IL CRISTIANO E IL DONO DI PIETA'


Dopo aver esaminato il dono del Timore di Dio e aver capito che, inteso come timore filiale, ci aiuta a vincere ogni forma di superbia per aprirci mediante l’umiltà a una sempre maggiore confidenza con il Padre, ora, meditando sul dono di Pietà, entreremo ancor più profondamente nella nostra vita di intimità e di profonda relazione filiale con Dio-Padre.
Innanzitutto i due doni: timore e pietà, traducono la stessa parola ebraica e perciò sono intimamente uniti e cercano, evidenziando due sfumature diverse del termine, di esprimere tutta la ricchezza che il vocabolo ebraico esprime (vedi articolo del mese di marzo). Nel timore infatti si parla in genere della relazione verso Dio e dal timore filiale nasce l’orrore al peccato e un impegno a evitare il male, mentre discorrendo sul dono di pietà parleremo pure di quell’onore e riverenza resa a Dio che si esprime in atti di culto; inoltre da questo atteggiamento verso Dio ci si sente anche portati a parlare della relazione verso i fratelli, ma sempre con lo scopo di venerare, onorare e adorare Dio. «Lo Spirito Santo, infatti, con il dono di pietà, guarisce il nostro cuore da ogni forma di durezza e apre alla tenerezza affettiva verso Dio e verso gli altri facendolo divenire sorgente di amore universale» (Drago, p. 100).

Innanzitutto Dio

Il termine, usato dalla prima Bibbia Greca, per parlare del dono di pietà vuole esprimere la correttezza delle nostre relazioni con Dio. Concretizzando, leggiamo il primo versetto del Salmo 63: «O Dio, tu sei il mio Dio, all’aurora ti cerco, di te ha sete l’anima mia, a te anela la mia carne, come terra deserta, arida, senz’acqua». Qui si esprime una relazione verso Dio colma di speranza, un desiderio così forte di lui che ci aiuta a camminare nella vita “nel nome del Signore”. Osservando poi alcune espressioni del salmo: lodare con le labbra, benedire, alzare le mani, si comprende che i sentimenti di onore, rispetto, venerazione verso Dio vengono espressi con atti di culto. Essi però sono sinceri soltanto se sono espressione esteriore di un atteggiamento interiore: penso a te nelle veglie notturne, a te si stringe l’anima mia, a te anela l’anima mia. È tutta la persona nei suoi gesti e sentimenti che è tesa verso Dio. Ma c’è di più: il nostro tendere verso Dio, il nostro vivere in Dio per essere sincero non può escludere il prossimo, tutti coloro che ci circondano. Lo dice assai bene il Salmo 15, dove ci si chiede: «Signore, chi abiterà nella tua tenda, chi dimorerà sul tuo santo monte?»; e si risponde: «Colui che cammina senza colpa e parla lealmente, colui che non fa danno al suo prossimo e non lancia insulto al suo vicino, ecc.».
La pietà come dono dello Spirito, è una forza divina che infonde nell’essere umano l’aiuto divino che sempre di nuovo ci rigenera e consola e ci dà la capacità di fare del bene a tutti, amici e nemici, e di farlo (e questo non può mai mancare) per rendere culto a Dio, o per usare una frase molto comune nella storia della Chiesa: per la maggior gloria di Dio. La convinzione è che Dio è Padre di tutti, che ama tutti come figli suoi per elargire a tutti la sua bontà e misericordia. Ebbene, il dono di pietà ci fa vivere gli stessi sentimenti del Padre verso tutti e ci infonde un vero senso di fraternità che penetra, per mezzo di colui che la vive in se stesso, nella società umana per trasformarla in tutti i suoi aspetti affinché tutti si amino davvero. Chi vive il dono di pietà diventa allora fonte di vita spirituale per gli altri e come Gesù, che cercava sempre la gloria del Padre, sente in sé un forte desiderio di condurre tutti a Dio e come Gesù di offrirsi in sacrificio al Padre.
Nella lettera agli Ebrei si legge la preghiera che il Figlio fece al Padre entrando nel mondo: «Tu non hai voluto né sacrificio, né offerta, un corpo invece mi hai preparato. Non hai gradito né olocausti né sacrifici per il peccato. Allora ho detto: “Ecco io vengo per fare, o Dio, la tua volontà”»; in altre parole: per offrire un sacrificio e te gradito (cf Eb 10,4-10). E Paolo dice a tutti i cristiani: «Vi esorto, fratelli, per la misericordia di Dio (mi piacerebbe tradurre: per l’affetto che Dio vi porta) a offrire voi stessi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio». Queste parole che iniziano il capitolo 12 della Lettera ai Romani è tutto centrato sul servizio del prossimo. Perciò è chiaro che ogni lavoro sociale, fatto con amore e con sacrificio per il bene della società, è un atto di “culto reso a Dio”.

Parliamo allora di “pietà” come dono di sé agli altri

Nel nostro donarci e sacrificarci per gli altri nell’assoluta gratuità, senza cercare gratificazioni di sorta (così visse Gesù), noi rendiamo a Dio il vero culto spirituale. Ed è in ciò che il dono di pietà manifesta in coloro che seguono Gesù tutta la sua vitalità. Non basta alzare le mani durante la preghiera, lodare esternamente il Signore con canti e inni spirituali, con l’arpa e la cetra; non basta. Se la nostra vita, i nostri pensieri, il nostro servizio non sono un canto di lode, frutto del sacrificio di noi stessi e della convinzione che davvero tutta la nostra speranza l’abbiamo posta nel Signore, a che cosa serve il culto esteriore? Se la nostra vita non è una liturgia vivente, a nulla valgono le liturgie sempre belle, meravigliose e piene di gioia che facciamo insieme. Se non lavoriamo per la maggior gloria di Dio, – dice un autore – sono una semplice alienazione spirituale. La religione cristiana è la religione del cuore. Il culto esterno ha valore solo quando procede da un cuore aperto alle stesso tempo a Dio e ai fratelli. L’Eucaristia, il massimo inno di lode e di ringraziamento a Dio, è questo: unione con il Signore e con i fratelli, fonte di comunione universale, non limitata all’atto di culto ma estesa a tutta la vita.
Non c’è separazione tra la vita religiosa che si svolge nelle celebrazioni liturgiche, e soprattutto nell’Eucaristia, e le altre manifestazioni della vita fuori dalla chiesa. Il lavoro materiale che facciamo per guadagnarci il pane quotidiano, se è un lavoro onesto e fatto bene, è un servizio alla società, è un atto di amore e di culto; e poi ritorniamo a pregare o ad ascoltare la Parola di Dio per vedere se tutto è stato fatto bene e per esortarci mutuamente a compiere il nostro servizio sociale, familiare, comunitario.
Un autore spiega tutto ciò con l’esempio della scala che Giacobbe vide in sogno: poggiava sulla terra mentre la sua cima raggiungeva il cielo e gli angeli di Dio salivano e scendevano su di essa. Salivano per adorare Dio e scendevano per il servizio degli uomini. Così è chi vive il dono di pietà: è un continuo incontro con Dio nella preghiera comunitaria e individuale e un continuo servizio del prossimo, tutto fatto per la maggior gloria di Dio. Quando Gesù dice che bisogna pregare sempre senza stancarsi mai (Lc 18,1), non pensa certo a persone che vivono continuamente nel tempio o isolate in un continuo colloquio con Dio. Basta osservare la sua vita! Varie volte il Vangelo ce lo presenta che si ritira in un luogo solitario a pregare. Secondo il contesto, si trova in un momento di difficoltà o assai importante della sua vita apostolica. Ha bisogno di incontrarsi da solo con il Padre. Ma subito dopo ritorna tra la gente e si dona fino al punto che non aveva neppure tempo per mangiare (cf Mc 3,20).

La preghiera individuale

Ascoltiamo Gesù: «Quando preghi, entra nella tua camera e, chiusa la porta, prega il Padre tuo nel segreto; e il Padre tuo che vede nel segreto ti ricompenserà». C’è la vera immagine di Gesù dietro a queste parole: il Padre che contempla il Figlio e il Figlio che contempla il Padre. Ma Gesù, dicendo questa sua esperienza, parla di ogni credente che in lui è, per mezzo dello Spirito, realmente figlio. Questo invito di Gesù a pregare individualmente è fantastico e non è certo contro la preghiera comunitaria, da lui tante volte compiuta nelle sinagoghe, soprattutto il giorno di festa, per lui il sabato, per noi oggi la domenica. Per Gesù era sempre un momento di intimità con il Padre. La preghiera individuale è un momento privilegiato di incontro con il Padre, il momento in cui il Padre si manifesta al figlio, il momento del silenzio, dell’adorazione, il momento in cui lo spirito di pietà ci muove e ci introduce davanti alla Maestà del Signore e ce la fa adorare. L’esercizio più bello e più significativo del dono di pietà è l’adorazione. La pietà contempla la Maestà e la Santità di Dio. Si tratta di uno sguardo semplice e affettuoso che penetra nel profondo delle cose. E l’uomo capisce che la vera natura della pietà è l’adorazione e la lode. Non si esige alcun atto in tutto ciò; si sente la presenza del Padre e si dice: «Tu sei con me, e io sono con te». Come figli in quel momento continuiamo a dire il nostro “sì”, imitando il “sì” di Gesù-Figlio. Chi adora sa che il Padre conosce già le sue difficoltà e i suoi bisogni, e che il Padre ascolta i desideri silenziosi del figlio. Egli sente la preghiera del figlio come i gemiti ineffabili dello Spirito che prega con lui e in lui (Rm 8,26-27).
Facciamo un esempio: chi osservava Don Bosco che pregava da solo si accorgeva che il suo raccoglimento nella preghiera era semplice. Immobile e ritto nella persona, le mani giunte posate sull’inginocchiatoio o appoggiate al petto, lo sguardo fisso, il volto sorridente (= la gioia di essere alla presenza del Padre e di Gesù Eucaristia); non aveva nulla di affettato, ma chi lo vedeva non poteva fare a meno di sentirsi stimolato a pregare bene, scorgendogli riflesso in fronte lo splendore della fede e dell’amor di Dio. E quando recitava le orazioni con i ragazzi si sentiva che pronunciava con un gusto speciale le parole: Padre nostro che sei nei cieli, e che la sua voce spiccava in mezzo a quella dei ragazzi per una vibrazione armoniosa, per un suono indefinibile, che muoveva a tenerezza chi l’udiva e dava a conoscere come la sua preghiera sgorgava da un cuore infiammato di carità e che possedeva il grande dono della Sapienza.
Don Bosco, per il dono della Sapienza, possedeva il gusto delle cose divine, per il dono del timore filiale una profonda riverenza verso il Padre celeste e per il dono di pietà quella pienezza di affetto che inondava il suo cuore e gli faceva ripetere con lo Spirito Santo: Abbà, Papà.
Ora sappiamo come il cristiano, che è realmente figlio di Dio, vive la sua intima relazione con il Padre. Ma sappiamo anche che lo spirito di pietà è un dono che dobbiamo sempre chiedere nella preghiera.

                                                                       
Mario Galizzi SDB
Preghiamo

Vieni, Spirito di Pietà. Donaci di vivere la presenza del Padre. Infiammaci di tenerezza e di affetto per amarlo con tutto il cuore e per amare il prossimo come noi stessi. Donaci di sentire il bisogno di esprimere nell’intimo il nostro personale di essere figli di Dio e di confidargli i nostri desideri, in particolare quello di essere utili agli altri, perché la gioia di Gesù sia in noi e sia piena. Amen!


IMMAGINI:
1 C. PARISI : Cristo Orante / 
2 Il sogno di Giacobbe - Miniatura del sec. XIII, Biblioteca Comunale, Imola
RIVISTA MARIA AUSILIATRICE 2000-8
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