IL SECOLO DEI MARTIRI

Per chiarire il senso del martirio cristiano e l’ampiezza delle persecuzioni sofferte dalla Chiesa, riportiamo la seconda parte dell’editoriale di La Civiltà Cattolica del 15 luglio 2000, ringraziando per la gentile concessione.


Il secolo XX, più di altre epoche della storia della Chiesa, può essere qualificato come “il secolo dei martiri”, tanto grande è stato il numero dei cristiani di ogni condizione che hanno sofferto per la fede cristiana fino ad andare incontro alla morte.
I primi martiri del XX secolo si ebbero nella Cina da parte dei Boxer, una setta xenofoba e anticristiana: furono uccisi 180 missionari e circa 40.000 cristiani. Dal 1894 al 1918 i turchi massacrarono circa due milioni di cristiani armeni. Negli anni Venti una violenta persecuzione contro la Chiesa fu scatenata nel Messico dai Governi anticlericali del generale Obregón e di P. E. Calles: il martire più noto fu il gesuita Miguel Augustín Pro, fucilato il 23 novembre 1927, ma le persone uccise furono circa 200. Negli anni Trenta, durante la guerra civile spagnola furono ferocemente torturati e uccisi 13 vescovi, circa 7.000 sacerdoti, religiosi e religiose e 3.000 laici, uomini e donne, appartenenti all’Azione Cattolica, da parte dei comunisti, degli anarchici e degli anticlericali antifranchisti.
Ma il più grande numero di martiri del secolo XX si ebbe nell’Unione Sovietica e nei Paesi conquistati durante e dopo la seconda guerra mondiale dall’Armata Rossa: appena N. Lenin ebbe consolidato il suo potere, egli, che si dichiarava “nemico personale di Dio”, diede un ordine segreto di sterminare la Chiesa russa, uccidendo il più grande numero di uomini di Chiesa. Così nel 1922 furono martirizzati 2.691 popi, 1.692 monaci, 3.477 religiose e la maggior parte dei vescovi fu uccisa, chiusa in carcere o inviata nei campi di concentramento. La persecuzione continuò con crescente ferocia sotto Stalin e anche sotto Krusciov. Dopo la guerra fu la volta della Chiesa cattolica: le comunità cattoliche uniate dell’Ucraina e di altri Paesi furono sterminate; tutti i vescovi furono uccisi o inviati nei campi di concentramento. Nei Paesi cattolici, entrati nell’orbita sovietica, la persecuzione, violentissima, fece un numero incalcolabile di martiri. Particolarmente feroce fu la persecuzione comunista in Albania, che venne dichiarata da E. Hoxha il primo Stato ateo del mondo. Al di fuori dell’Europa, la Chiesa fu perseguitata in tutti i Paesi retti da regimi comunisti: Vietnam del Nord, Laos, Cambogia, e soprattutto Cina.
Se il comunismo del secolo XX si è proposto la distruzione della “superstizione religiosa”, il nazionalsocialismo del III Reich ha preteso di imporre un’ideologia neopagana e radicalmente anticristiana, fondata sulla superiorità della razza ariana e sull’eliminazione violenta delle razze inferiori, in primo luogo la razza ebraica, un’ideologia che nessun cristiano poteva accettare: di qui l’odio nazista per la Chiesa e per i cristiani – sacerdoti, religiosi e laici – molti dei quali furono chiusi nei campi di concentramento e alcuni di essi morirono per le torture e per le orribili condizioni di vita dei Lager.
Nella seconda metà del secolo XX un numero considerevole di cristiani ha trovato la morte sia nelle lotte politiche e tribali in Africa, sia per la difesa dei diritti umani dei poveri nei Paesi dell’America Latina, dominati da dittature autoritarie: il nome più noto è quello di mons. Oscar A. Romero, vescovo di San Salvador, assassinato il 24 marzo 1980 mentre celebrava l’Eucaristia.
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Quando dunque, si considera la storia della Chiesa dalla sua nascita fino ad oggi, non si può non rilevare un fatto unico nella storia delle religioni: il fatto del martirio, presente in tutte le epoche della Chiesa, sia pure con diversa intensità. Che significa questo fatto? Notiamo, anzitutto, che esso realizza alcune parole dette da Gesù. Nel Vangelo secondo Matteo, Gesù annuncia ai suoi discepoli che essi saranno consegnati ai tribunali e condotti davanti ai governatori e ai re “per causa sua”, per dare testimonianza: “Sarete odiati da tutti a causa del mio nome” (Mt 10,22). E, nel Vangelo secondo Giovanni, Gesù dice ai discepoli: “Ricordatevi della parola che vi ho detto: un servo non è più grande del suo padrone. Se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi. Ma tutto questo vi faranno a causa del mio nome” (Gv 15,20-21). Il destino dei discepoli è dunque quello di Gesù: la persecuzione.
La presenza del martirio nella vita della Chiesa significa allora che, nonostante tutte le miserie e debolezze, la Chiesa è la Chiesa di Gesù Cristo: il martirio è cioè un argomento a favore della perennità storica della Chiesa. Significa ancora che la Chiesa continua nella storia umana la missione di Gesù, che non fu soltanto quella di annunciare il regno di Dio e chiamare gli uomini alla conversione, ma anche quella di soffrire e morire sulla croce per la salvezza del mondo. In realtà i martiri hanno la coscienza di seguire Gesù, di portare la croce come lui, di continuare la sua passione per la salvezza degli uomini. Essi sentono che il martirio è un privilegio, perché li mette in comunione intima con il loro Signore crocifisso. Perciò negli Atti dei martiri si legge spesso che la risposta che essi danno a chi li ha condannati a morte è: Deo gratias (Atti proconsolari del martirio di san Cipriano vescovo 3-6 [CSEL, 3, 112-114]). Anzi i martiri hanno la convinzione che Cristo stesso soffra e trionfi in loro: una convinzione che è sottolineata nelle relazioni del Martirio di Policarpo (2,2) e nella Passione di Perpetua a Felicita (18).
Rileviamo in secondo luogo che il martirio è una confessione di fede, cioè una testimonianza resa a Gesù Cristo non con le parole, ma con i fatti, soffrendo e morendo per causa sua: questo significa che il martire intende affermare nella maniera più seria e più convincente che Gesù Cristo è il Figlio di Dio, che questa è la sua fede e che per questa sua fede egli accetta le sofferenze più atroci e le forme più orribili di morte. Ma questa confessione di fede non è un fatto soltanto personale; egli infatti affronta il martirio come “cristiano”, cioè come membro della Chiesa, di cui egli vuole testimoniare la fede. Perciò il martirio è sempre un fatto ecclesiale. È tutta la Chiesa che nella persona del martire confessa la sua fede in Gesù Cristo, nella maniera più concreta possibile. Lo notava, dopo sant’Agostino (Enarr. in Ps. 118, 30, 5), B. Pascal, sottolineando il legame spirituale tra i martiri e gli altri cristiani: “L’esempio della morte dei martiri ci commuove (nous touche), perché essi sono nostri membri. Noi abbiamo un legame con loro; la loro risolutezza può formare la nostra, non soltanto con l’esempio, ma perché forse essa ha meritato la nostra” (Pensée, ed. Brunschvicg, n. 481).
Infatti questa confessione di fede fatta dal martire deve anzitutto essere di esempio e di incoraggiamento agli altri cristiani, affinché affrontino con coraggio il “buon combattimento della fede” (1 Tm 6,12), confermando la loro fedeltà al Vangelo e superando le difficoltà che incontra il professarsi cristiano e, soprattutto, il vivere da cristiano, sia nelle circostanze normali della vita, sia nei momenti difficili che ogni vita cristiana seriamente vissuta necessariamente comporta. Ecco perché Dio non fa mai mancare alla Chiesa i martiri.
Ma il martirio deve anche porre un problema a quelli che non sono cristiani. Dinanzi al fatto del numero incalcolabile dei martiri cristiani, ma soprattutto dinanzi al modo in cui i martiri affrontano le torture e la morte – con coraggio, con gioia, talvolta persino con umorismo (è il caso di Thomas More), sempre perdonando coloro che sono stati causa della loro morte e pregando per loro – non ci si può non chiedere da dove essi attingano tanta serenità e tanto coraggio. Infatti i martiri cristiani non sono né eroi né professano l’ataraxia stoica dinanzi alla morte, ma sono deboli creature, talvolta assai giovani. Già Tertulliano si poneva questo problema scrivendo: “Chi dunque, dinanzi allo spettacolo dato dai martiri, non si sente scosso e non cerca ciò che è al fondo di questo mistero? Chi dunque l’ha cercato senza unirsi a noi?” (Apol. 50,15).
San Giustino confessa di essersi convertito al cristianesimo vedendo il coraggio dei martiri: “Vedendoli intrepidi di fronte alla morte, io compresi che era impossibile che essi vivessero nel vizio e nell’amore dei piaceri” (Apologia II, 12). Del resto era quanto avveniva nei primi tempi del cristianesimo, come notano Tertulliano e l’autore della Lettera a Diogneto: “Plures efficimur quotiens metimur a vobis: semen est sanguis christianorum” (Diventiamo più numerosi ogni volta che siamo falciati
[= trucidati] da voi: il sangue dei cristiani è un seme) (Apol. 50, 13; Ad Diogn. 7,5-9).
Rileviamo un terzo luogo che per il martire la fede in Cristo e l’amore a Cristo sono i valori più alti e assoluti della sua esistenza, tanto che per non rinnegarli egli è pronto a morire. Non bisogna, infatti, dimenticare che il più delle volte il martire è posto dinanzi all’alternativa di rinnegare la fede in Cristo e l’amore a Cristo o di essere torturato e ucciso. Negli Atti del martirio di san Giustino si racconta che il prefetto Rustico pone Giustino e i suoi compagni dinanzi all’alternativa: sacrificare agli dèi o essere torturati e decapitati. Giustino per primo rifiuta di sacrificare. Altrettanto dissero tutti gli altri martiri: “Fa’ quello che vuoi; noi siamo cristiani e non sacrifichiamo agli idoli”. La condanna è la decapitazione “a norma di legge” (PG 6, 1366-1371).
Questa decisione dei martiri di morire piuttosto che rinnegare la loro fede e il loro amore a Cristo è follia agli occhi umani. Tale – lo si è ricordato – la considerava un uomo di grande levatura morale, l’imperatore Marco Aurelio. Ma può anche far riflettere sul valore della fede, tanto grande che ad essa si sacrifica la vita. Scrive B. Pascal: “Credo soltanto alle storie i cui testimoni si farebbero sgozzare” (Pensées, ed. Brunschvicg, n. 593). In altre parole, se per i cristiani la fede è un valore tanto grande che per essa si è pronti a morire, ciò non può far riflettere sulla possibile verità del cristianesimo. Non si sacrifica la vita per un’illusione o per una favola, quando a sacrificarla non sono degli illusi e dei fanatici, ma persone normali, ragionevoli, di alta levatura morale e spesso anche di alta cultura e di sano giudizio.
Il 7 maggio 2000, Giovanni Paolo II, in una cerimonia ecumenica al Colosseo (cf Civ. Catt. 2000 II 598-607), ha voluto che la Chiesa – non soltanto la Chiesa cattolica, ma anche le altre Chiese e Comunioni cristiane – ricordasse che il martirio è una realtà che fa parte della natura della Chiesa stessa e che il secolo XX è stato, più di altre epoche, “il secolo dei martiri”. In tal modo egli ha voluto dare un “segno”, sia ai cristiani, sia ai non cristiani e ai non credenti, per invitarli a riflettere non soltanto sulla tragica realtà del martirio – per il secolo XX sono stati fatti 12.692 nomi, di cui 2.351 di laici, 5.353 di sacerdoti e seminaristi, 4.872 di religiosi e religiose e 126 sono di vescovi – ma sul significato che il martirio ha per la vita dei cristiani e anche per coloro che non sono cristiani, ma che tuttavia hanno il culto dei valori che rendono la vita degna di essere vissuta e, se è necessario, donata. In altre parole, il martirio non potrebbe essere una testimonianza resa alla Verità, che nella storia umana continua quella che Gesù rese di fronte a Pilato: “Per questo io sono venuto nel mondo: per rendere testimonianza alla Verità. Chiunque è dalla Verità, ascolta la mia voce» (Gv 18,37)?

                                                                   
     La Civiltà Cattolica


IMMAGINI: 1 Giovanni Paolo II nella annuale Via Crucis al Colosseo
               2 Celebrazione ecumenica al Colosseo (7 maggio 2000)
RIVISTA MARIA AUSILIATRICE 2000-9
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