CHIAMATI A FARE O A ESSERE?
Siamo stati abituati – quando parliamo di vocazione e di vocazioni – a riflettere su quelle parole che Gesù ha pronunciato, contemplando l’immensa folla che lo seguiva e che egli voleva evangelizzare: “La messe è molta ma gli operai sono pochi; pregate il padrone della messe perché mandi operai alla sua messe” (Mt 9,37-38).
L’invito quasi angosciante di Gesù è giusto e legittimo:
se non ci fossero stati gli apostoli e i primi evangelizzatori,
il Vangelo non si sarebbe diffuso e gli uomini non sarebbero stati salvati.
Ma questo invito pressante di Gesù va interpretato alla luce di altre parole del vangelo, relative a quando Gesù scelse i Dodici: “perché stessero con lui e per mandarli a predicare” (Mc 3,14).
Gesù è stato il primo predicatore, ma per avviare gli apostoli alla predicazione ha dovuto formarli interiormente, infondere nei loro cuori lo stesso calore di amore che c’era nel suo cuore!
Per questo non era sufficiente che Gesù insegnasse agli Apostoli che cosa dire e come parlare; era necessario prima di tutto trasformare il loro cuore, fare loro le confidenze divine, rivelando l’amore infinito di Cristo. Ecco perché Gesù si è preoccupato che gli apostoli “stessero con lui”: solo vivendogli insieme avrebbero potuto comprendere l’origine divina della sua vita e della sua dottrina.
“Stare con Gesù”: è il primo passo della risposta alla chiamata, alla vocazione. Stare con Gesù per capirlo, per coglierne i sentimenti più profondi, per sentirsi amati; non solo, ma stare insieme a Gesù “con gli altri apostoli”, formare una vera comunità, una famiglia che vivesse insieme l’esperienza della familiarità con Gesù.
E perché? Perché l’evangelizzazione, la missione non è una semplice trasmissione di insegnamenti e di dottrine, ma è una comunicazione di vita, di vita divina, soprannaturale. E non si può dare e fare qualcosa, se prima non la si vive, e non la si vive “insieme con altri”.
Non per nulla Gesù, prima di avviarsi alla passione, ha pregato il Padre perché i suoi discepoli – e qui siamo inclusi anche tutti noi – fossero “una cosa sola”. Questa preghiera, nel breve cap. 17 del vangelo di Giovanni, è ripetuta ben cinque volte e quasi sempre è accompagnata dalle parole: “Come tu, Padre, e io siamo una cosa sola”. E Gesù ha pure aggiunto: “... affinché il mondo creda che Tu mi hai mandato”.
Dunque, la missione funziona, se i discepoli sono uniti. Prima si è, e poi si fa!
Le conseguenze pratiche che derivano da questa riflessione, quali sono?
La prima è che noi siamo chiamati non ad andare subito a parlare di gesù, ma a fermarci, a stare con lui, a vivere la stupenda comunione di fede e di amore con lui e – contemporaneamente – fra noi. Questo comporta che noi impariamo a “stare con gesù”, ad ascoltarlo, a contemplarlo. La preghiera contemplativa è andata troppo in disuso ed è questa una delle cause della sterilità della nostra pastorale.
La seconda conseguenza riguarda la vita delle nostre comunità, troppo spesso ridotta ai momenti della Messa domenicale o delle riunioni del consiglio pastorale o di qualche gruppo parrocchiale. La vita della comunità è un aprirsi a tutti i fratelli, un coinvolgere tutti, bambini e anziani, ricchi e poveri, operai e intellettuali, sani e malati nel cammino cristiano. Stare insieme, e stare insieme con Gesù, è una testimonianza straordinaria della Vita Trinitaria, dell’Amore che fa dei Tre un Dio solo!
La terza conseguenza la troviamo... – sembra strano! – nel silenzio dei nostri cuori. Siamo troppo abituati ad agire, a partire sicuri, a parlare, a scrivere, a pubblicare. Penso proprio che Gesù e i Dodici abbiano avuto anche momenti di silenzio e di solitudine. È ancora Gesù che parla agli apostoli: “venite in disparte, voi soli, in un luogo solitario e riposatevi un po’” (Mc 6,31).
In una società tutta impregnata di comunicazione multimediale, dove le persone si sentono terribilmente sole e incapaci di comunicare, il silenzio diventa la condizione indispensabile perché i cuori si aprano al dialogo e alla confidenza.
Nelle città, dove anche solo le strade sono diventate corride di velocità, di tensione e di irritazione, il bisogno di ritrovare pace e di potere approfondire i propri problemi è assoluto e indispensabile.
Nelle famiglie, dove le relazioni affettive sono sovente soffocate da tensioni, da discussioni, e disturbate da ciò che vi entra attraverso la televisione e internet, si sente il bisogno di riscoprire i rapporti fraterni e di aprirsi a Dio nell’ascolto della sua Parola.
Nel profondo delle nostre coscienze abbiamo bisogno di riscoprire la gioia di essere, prima del dovere di agire. Se l’agire ci porta fuori di noi, è un agire maledetto. O l’agire – infatti – è
il frutto, l’espressione e la fioritura del nostro pensiero e del nostro amore, oppure è da buttare: è puro attivismo.
La prima vocazione che Dio ci offre, la prima chiamata che fa risuonare nei nostri cuori è di essere, di amare, di sperare, di tacere, di contemplare, di ascoltare. Se sappiamo essere così, potremo fare tutto, e faremo tutto bene.
Come Gesù, che ha svelato agli apostoli ciò che ha udito dal Padre e che ha sempre operato contemplando l’operare del Padre! (Gv 5,19; 15,15).
                                                      
  Don Rodolfo Reviglio

RIVISTA MARIA AUSILIATRICE 2001-11
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