GESU' a mensa del fariseo Simone


Certamente anche Gesù a volte si è seduto da solo a mensa. Questo però non interessa agli evangelisti. A loro interessa Gesù che sa rendersi commensale o che invita alla sua mensa. Osservando infatti Gesù a mensa con altri, i primi discepoli hanno imparato che per imitarlo debbono essere costruttori di comunità, cioè vivere in pienezza la fraternità. Tale è l’insegnamento che sgorga dal capitolo 14 di Luca, e anche dal capitolo 15 che mediteremo nel prossimo articolo.
La liturgia legge il capitolo 14 in due diverse domeniche, ma lo fa saltando i vv. 2-6 e 15-24. Se però vogliamo capire bene l’insegnamento di Gesù, conviene leggersi prima l’intero capitolo. Questo ci permette di valutare le nostre prime impressioni di fronte al testo e, poi, di passare a una più approfondita meditazione.
L’inizio è significativo: “Un sabato Gesù fu invitato a pranzo in casa di un capo dei farisei ed essi stavano a osservarlo” (v. 1). Segue la guarigione di un ammalato (vv. 2-6), poi si parla di Gesù che insegna agli invitati un po’ di buone maniere (vv. 7-14), quindi si narra la Parabola del grande Banchetto (vv. 15-24); infine Gesù parla delle condizioni per essere suo discepolo (vv. 25-35). Tutto il racconto, però, si sviluppa nell’ottica di un banchetto, che non si fa mai da soli. Ma, quando lo si fa con altri, ci si sente davvero fratelli? Questa la problematica che possiamo capire soltanto se prima ci chiediamo

Come si rivela Gesù?

Gesù accoglie l’invito a pranzo, ma appena giunge nella casa del fariseo si accorge che gli hanno teso un tranello: “davanti a lui vi era un uomo malato di idropisia e i farisei stavano a osservarlo”; si intende: per vedere se osava guarirlo in giorno di sabato (vedi 6,6-7). Ora, come reagisce Gesù? Come uno che cerca il bene di tutti, anche di chi gli ha teso un tranello. Innanzitutto guarda l’ammalato e lo vede come una persona bisognosa di aiuto. Perciò è logico che egli cerchi di rendersi prossimo1. Per gli altri invece quell’ammalato non è una persona, è solo una pedina che essi muovono a piacimento per incastrare Gesù. Gesù li guarda e come sempre cerca il dialogo (vedi caso simile in 6,6-11). Ciò significa che li ama e che cerca un possibile incontro. E lo fa chiedendo se “è lecito o no guarire in giorno di sabato. Ma essi tacquero”. Non accettano il dialogo. E Gesù reagisce guarendo l’ammalato e poi spiegando perché lo ha guarito in giorno di festa. Egli vuole semplicemente che trattino quell’uomo almeno come essi trattano i loro animali. Gesù non vuole che si strumentalizzi una persona umana. Caso storicamente chiuso, ma non per chi ascolta oggi la “Parola”.
Ci si mette a tavola (v. 7), e qui Gesù si accorge che gli invitati non agiscono da fratelli: c’è la corsa ai primi posti. Perciò denuncia l’arrivismo, il carrierismo, la scalata ai primi posti della società e prospetta una comunità in cui ognuno si preoccupa degli altri (vedi Fil 2,3-4), in cui tutti si sentano di casa e trattati alla pari.
Poi osserva gli invitati: appartengono tutti a una certa categoria di persone. Egli, che si sedeva a mensa anche con gli esattori delle tasse (detti “pubblicani” o “peccatori”; vedi 5,27-32), non proibisce di banchettare con gli amici, però dice a chi lo ha invitato: “Quando offri un banchetto non invitare solo i tuoi amici, i tuoi fratelli, i tuoi parenti, i ricchi, ma invita anche i poveri, gli storpi, gli zoppi, i ciechi e sarai beato” (v. 13-14). Appena udì ciò un invitato capì che Gesù stava parlando del regno di Dio e disse: “Beato chi prenderà cibo nel regno di Dio” (v. 15).
L’immagine di Gesù ora è perfetta. Gesù vive sempre in pieno la sua missione: affratellare tutti e finirla di dare peso a ciò che ci divide nella società, perché ogni persona si senta di casa, parte della stessa famiglia, della “sua famiglia”; con parole nostre: della “sua Chiesa”. E noi già sappiamo come si forma questa sua famiglia. Gesù infatti ha detto: “Mia madre e i miei fratelli sono coloro che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica” (8,21). E per spiegarsi meglio, racconta la Parabola del grande Banchetto (vv. 16-24); ce n’è a sufficienza per confrontarsi con Gesù.
Prima, però, osserviamo come in questo racconto si rivela Gesù. È lui “il servo” che porta a tutti l’invito a entrare nella sala del banchetto e la sua parola continua a riecheggiare nel mondo come un invito alla salvezza. Tutti sono invitati, però ognuno deve personalmente scegliere se accettare o no. La predicazione del Vangelo è uno sforzo per “convincere tutti a entrare”, senza costrizione alcuna2. E si aggiunge: “Perché la mia casa si riempia”. L’affermazione dice che Gesù vive la certezza della speranza. Sa che riuscirà a portare a termine la sua missione. Solo chi non si ricrede e rifiuta sino alla fine “non entrerà”.

Gesù e noi comunità cristiana

Tutti sono invitati a sedersi alla stessa mensa, a fare comunione, a esprimere nei loro gesti l’universale fraternità. Ma la parola di colui che invita a mensa non è accolta da tutti. Ci sono coloro che ascoltano la “Parola” che annuncia la salvezza, ma questa parola, seminata nel loro cuore, è come il seme caduto tra le spine; e le spine (solo Gesù poteva inventare questo, perché urta la perenne cultura umana) rappresentano le preoccupazioni, le ricchezze e i piaceri della vita (vedi 8,14) che soffocano la parola seminata nel cuore. È per motivi di interessi materiali che alcuni non accettano (vv. 18-19), ma forse c’è anche un altro motivo: accettare di formare parte della famiglia di Gesù significa sedersi a mensa con i poveri, gli storpi, i ciechi e gli zoppi, cioè con coloro, che secondo il parlare comune, non contano nella società. Ebbene, essi non vogliono accogliere quel principio che guida la vita della “famiglia di Gesù”, cioè di coloro che ascoltano la sua parola e la mettono in pratica. Gesù ha detto: “Nessuno di voi si faccia chiamare «Rabbì» o «Padre» o «Maestro», perché voi siete tutti fratelli. E chi tra voi è più grande sarà vostro servo” (vedi Mt 23,8-11). Ora, quando si fa forza su ciò che ci distingue dagli altri, è impossibile fare comunità, è impossibile vivere da veri fratelli. Ognuno ha il suo compito nella comunità cristiana, ma nessuno ha il diritto di guardare gli altri dall’alto in basso. Per noi cristiani tutti sono “fratelli e sorelle”, perché la vita cristiana è imitazione di Gesù, che non si vergogna di chiamarsi “fratello” e che si è fatto “servo” in mezzo a noi (Lc 22,27). Lui, il Signore si è fatto “servo”; ha “lavato i piedi” dei suoi discepoli (vedi Gv 13,14-15).
Gesù insegna che nella “sua famiglia” tutti debbono sentirsi parte viva della comunità, partecipi della vita della famiglia di Dio. Per questo è necessario essere “testimoni dell’Amore”. L’ultima espressione è il titolo del IV capitolo della Lettera Apostolica “Novo Millennio Ineunte” di Giovanni Paolo II (giorno dell’Epifania 2000). È un capitolo in cui dalla contemplazione del volto di Cristo si passa a contemplare il suo volto in ogni persona umana; “per fare – dice il Papa – della Chiesa la casa e la scuola della comunione”. E continua dicendo: “Questa è la grande sfida che ci sta davanti nel millennio che inizia, se vogliamo essere fedeli al disegno di Dio e alle attese profonde del mondo” (n. 43).
Ora, “fare comunione” – dice sempre il Papa – significa “saper «fare spazio» al fratello portando «i pesi gli uni degli altri» (Gal 6,2), respingendo le tentazioni egoistiche che continuamente ci insidiano e generano competizione, carrierismo, diffidenza e gelosie. Non ci facciamo illusioni: senza questo cammino spirituale, a ben poco servirebbero gli strumenti esteriori della comunione. Diventerebbero apparati senz’anima, maschere di comunione più che sue vie di espressione e di crescita” (n. 43). “Fare comunione” significa instaurare a ogni livello della comunità ecclesiale un senso di dialogo e di ascolto tra tutti; soprattutto tra pastori e fedeli. A questo proposito Giovanni Paolo II dice: “Significativo ciò che San Benedetto ricorda all’Abate del monastero, nell’invitarlo a consultare anche i giovani: «Spesso ad uno più giovane il Signore ispira un parere migliore». E San Paolino da Nola esorta: «Pendiamo dalla bocca di tutti i fedeli, perché in ogni fedele soffia lo Spirito di Dio»” (n. 45).
Siamo di fronte a una dolce realtà: la Chiesa oggi – e per “Chiesa” intendiamo l’intera comunità dei credenti in Cristo – è in attento ascolto della pagina evangelica che abbiamo scelto come meditazone e c’è in essa un desiderio di viverla sino in fondo, un desiderio di fare fruttificare la “Parola” che è stata seminata in noi, un desiderio di “purificare la memoria” da un passato di vita ecclesiale non sempre conforme al Vangelo e di tentare finalmente la vera via evangelica, l’unica che davvero ci mette in grado di costruire un mondo di pace. Di qui la scelta a cui ci chiama Gesù.
Dopo il racconto della parabola, come dopo il primo annuncio di passione (9,23-24) e sulla linea di quanto ha detto a chi voleva seguirlo o a chi egli invitava a seguirlo sulla strada di Gerusalemme (9,57-62), Gesù dice: “Chi non mi ama più di3 suo padre, di sua madre... chi non porta la sua croce... chi non è disposto a perdere tutti i suoi beni... non può essere mio discepolo”. Non c’è bisogno di dilungarsi nella spiegazione. Il contesto della comunità di Luca è un contesto di persecuzione. Ebbene, il discepolo, se vuole continuare a seguire Gesù dev’essere disposto a mettere la fedeltà a Gesù al di sopra di ogni vincolo di sangue, disposto anche a “perdere” la propria vita e anche tutto ciò che possiede, perché la fedeltà a Gesù e al Vangelo è per lui il bene supremo. Il Papa commenta così il “portare la croce”: “Il cristiano non ricerca la sofferenza, ma l’amore. E la croce accolta diviene il segno dell’amore e del dono totale. Portarla dietro a Cristo vuol dire unirsi a lui nell’offrire la prova massima dell’amore”4.

Pregando il testo

Signore Gesù, è la terza volta che ci metti di fronte a scelte ben precise (vedi 9,23-24.57-62), e la seconda volta (prima volta in 9,57ss) che ci inviti a ponderare bene se vale la pena o no. Ci hai pure già parlato delle relazioni con le persone più care e ci hai detto senza mezzi termini che il seguirti fino in fondo può a volte comportare duri contrasti con i propri familiari (vedi 12,51-53). E tu ne hai avuto l’esperienza quando ti fecero sapere che “tua madre e i tuoi fratelli volevano vederti”. Ebbene, tu, prendendo le distanze dai vincoli di sangue, hai risposto: “Mia madre e i miei fratelli sono coloro che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica” (8,19-21). Quel giorno anche tua madre ha dovuto fare la scelta di diventare sempre di più “discepola della Parola” per essere partecipe della tua nuova famiglia. Tu hai saputo “perdere la tua vita” e hai vissuto il totale distacco da ogni ricchezza per compiere la tua missione sino in fondo.
E oggi è a me e ai miei fratelli nella fede che esigi una scelta chiara e definitiva per te; tu ci vuoi come te, “pietra angolare” della tua Chiesa, costruttori di comunità, di fraternità, perché vuoi, come ce lo ha ricordato il tuo Vicario sulla terra che la tua Chiesa sia “casa e scuola di comunione”. Ci offri ideali immensi, Gesù! Ideali che impegnano l’intera nostra esistenza; ci chiami ad abbattere ogni frontiera, perché il mondo intero diventi una famiglia e si sieda alla stessa mensa, come il tuo profeta Isaia lo aveva preannunciato (Is 2,2-5).
Signore Gesù non oso dirti che non ho le forze, perché so che mi rispondi: “Mettiti accanto a me e in sintonia con me osserva ogni persona che incontri; solo così sentirai che, come me, devi farti dono a tutti sino all’effusione del sangue. E non aver paura, perché io sarò con te con la potenza del mio Spirito. Guarda i «testimoni della fede» che ti hanno preceduto nei secoli, e sentirai che anche tu ce la puoi fare”.
Signore Gesù, è bello essere cristiano! Solo così sono sicuro di realizzarmi pienamente co-
me persona umana, ma soprattutto come “figlio di Dio”. Grazie, Signore Gesù! Donami ogni giorno il coraggio della fedeltà. Amen!

                                                                                   Mario Galizzi SDB


1 Vedi articolo del mese di giugno: È Gesù il Buon Samaritano.
2 Il verbo greco del v. 23, di solito tradotto con “costringere”, significa indurre qualcuno a qualcosa, forzare, ecc... secondo una gradazione di senso che va da una pressione amichevole a una coercizione. Nell’ottica biblica di un Dio rispettoso della libertà, la coercizione è inammissibile. Vedi caso simile per il verbo “deve”, che abbiamo spiegato nell’articolo del mese di maggio: Gesù in cammino. Perciò lo traduciamo con il verbo “convincere”.
3 Non ce la sentiamo di tradurre, come fa la maggioranza dei traduttori: “chi non odia...”. Gesù che ci insegna ad “amare i nemici”, non può dirci di “odiare gli esseri più cari e persino la nostra vita”. Matteo in 10,37, traducendo meglio il soggiacente ebraico o aramaico usato da Gesù, dice: “chi ama suo padre... più di me non è degno di me”. Luca usa quel verbo che di solito si traduce “odiare”, ma non penso che gli ha dato il forte senso che gli diamo noi. La Nuova Traduzione CEI, nel testo usa “odiare” e in nota dice: “Il senso è: «Chi non mi preferisca a suo padre, ecc.»”. Se questo è il senso perché non metterlo nel testo?
4 Messaggio di Giovanni Paolo II per la XVI Giornata mondiale della Gioventù, n. 5 (OR ed. settimanale, 23-02-2001, pag. 9).


IMMAGINI:
1 Gesù a mensa del fariseo - Diagroup - foto di G. Pera. ELLEDICI TORINO-LEUMANN /
2 MORETTO : Gesù a casa del fariseo - Santa Maria in Calchera
RIVISTA MARIA AUSILIATRICE 2001-8
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