CAMMINARE CON CRISTO NELLA CHIESA/8:
ANTIOCHIA E GERUSALEMME
Finalmente siamo fuori dalla Palestina e siamo in pieno ambiente pagano, in una bellissima città, Antiochia di Siria, situata nella pianura del fiume Oronte a trentacinque chilometri dal mare, dove c’è il porto di Seleucia. È la terza città dell’Impero romano dopo Roma e Alessandria d’Egitto e conta oltre mezzo milione di abitanti. Ebbene, è in questa città che nasce una comunità cristiana colma di vita e aperta a tutti. Le discriminazioni della Chiesa giudaica sono lontane, anche se sempre latenti. In pochi anni la Chiesa di Antiochia avrà un’importanza enorme, senza però perdere la comunione con la Chiesa-Madre di Gerusalemme. La convinzione che la Chiesa è una, pur nella diversità delle singole comunità, è un principio fondamentale.
Ora però ci chiediamo: come è nata la comunità di Antiochia di Siria? Chi è Gesù per i credenti che vivono in essa? Come si manifesta la sua comunione con Gerusalemme? A queste domande risponde il primo brano della sezione: 11,19-30. Nel capitolo 12° invece ritorneremo alla perseguitata Chiesa di Gerusalemme e la conclusione sarà che, malgrado tutto, la parola di Dio si diffonde sempre di più.
I problemi storici legati a questa sezione non sono pochi, ma partendo dal principio che nulla si improvvisa, diciamo che quanto si narra nella prima parte (11, 19-30) copre forse la spazio di 7 o 8 anni (41-48) con un accenno agli eventi dell’anno 36. Quanto invece è narrato nel capitolo 12° è contemporaneo agli eventi della prima parte. A Luca non interessa l’ordine cronologico, ma quello logico: nella prima parte parla di una Chiesa in pieno sviluppo, nella seconda di una Chiesa perseguitata. Si tratta però sempre dell’unica e indivisibile Chiesa impegnata nell’annuncio del Vangelo.

Come nasce una comunità (11,19-21)

Chi ha fondato la comunità di Antiochia è gente che è fuggita da Gerusalemme, quando si scatenò la persecuzione che travolse Stefano (anno 36). Là, annotando il lato positivo della persecuzione, si diceva che i dispersi andavano di luogo in luogo annunziando la Parola. Non si tratta di quelli, come gli Apostoli che hanno come compito primario l’annuncio del Vangelo, qui si tratta di tutti i discepoli. Ognuno sente che non può vivere pienamente la Parola, se non la dona agli altri. Di questo si è in parte già parlato in 8,1-4, ora si dice che i fuggiaschi andarono oltre i confini della Palestina, giunsero nella Fenicia, a Cipro e ad Antiochia.
Quanto segue è molto importante: “Mentre andavano non parlavano a nessuno della Parola se non ai soli Giudei”. Forse seguivano il principio: “prima ai Giudei”. In realtà si tratta di quei giudei-cristiani chiusi ad ogni apertura ai pagani. Ma non erano tutti così: “C’erano alcuni uomini, originari di Cipro e Cirene che, giunti ad Antiochia, cominciarono a parlare anche ai pagani, annunciando loro la lieta notizia del Signore Gesù”. Ebbene solo di questi si afferma: “La potenza del Signore era con loro”. Dio non è con chi si chiude nei suoi principi razziali, Dio è con coloro che si aprono a tutti e che vogliono convivere con tutti. Come a Cesarea, così avviene anche ad Antiochia, dove nasce una comunità senza tabù alimentari o sociali: una comunità aperta a tutti.
Anche l’oggetto del loro annuncio è importante: Il Signore Gesù, cioè: “Solo Gesù è il Signore”, o, come ha detto Pietro a Cesarea: “Gesù è il Signore di tutti”. Questo è il vero oggetto di una sana catechesi ed è un binomio che suona come uno slogan. In un ambiente come Antiochia, dove si veneravano varie divinità: Apollo, Dafne, Artemide, ecc. e dove vi erano anche tanti potenti di questo mondo, il grido Gesù è il Signore relativizzava ogni potere umano e annullava per sempre ogni idolatria.

Barnaba e Saulo (11,22-26)

La notizia di ciò che accadeva ad Antiochia giunse alla Chiesa di Gerusalemme, e perciò, come avevano inviato Pietro e Giovanni in Samaria, così ora mandano Barnaba ad Antiochia, certamente per controllare, anche se il principio “la Chiesa è una” guida ogni cosa.
Hanno scelto la persona più adatta. Barnaba è “il figlio della consolazione” ed è un levita, perciò una persona fatta per far osservare la legge. Quando giunse però in quella città capì subito che non era lì per controllare: toccò con mano la grazia del Signore, cioè il meraviglioso sviluppo dell’opera evangelizzatrice. Non c’è da controllare niente dove agisce il Signore. Scoppiò di gioia e si limitò a “esortare tutti a rimanere saldi nel Signore”; e, come uomo pieno di Spirito Santo e fede si mise a collaborare all’opera evangelizzatrice. Risultato: “una folla considerevole fu condotta al Signore”. È la quinta volta che in questo brano (11,19-24) si parla del Signore o del Signore Gesù. Questo esprime la convinzione dei fedeli della continua presenza del Signore nella loro storia.
Barnaba fece poi di sua iniziativa qualcosa di grande. Andò a Tarso a cercare Saulo, “lo strumento scelto per portare il nome di Gesù ai pagani” (9,15) e lo ricondusse nella comunità. Forse erano passati sette o otto anni (39-46) da quando lasciò Gerusalemme (9,30).
Che cosa fece a Tarso in quegli anni? È probabile che abbia annunciato Gesù nelle regioni della Siria e della Cilicia (Gal 1,21), ed è certo che quelli furono per lui gli anni delle grandi rivelazioni, se un giorno ha potuto scrivere ai Galati: “Il messaggio di salvezza da me annunziato non viene dagli uomini... è Gesù Cristo che me lo ha rivelato” (Gal 1,11s; vedi pure 2 Cor 12,1-10). Ora eccolo ad Antiochia dove insieme a Barnaba per “un anno intero istruirono molta gente”. Il nome di Cristo dev’essere risuonato in continuità sulle loro labbra, se gli estranei finirono per chiamarli cristiani. Ai fedeli non spiacque questo appellativo, perché ricordava loro che essere cristiani significa appartenere a Cristo. Inoltre con questo nome si sentivano un gruppo ben diverso dal giudaismo. Il risultato fu che la Chiesa di Antiochia in breve superò per importanza quella di Gerusalemme senza diminuirne il primato.

Una colletta, segno di comunione

Vi è infine un fatto nuovo che rinsalda la comunione tra Antiochia e Gerusalemme (11,27-30). I fedeli di Antiochia di fronte all’annuncio di una grave carestia che stava per colpire “tutto il mondo”, si interessarono soprattutto di quella carestia che, sotto l’imperatore Claudio (41-54), colpì la Giudea. Perciò determinarono, secondo le possibilità di ciascuno, di “inviare aiuti ai fratelli che abitavano in Giudea” e li mandarono “ai presbiteri che sono in Gerusalemme” per mezzo di Barnaba e Saulo. Ma perché ai presbiteri e non, come si era soliti fare, agli apostoli? Dove sono gli apostoli? È possibile che la Chiesa madre si trovi in un momento di persecuzione e che la direzione sia stata affidata ad un gruppo collegiale. Ma c’è ancora un’altra difficoltà. Saulo nella lettera ai Galati parla solo di due andate a Gerusalemme: una tre anni dopo la sua conversione e l’altra quattordici anni dopo. Mentre Luca ne cita una terza. Chi ha ragione? I due. A Paolo nella lettera ai Galati non interessano tutte le sue andate a Gerusalemme, ma solo quelle che mettono in risalto il senso della sua missione. Infatti la prima che egli cita, aveva lo scopo di consultare Pietro, il testimone oculare, (Gal 1,18); la seconda, invece, quello “di difendere contro i falsi fratelli, che volevano imporre la circoncisione anche ai pagani, la libertà che avevano in Cristo” (Gal 2,1-5). Perciò cadono tutte le discussioni su chi è più fedele alla storia: se Saulo o Luca.

Gerusalemme: una Chiesa sotto pressione (12,1-5)

Da una Chiesa colma di entusiasmo per il suo meraviglioso sviluppo a una Chiesa perseguitata. Prima i persecutori erano Saulo e il potere religioso, ora si aggiunge il potere politico per mezzo di Erode Agrippa I, che regnò in Giudea dal 41 al 44, quando Saulo era ancora a Tarso. Era un uomo subdolo, sempre alla ricerca del plauso degli altri. Quando risiedeva a Gerusalemme era osservante della legge, partecipava ai sacrifici espiatori e, nel contatto con il potere religioso capì che se avesse perseguitato i cristiani avrebbe reso felici i farisei e i sadducei. Perciò “arrestò alcuni membri della chiesa per maltrattarli e fece uccidere di spada Giacomo, fratello di Giovanni”. Qui ci stupisce assai che Luca con una semplice frase liquidi il fatto del martirio del primo apostolo. L’unica spiegazione possibile è che vuole concentrare il suo interesse su Pietro. Ma ci stupiscono anche quegli interpreti che dicono: «Ma perché gli altri apostoli non hanno ricostituito il numero di “Dodici” come si è fatto all’inizio». Il motivo è molto semplice: il valore dei Dodici sta nel loro essere testimoni oculari di tutta l’esistenza del Gesù terreno. Essi soli ci hanno lasciato la “Tradizione Apostolica”. Non ce ne possono essere altri. Sono irripetibili.
Torniamo al testo. Subito dopo l’uccisione di Giacomo “Erode vedendo che ciò era gradito ai Giudei decise di arrestare Pietro. Erano i giorni degli azzimi. Perciò lo catturò e lo gettò in prigione, custodito da quattro picchetti di quattro soldati ciascuno, col proposito di farlo comparire davanti al popolo dopo Pasqua”. Sedici soldati per custodire un prigioniero. Forse Erode sapeva che Pietro e gli altri apostoli erano già stati liberati dal carcere da un potere misterioso (5,17-21) e volle premunirsi. La sua intenzione era di imitare Pilato che aveva presentato Gesù alla gente e poi fatto uccidere. Così voleva fare con Pietro. Ma al suo potere si opponeva un altro potere: “La preghiera della Chiesa saliva incessantemente a Dio”. Già sappiamo di chi sarà la vittoria.

La liberazione di Pietro (12,6-19)

È un racconto fantastico, un racconto in cui Luca parla dell’agire di Dio. Perciò un racconto che dev’essere letto con fede. L’antica espressione “Angelo di Dio” indica la continua e potente presenza di Dio nella storia. Quello che avviene ha un prima e un dopo e perciò è un evento storico. L’autore però è Dio e il suo agire può essere colto solo nella fede, e poi espresso con le nostre limitate parole umane. Di qui il senso del drammatico che Luca dà al suo racconto. Egli cerca di mettere in risalto tanti piccoli particolari che bene evidenziano la bontà di Dio verso il suo apostolo: “Una luce sfolgorò nella cella... e l’Angelo disse a Pietro: «Alzati, cingiti i fianchi e mettiti i sandali; avvolgiti nel mantello e seguimi»... A Pietro gli sembrava tutto un sogno... Passarono tra il primo gruppo di guardia e poi tra il secondo e giunsero alla grande porta di ferro che automaticamente si aprì”. E le guardie? Con la cella piena di luce è impossibile pensare che non si accorgessero di nulla. Erano tutte sveglie, ma erano lì esterrefatte e incapaci di agire. Pietro continua a seguire l’angelo che lo conduce fuori e che, appena arrivano in una strada deserta, scompare. Allora capì che non si trattava di un sogno, ma che il Signore lo aveva liberato. Nell’agire dell’angelo Pietro scopre la presenza del Signore.
Anche la scena seguente (vv. 12-17) è molto bella. “Pietro va alla casa di Maria, madre di Giovanni, detto anche Marco, e bussò alla porta”. Lo sentì una fanciulla di nome Rode. Corse alla porta e appena udì la voce di Pietro, tutta gioiosa tornò indietro a dire a tutti che alla porta c’era Pietro. Pensarono che vaneggiasse. Ma Pietro continuava a bussare. Allora gli aprirono e vedendo che era proprio lui rimasero lì stupefatti. “Pietro fece segno di tacere. Poi raccontò come il Signore (non l’angelo) lo aveva tratto fuori dal carcere e aggiunse: «Riferite questo a Giacomo e ai fratelli». Poi uscì e si incamminò verso un altro luogo”.
Dove andò? Quante opinioni! Ma come si fa a inventarle se non ci sono dati? Forse l’unica risposta possibile è che ubbidì al Signore il quale aveva detto: “Se vi perseguitano in una città, fuggite in un’altra” (Mt 10,23). E probabilmente è questo che voleva dire a Giacomo e agli altri Apostoli (fratelli). L’ira di Erode infatti si stava scatenando: fece ricercare Pietro e uccidere le guardie della prigione.

La morte di Erode (12,20-23)

Luca si è trattenuto molto su Pietro, facendo così risaltare la continua presenza di Dio. Davvero Dio cammina con i suoi nella storia. E questo non si offusca se ora rapidamente narra la tragica morte del persecutore. Erode non essendo riuscito a mantenere la parola di presentare Pietro al popolo se ne andò a Cesarea dove riuscì a fare pace con quei di Tiro e Sidone. Poi vennero i giochi in onore di Cesare ed Erode volle presentarsi in tutta la gloria della sua onnipotenza. Flavio Giuseppe, che è forse la fonte di Luca, dice che “nel secondo giorno dello spettacolo Erode, rivestito di paramenti mirabilmente intessuti d’argento entrò all’alba nel teatro e i suoi abiti erano così raggianti alla luce del sole che incuteva timore e tremore in tutti coloro che lo guardavano” e quando poi si mise a parlare – dice Luca – “il popolo lo acclamava dicendo: «Parola di Dio, non di uomo»”. È la divinizzazione della creatura, “stanno adorando un uomo mortale invece di adorare il Dio glorioso e immortale” (Rm 1,23). E Dio li rifiuta: “improvvisamente un angelo di Dio lo colpì perché non aveva dato gloria a Dio, e roso dai vermi spirò”. È la distruzione di ogni idolatria e la condanna di ogni potere umano esercitato con senso di onnipotenza. Anche ai nostri giorni quanti onnipotenti sono svaniti nel nulla.
La conclusione (12.24s) è che, anche nella persecuzione, “l’annuncio della Parola continuava a crescere e a diffondersi sempre di più”. La Parola non è incatenata, non c’è potere umano che la possa fermare. Questo è l’insegnamento che Luca trae da tutto ciò che è avvenuto nell’anno 44. Poi, riprendendo il racconto sospeso in 11,30, dice: “Barnaba e Saulo, compiuta la loro missione a Gerusalemme, tornarono ad Antiochia conducendo con loro Giovanni, soprannominato Marco”. Sono i personaggi che domineranno le pagine seguenti. La meditazione su di esse ha lo scopo di infondere nel lettore il vero senso missionario della propria vita. Infatti non c’è vera gioia, la nostra vita cristiana non trova in sé il suo vero senso, se in noi manca il desiderio di donare ad altri la nostra fede.

Preghiamo

Signore Gesù, donaci di vivere come i cristiani di Antiochia il senso della tua presenza in mezzo a noi. Donaci la gioia dell’annuncio della nostra fede in te, unico Signore, e fa’ che tu sia l’unico oggetto della nostra catechesi. Noi vogliamo farti conoscere, Gesù, e lo vogliamo fare testimoniandoti come colui che dà senso alla nostra vita, perché anche altri trovino in te il senso della loro esistenza. Un’altra cosa abbiamo ancora imparato da quei cristiani: il senso della comunione tra i cristiani, una comunione che sa andare sempre oltre la propria comunità per vivere la comunione dell’unica e indivisibile Chiesa. Facci sentire, o Signore, che la Chiesa è una, perché sappiamo quant’è orribile il peccato della divisione e ci impegniamo a costruire quell’unità che tu vuoi. Solo vivendo questi ideali potremo davvero sperimentare quanto è bello essere cristiani. Amen.

                                                                                             Mario Galizzi SDB


RIVISTA MARIA AUSILIATRICE 2004-7
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