-16) nei quali vengono ripresi e approfonditi i temi del primo (2,42-47). In essi si parla dell’attività degli Apostoli, della vita di comunione dei cristiani, e di un sempre più crescente favore popolare. Si continua pure a parlare di Pietro, ma anche di tutti gli altri Apostoli. Con loro siamo di fronte ai veri garanti storici della vita di Gesù, a contatto diretto con la Tradizione Apostolica. Gli Apostoli sono travolti dalla persecuzione, ma nulla e nessuno li ferma nella loro testimonianza. Ad un certo punto si parla della comunità che si ristruttura con l’elezione di sette diaconi, tra cui spicca Stefano di cui si narra il martirio.
Ce n’è a sufficienza per mettere le nostre comunità a confronto con la prima e per sentire il bisogno di rimotivare la fede e di renderla sempre più coraggiosa, attiva, audace e soprattutto caratterizzarla da un profondo senso comunitario e missionario. Ma perché tutto ciò s’incida davvero in noi, lasciamoci guidare nella meditazione dalla preghiera che i discepoli innalzarono a Dio dopo la liberazione di Pietro e Giovanni dal carcere: “O Signore, concedi ai tuoi servi di annunziare con tutta franchezza la tua Parola. Stendi la mano perché si compiano guarigioni, miracoli e prodigi nel nome del tuo santo servo Gesù”. Dopo aver pregato, il luogo in cui erano tremò e tutti furono pieni di Spirito Santo e annunziavano la Parola di Dio con franchezza. È questo che noi ora costateremo in continuità e lo vedremo sublimato nella passione di Stefano che morì nell’anno 36, a circa sei anni dalla Pasqua del Signore.

Fraternità e amicizia (4,32-35)

Il titolo offre uno sguardo panoramico di come vive quella prima comunità. La prima frase è incisiva: “La moltitudine dei credenti aveva un cuore solo e un’anima sola” (v. 32a), un’espressione che ne richiama un’altra notissima: «Amerai il Signore, Dio tuo, con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima» (Dt 6,5). L’amore con cui si ama Dio è lo stesso con cui i credenti si amano a vicenda. È un amore in cui viene assorbita la totalità della persona: cuore e anima. Questo dà la possibilità di vivere totalmente rivolti agli altri e di realizzare quanto segue nel testo: “... e nessuno diceva sua proprietà quello che gli apparteneva, ma ogni cosa era fra loro in comune” (v. 32b). “Tra gli amici, infatti, le cose sono in comune, perché l’amicizia si manifesta nella comunione” (Aristotele). Ma come avviene questa comunione? Lo dicono i vv. 34-35: “Nessuno tra loro era bisognoso, perché quanti (parola che sarà poi ridimensionata) possedevano campi o case le vendevano, portavano l’importo di ciò che era stato venduto e lo deponevano ai piedi degli Apostoli e poi veniva distribuito secondo il bisogno di ciascuno”. Qui costatiamo come una vera comunione annulla le differenze sociali ed è logico che sia così. Infatti, se io vedo un mio fratello più bisognoso di me non sono in comunione con lui se non condivido quello che ho.
Di qui una prima domanda: “Come nasce questa necessità?”. Nasce dall’ascolto della predicazione apostolica che rende testimonianza della Risurrezione di Gesù e che suscita “un amore generoso verso tutti” (v. 33). Così traduce Fabris nel modo più facile ed espressivo una frase che si potrebbe anche tradurre in modi diversi.
Ma vi è una seconda domanda: “Era obbligatorio fare questo o era una scelta personale e libera? Luca risponde con due esempi. Innanzi tutto ci parla di un certo Giuseppe, soprannominato dagli Apostoli Barnaba, che significa “figlio della consolazione” (v. 36). Se lo hanno soprannominato così, significa che era una persona pronta all’aiuto degli altri e perciò non ci meraviglia quello che ha fatto. “Essendo padrone di un campo, lo vendette e ne consegnò l’importo deponendolo ai piedi degli Apostoli” (v. 37). Si spogliò di tutto e si diede all’apostolato. Lo ritroveremo ancora e sempre in atteggiamento d’aiuto.
Non così invece si sono comportati Anania e la moglie Saffira. Anche loro hanno venduto un podere, ma poi insieme hanno deciso di consegnarne solo una parte come se fosse tutto il ricavato dalla vendita. Pietro si accorse che non erano sinceri e che stavano ingannando la comunità. Perciò disse: “Anania, perché mai satana si è impossessato del tuo cuore e hai mentito allo Spirito Santo? Prima di vendere il tuo podere non era forse tua proprietà e una volta venduto, il ricavato non era sempre a tua disposizione? Tu non hai mentito agli uomini, ma a Dio”. Innanzi tutto è chiaro che la condivisione è una scelta libera, è un’azione che deve nascere da un senso di vera comunione. Il loro gesto invece non è stato un gesto di comunione, come quello di Zaccheo che ha dato solo la metà di quello che aveva, meritandosi da Gesù la frase: «Oggi la salvezza è entrata in questa casa» (Lc 19,9). Il loro gesto fu pura apparenza e il rimprovero di Pietro assai duro: “Voi avete mentito allo Spirito Santo, a Dio, che santifica con la sua presenza la comunità; avete leso la santità della Chiesa. La loro non purezza di cuore, cioè la loro mancanza di lealtà, di sincerità, di rettitudine e il loro morboso attaccamento al denaro sono l’opposto dall’essere un cuore solo e un’anima sola e perciò si escludono da se stessi dalla comunità. Il fatto è che di fronte al rimprovero di Pietro caddero morti. “E un grande timore si diffuse in tutta la Chiesa”. Si tratta di un “timore reverenziale” che dà alla comunità il senso della presenza di Dio e del suo Spirito, fonte vera di comunione. Ogni comunità cristiana sa che per essere “un cuore solo e un’anima sola” i poveri debbono contare in essa. Non si tratta di fare l’elemosina, ma di condividere come fratelli.

Apostoli e discepoli insieme (5,12-15)

Contempliamo questo indimenticabile quadro della prima comunità: “Molti miracoli e prodigi avvenivano fra il popolo per mezzo degli Apostoli. Tutti erano soliti stare insieme e concordi nel portico di Salomone. E nessuno degli altri osava associarsi a loro, ma il popolo li esaltava. E più che mai Dio aggiungeva (traduciamo così un passivo) credenti nel Signore (= nel Cristo Risorto), una moltitudine di uomini e donne” (vv. 12-14). La comunità qui appare in tutta la sua bellezza e la sua unità: Apostoli e discepoli insieme e concordi e, allo stesso tempo, si presenta come un gruppo giudaico ben separato dagli altri e in continua crescita. Questa realtà è tutta opera di Dio che opera prodigi per mezzo degli Apostoli e che suscita la fede in molti altri. Il loro inserimento nella tradizione ebraica è evidente. Si riuniscono, infatti, nel Tempio, il luogo più sacro del giudaismo e partecipano alle preghiere prescritte a tutti gli Ebrei. Nei versetti 15-16 Luca evidenzia Pietro e continuerà a farlo anche in seguito. È Pietro che più degli altri opera prodigi tanto che la gente porta i suoi ammalati e li depone dove pensavano che passasse affinché almeno la sua ombra toccasse qualcuno di loro. L’ombra era vista come continuazione della persona con tutti i suoi poteri. Questa immagine della comunità è quella che più sottolinea il favore e l’entusiasmo del popolo e questo non poteva non irritare i detentori del potere.

Gli Apostoli davanti al Sinedrio (5,17-42)

“Allora il sommo sacerdote reagì e con lui tutti gli appartenenti al gruppo dei sadducei, fece arrestare gli Apostoli e li gettò nel carcere pubblico. Ma durante la notte l’angelo del Signore aprì le porte della prigione, li fece uscire e ordinò loro di ritornare nel Tempio e di annunciare tutt’intero il messaggio della vita”. È fantastica questa opposizione: alla reazione del sommo sacerdote c’è la controreazione di Dio. Infatti, l’antica espressione “l’angelo del Signore” indica l’efficace e potente presenza di Dio, che comanda agli Apostoli di ritornare nel Tempio e di predicare “il messaggio della vita”, cioè la Risurrezione di Gesù fonte di vita per chi l’accoglie.
Quando al mattino si riunì il Sinedrio rimasero tutti perplessi sapendo dagli inviati al carcere che dentro non c’erano gli Apostoli. Non sapevano cosa fare, ma poi arrivò uno a dire che erano nel Tempio e che insegnavano. Li mandarono a prendere e quando li ebbero davanti il sommo sacerdote disse loro: “Non vi avevamo proibito di non insegnare più nel nome di «costui»? Ed ecco avete riempito Gerusalemme della vostra dottrina e volete far ricadere su di noi il sangue di quell’uomo” (v. 32). Non osa pronunciare il nome di Gesù. Ma lo fa Pietro, le cui parole cercano di coinvolgere i sinedriti. Inizia dicendo: “Bisogna ubbidire a Dio piuttosto che agli uomini”, poi continua: “Il Dio dei nostri padri (mio e vostro) ha risuscitato Gesù che voi avete fatto giustiziare appendendolo alla croce. Ebbene Dio lo ha innalzato alla sua destra facendolo guida e salvatore per concedere a Israele (e voi siete parte di Israele come noi) la possibilità di convertirsi e di ottenere il perdono dei peccati. È di questi fatti che siamo testimoni noi e lo Spirito Santo che Dio ci ha dato” (vv. 29-32).
È fantastico come Pietro con poche e incisive parole riassuma il Kerigma primitivo, cioè il primo annuncio cristiano invitando anche il Sinedrio alla conversione. Non l’hanno ascoltato, anzi si esasperarono ancor di più e volevano farli uccidere. Ma si alzò un uomo saggio del partito dei farisei e disse loro: “Se questo movimento è di origine umana si distruggerà da solo, ma se è da Dio, correte il pericolo di combattere contro Dio” (v. 38). Lo ascoltarono, anche se decisi a continuare la persecuzione. Comunque, prima di rilasciarli, li fecero flagellare. Ed essi uscirono dal Sinedrio contenti di essere stati oltraggiati per amore del nome di Gesù e continuarono nel Tempio e nelle case ad annunciare che Gesù è il Messia.

Una comunità da ristrutturare (6.1-7)

Gli Apostoli sono oramai travolti dall’entusiasmo dell’annuncio, ma ci sono anche i concreti problemi comunitari. Si accorsero che non potevano più pensare a tutto e che il loro compito fondamentale era quello dell’annuncio. Così di fronte al malcontento degli Ellenisti (giudei di lingua greca) verso gli Ebrei (di lingua ebraica) perché venivano trascurate le loro vedove nell’assistenza quotidiana, “i Dodici convocarono l’assemblea dei discepoli e dissero: «Non è giusto che noi trascuriamo la Parola di Dio per il servizio delle mense»”. Perciò proposero di eleggere sette uomini di buona reputazione, pieni di Spirito e di saggezza per questo incarico. L’assemblea elesse “Stefano, uomo pieno di fede e di Spirito Santo, Filippo, Procoro, Nicanore, Timone, Parmenas e Nicola e li presentarono agli Apostoli che, dopo aver pregato, imposero loro le mani”, segno del dono dello Spirito. Nessun compito, infatti, può essere affidato nella comunità cristiana senza questo rito, perché è lo Spirito che guida ogni apostolato.
La nota che Luca aggiunge a questo evento dice che l’organizzazione della comunità in compiti diversi aumenta l’efficacia della sua missione. Lo dimostra quanto segue: “La Parola di Dio si diffondeva e aumentava grandemente il numero dei discepoli a Gerusalemme; anche un gran numero di sacerdoti aderiva alla fede”.

Processo e martirio di Stefano (6,8-7,60)

Luca, ha già fatto risaltare il nome di Stefano nella lista dei sette, ora lo presenta non solo dedito al servizio delle mense, ma anche fortemente impegnato nel ministero della Parola. Nessuno dei suoi avversari “riusciva a resistere alla sapienza e allo spirito con cui egli parlava” (6,10). Perciò sobillarono il popolo e lo condussero davanti al Sinedrio dove falsi testimoni dichiararono: “Lo abbiamo udito affermare che Gesù il Nazareno distruggerà questo luogo (= il Tempio) e sovvertirà i costumi tramandateci da Mosè. Tutti quelli che sedevano nel Sinedrio lo fissavano e videro il suo volto come quello di un angelo” (6,14-15). Il sommo sacerdote gli concesse la parola e Stefano diede inizio a un lungo discorso di accusa contro i suoi giudici che, continuando a “resistere allo Spirito Santo”, non fanno che ripetere il peccato dei loro antenati.
Non possiamo soffermarci sull’intero discorso, il più lungo e più bello degli Atti; ci limitiamo a evidenziare un aspetto assai significativo. Chi ascolta Stefano si accorge che egli pensa a Gesù rifiutato dal suo popolo e poi costituito da Dio salvatore di Israele. Forse proprio per questo cita due casi simili nell’antica storia d’Israele. Giuseppe, figlio di Giacobbe, è stato rifiutato e venduto dai suoi fratelli, ma Dio era con lui e in Egitto lo rese salvatore di coloro che l’avevano rifiutato. Mosè è stato rifiutato dal suo popolo: “Chi ti ha costituito giudice su di noi?”. Ma Dio, nella terra di Madian, gli parlò dal roveto ardente e lo elesse salvatore del suo popolo. Ma poi, pensando al continuo rifiuto degli inviati di Dio, attacca i suoi giudici dicendo: “Gente testarda... Quale dei profeti i vostri padri non hanno rifiutato e perseguitato? Essi uccisero quelli che preannuciavano la venuta del «Giusto» del quale ora voi siete divenuti traditori e uccisori. Voi che avete ricevuto la Legge per mano degli angeli e non l’avete osservata” (7,52-53). Non l’avesse mai detto. Si infuriarono contro Stefano che, fissando il cielo, concluse il suo discorso dicendo: “Ecco, io contemplo i cieli aperti e il Figlio dell’uomo che sta alla destra di Dio”, cioè: Gesù è davvero risorto e Dio lo ha esaltato alla sua destra.
Si turarono le orecchie, si scagliarono su di lui e lo trascinarono fuori dalla città, come Gesù (vedi Eb 13,12). Deposero i loro mantelli ai piedi di un giovane, chiamato Saulo e si misero a lapidare Stefano il quale pregava e diceva: “Signore Gesù, accogli il mio Spirito”, e poi, piegate le ginocchia urlò forte: “Signore, non imputare loro questo peccato”. Morì come Gesù, che, innalzato sulla croce, disse: “Padre, perdonali, non sanno quello che fanno” (Lc 23,34); e prima di spirare disse: “Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito” (Lc 23,46). Stefano è il discepolo che annuncia Gesù con la sua stessa vita, il vero testimone. E con la sua morte egli dice tutta la sua fedeltà al Dio dei padri.

Preghiamo

Guarda, o Dio nostro Padre, le difficoltà che oggi incontriamo nell’annuncio e lascia che io ti rivolga a nome di tutte le comunità la preghiera che la prima comunità, travolta dalla persecuzione, ti ha rivolto: “Concedi ai tuoi servi di annunziare con tutta franchezza la tua Parola. Stendi la tua mano perché anche oggi si compiano guarigioni, miracoli e prodigi nel nome del tuo santo servo Gesù. Ed effondi su di noi la pienezza della Spirito Santo perché solo con la sua forza possiamo camminare nella storia con Gesù, tuo Figlio”. Amen!

                                                                                                  Mario Galizzi sdb


RIVISTA MARIA AUSILIATRICE 2004-3
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