SALVATI DALL'AMORE
Prendendo spunto da un grande evento mediatico che in questi ultimi tempi ha tenuto banco sui giornali e non solo, vorrei proporre alcune considerazioni sulla Passione di Nostro Signore Gesù Cristo, trattandosi di un tema centrale per la nostra fede e per la nostra vita cristiana.
Come ho appena detto, è mia intenzione fissare, in modo particolare, l’attenzione sulla Passione di Gesù, però occorre sempre ricordare che tale argomento non può assolutamente essere sganciato dal Mistero della vita di Cristo nel suo insieme.

La Passione e Morte costituiscono certo il momento culminante della vicenda terrena di Gesù, ma, nello stesso tempo, esse sono intimamente collegate con tutto il resto: con la sua predicazione, con il suo insegnamento, con i suoi miracoli, con il suo atteggiamento verso i peccatori...
I Vangeli stessi ci orientano in questa prospettiva. Il Vangelo di Marco, ad esempio, fin dal capitolo 3, versetto 6, afferma: «I Farisei uscirono subito con gli Erodiani e tennero consiglio contro di Lui, per farlo morire».
Il Vangelo di Luca, a sua volta, termina la scena delle tentazioni di Gesù, con queste parole: «Dopo aver esaurito ogni specie di tentazione, il diavolo si allontanò da Lui, per ritornare al tempo fissato» (Lc 4,13).
Questo, per quanto precede la Passione e Morte del Signore; per quanto la segue, dobbiamo invece tener presente che l’atto di fede cristiana non si limita a riconoscere che “Cristo morì per i nostri peccati, secondo le Scritture e fu sepolto”, ma continua proclamando anche che “è risuscitato il terzo giorno, secondo le Scritture”.
È perciò alla luce della Risurrezione, che noi dobbiamo fare memoria della Passione del Signore. E noi sappiamo che, anche storicamente, le cose sono andate proprio così: è cioè partendo dalla Risurrezione che è stato ricuperato il ricordo della Croce del Signore ed è alla luce della Pasqua che si è capito il senso della Passione e della Morte (cf Dei Verbum, 19).

Venendo ora al tema vero e proprio della Passione, una prima osservazione si impone immediatamente: ogni volta che rileggiamo i racconti della Passione di Gesù, così come sono narrati dai quattro Vangeli, rimaniamo profondamente colpiti dalla straordinaria sobrietà del testo evangelico.
Per la flagellazione e per la stessa crocifissione, è sufficiente una parola, basta un verbo.
I Vangeli non si soffermano oltre, perché hanno altro da dire.

La lieta notizia, che vogliono annunziare, non è innanzi tutto la sofferenza di Cristo, ma la sua totale condivisione della condizione umana, compresa quindi anche la sofferenza e la morte.
Questa straordinaria sobrietà dei testi evangelici, riconosciuta ed apprezzata da tutti, risulta ancor più impressionante, se teniamo conto del fatto che lo scandalo della Croce dovette essere davvero bruciante per i primi seguaci di Gesù e soprattutto se teniamo conto del fatto che tali testi, per noi cristiani, sono testi “ispirati”, cioè scritti sotto l’azione illuminante dello Spirito Santo, che ha guidato gli scrittori sacri, gli evangelisti, in modo tale che essi scrivessero tutto e solo quello che Egli voleva si scrivesse (cf Dei Verbum, 11).
Per esprimerci alla maniera umana, possiamo dunque dire che lo Spirito Santo aveva le sue “buone ragioni” per “ispirare” in un certo modo gli evangelisti.
La stessa sobrietà dei testi evangelici (e più in generale di tutto il Nuovo Testamento), noi la ritroviamo anche nelle formule con cui la Chiesa esprime la sua fede, fin dai primi secoli del cristianesimo: «patì sotto Ponzio Pilato, fu crocifisso, morì e fu sepolto» (Simbolo degli Apostoli); «fu crocifisso per noi sotto Ponzio Pilato, morì e fu sepolto» (Simbolo di Nicea-Costantinopoli).

Tentando ora di evidenziare le motivazioni profonde del sacrificio che Gesù ha scelto di compiere, dobbiamo ricordare come Gesù stesso ci sveli il motivo profondo della sua Passione e Morte, nel colloquio con Nicodemo: «Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio Unigenito, perché chiunque crede in Lui non muoia, ma abbia la vita eterna» (Gv 3,16).
È questa una della espressioni più belle di tutto il Nuovo Testamento: essa ci rivela come il motivo di tutto sia l’amore. La Redenzione compiuta da Cristo è essenzialmente opera di amore. Ed è solo con la categoria dell’amore che va interpretata la morte di Cristo, poiché come disse Gesù: «Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici» (Gv 15,13).
Non lo si ripeterà mai abbastanza: non è il sangue che salva, non sono le sofferenze del Crocifisso, che eppure furono atroci, ma l’amore con cui Cristo ha accettato la Croce.
Ci sono state tante persone che sono morte in croce, bestemmiando. Gesù, invece, ha fatto dell’atto finale della sua vita l’espressione più alta dell’ispirazione che l’aveva sorretto fin dall’inizio: l’amore che dona la vita.
Quella di Gesù è stata una vita donata e per questo è stata ed è un vita feconda.
Non è l’atrocità del supplizio che ha valore salvifico, ma l’intensità dell’amore, col quale il Figlio consegnò la sua vita.
Anche il Cardinal Joseph Ratzinger, nel suo libro Introduzione al cristianesimo del 1968, recentemente riedito, afferma: «L’importante non è porre l’accento sulla somma delle sofferenze fisiche, quasi che il suo valore redentivo stia nella più forte aliquota possibile di tormenti... Non è il dolore in quanto tale che conta, bensì la vastità dell’amore, che dilata l’esistenza al punto da riunire il lontano con il vicino, da ricollegare l’uomo con Dio. Soltanto l’amore dà un senso e un indirizzo al dolore».

L’indulgere ad una visione “doloristica” può pericolosamente ingenerare in noi un’immagine distorta di Dio, quasi che Egli sia un “carnefice crudele”. Cosa che potrebbe spianare la via non già all’ateismo, ma al rifiuto di questo Dio (che per di più non corrisponde a quanto Gesù ci ha rivelato).
Se è l’amore che salva, e questa è una constatazione che possiamo fare già sul piano antropologico, l’amore vero, oblativo, raggiunge il grado di suprema intensità allorché giunge a donare la vita: «Se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto. Chi ama la sua vita la perde» (Gv 12,24 ss.).

L’aspetto sacrificale della Passione e Morte di Gesù è certamente un elemento importante e sempre valido della teologia cattolica, ma non è esclusivo e deve essere integrato nel Mistero dell’Incarnazione nel suo insieme e dalla prospettiva della Risurrezione.
Nei Vangeli, Gesù stesso riassume in poche parole l’essenza della sua vita e della sua missione, quando profetizza di Sé: «Il Figlio dell’uomo sarà tradito, torturato e ucciso, ma il terzo giorno risorgerà». Come a dire che la Passione senza la Risurrezione, non ha alcun senso.

Di fronte al dramma, al Mistero della Passione del Signore, sorge spontaneo in noi l’interrogativo della responsabilità storica e teologica di questo fatto. Il Catechismo della Chiesa Cattolica, ci invita a “tener conto della complessità storica del processo di Gesù, espresso nei racconti evangelici” e ricorda che le autorità religiose di Gerusalemme, i Farisei, il Sommo Sacerdote Caifa, gli altri Sommi Sacerdoti, il Sinedrio, i Romani col loro rappresentante Pilato, furono tutti coinvolti, anche se in modo diverso, nel processo e nella morte di Gesù (595-597).

Per quanto riguarda invece la responsabilità teologica, il Catechismo aggiunge: «La Chiesa, nel Magistero della sua fede e nella testimonianza dei suoi santi, non ha mai dimenticato che ogni singolo peccatore è realmente causa e strumento delle sofferenze del divin Redentore».
Tenendo conto del fatto che i nostri peccati offendono Cristo stesso, la Chiesa non esita ad imputare ai cristiani la responsabilità più grave nel supplizio di Gesù, responsabilità che troppo spesso essi hanno fatto ricadere unicamente sugli Ebrei.
«È chiaro che più gravemente colpevoli sono coloro che più spesso ricadono nel peccato. Se, infatti, le nostre colpe hanno tratto Cristo al supplizio della croce, coloro che si immergono nell’iniquità, crocifiggono nuovamente, per quanto sta in loro, il Figlio di Dio e lo scherniscono con un delitto ben più grave in loro che non negli Ebrei.
Questi, infatti, afferma San Paolo, non avrebbero crocifisso Gesù, se lo avessero conosciuto come re divino.
Noi cristiani, invece, pur confessando di conoscerlo, di fatto, lo rinneghiamo con le nostre opere e leviamo contro di Lui le nostre mani violente e peccatrici.
“E neppure i demoni Lo crocifissero, ma sei stato tu con essi a crocifiggerLo e ancora Lo crocifiggi, quando ti diletti nei vizi e nei peccati” (San Francesco d’Assisi)» (598).
Queste parole del Catechismo Romano, riprese dal Catechismo della Chiesa Cattolica, (1993), ci appariranno particolarmente significative, se teniamo conto del fatto che, quando fu redatto il Catechismo Romano (1566), nella stagione cioè successiva al Concilio di Trento (1545-1563), i rapporti tra Chiesa Cattolica ed Ebrei non erano del tutto sereni!
Pure gli estensori del Catechismo Romano hanno avuto il coraggio di scrivere che la nostra personale responsabilità, per la morte di Gesù, è superiore a quella degli Ebrei.

Come conclusione della nostra riflessione, richiamo brevemente tre paragrafi del Catechismo della Chiesa Cattolica (620, 621 e 623): la nostra salvezza proviene dall’iniziativa d’amore di Dio per noi [...]; Gesù si è liberamente offerto per la nostra salvezza; mediante la sua obbedienza di amore al Padre “fino alla morte di croce” (Fil 2,8), Gesù compie la missione espiatrice del Servo sofferente, che giustifica molti, addossandosi la loro iniquità.

                                                                                      Giovanni Zappino SDB


RIVISTA MARIA AUSILIATRICE 2004-6
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