PARLAVA LORO IN PARABOLE
È bello all’inizio del capitolo 4 di Marco pensare ai discepoli ancora pieni di gioia per aver sentito dire da Gesù che sono suoi fratelli (3,34s). E ora con stupore lo contemplano e lo vedono salire su una delle loro barche. Questa volta però non per scappare, ma per servirsene come di una cattedra: è lì seduto sulla loro barca come un “Maestro” e la gente lo ascolta stando sulla riva. Il loro stupore aumenta quando si accorgono che ora espone il “suo insegnamento” (cioè l’annuncio del Regno) servendosi di “molte parabole” (4,1-2). Marco ne riporta una sola, quella del seminatore, ma la novità è grande: Gesù inizia il racconto con un solenne «Ascoltate!», un imperativo assai noto nel popolo: «Ascolta, Israele»..., e conclude il racconto dicendo”: «Chi ha orecchi per capire, cerchi di capire» (4,3.9). Quest’invito mette l’uditore nella situazione di porsi delle domande su ciò che ha ascoltato. Non basta l’ascolto, bisogna sforzarsi di capire. Se poi è Gesù che parla, per capire bisogna mettere in discussione le proprie relazioni con lui e con la sua “Parola” e avere il coraggio di “fare verità dentro di sé”.

Soli con Gesù

Quando Gesù fu solo, quelli che erano intorno a lui insieme ai Dodici lo interrogarono sulle parabole. Ed egli disse loro: «A voi è dato il mistero del Regno di Dio»; a “quei di fuori” tutto avviene per mezzo di parabole “perché certamente guardano ma non riescono a vedere, certamente ascoltano, ma non riescono a capire a meno che si convertano e venga loro perdonato” (4,10-12).
Gesù, penso con tristezza, si accorge che il suo agire divide le persone. Con gioia guarda i suoi discepoli insieme ai Dodici e li vede sotto l’agire del Padre: «A voi è dato», cioè: “il Padre ha affidato a voi il mistero del Regno”. Perciò egli sente che la sua missione verso di loro è di introdurli a poco a poco nella conoscenza del mistero, del suo mistero, senza però abbandonare “quei di fuori”, il gruppo dell’ostilità, totalmente chiuso alla sua rivelazione. Ma Gesù non se la sente di abbandonarli perché egli vuole la salvezza di tutti e perciò deve cercare qualcosa che li aiuti a rivedere la loro posizione. E il mezzo usato da Gesù è quello di raccontar loro delle parabole. Esse “parlano di terzi” e così l’immediato uditore non si sente direttamente attaccato. Alla fine però di ogni racconto dice: «Dal momento che avete orecchi per ascoltare, cercate di riflettere su ciò che ascoltate». È Gesù che cerca di rompere il muro della chiusura nella speranza che si convertano. Gesù è buono con tutti. Imprimiamoci dentro quest’immagine di Gesù, perché siamo suoi discepoli e lo dobbiamo imitare.

«A voi è dato...»

Eccolo ora tutto per i suoi discepoli; per lui sono qualcosa di prezioso; li sente come un dono del Padre. Sì, sono ancora agli inizi della loro formazione, però sono disponibili e gli chiedono di essere aiutati a capire; e Gesù lo fa limitandosi per ora alla parabola del Seminatore. È meglio rimandare a più tardi la spiegazione di tutte le altre (4,34.b). Per ora è già molto se si sforzano di capire quella del “Seminatore” che mette in discussione il loro ascolto e, di conseguenza, il modo di accogliere la Parola. Chi legge attentamente le parole di Gesù (4,14-20) sente affiorare una sua domanda a cui noi discepoli non possiamo non dare con la nostra vita una risposta: «Quale valore ha per voi la mia Parola?».
La spiegazione della parabola parla di quattro diverse situazioni in cui si trovano gli ascoltatori (4,15-20). È logico pensare che i discepoli non si trovano nella situazione del “seme caduto sulla strada”: questa è la situazione di “quei di fuori” totalmente chiusi al messaggio (v. 15). E neppure si trovano nella situazione di «quelli che sono stati seminati in terra buona» (4,20). Per costoro il “valore massimo, l’opzione o la scelta di fondo che regola la loro vita” è la Parola di Gesù, il loro vivere è Gesù. In essi non ci sarebbe contraddizione tra il modo di vivere e la Parola che proclamano.
Questa categoria di discepoli non era allora una realtà in atto. Gesù sta parlando di un ideale, di una meta a cui si deve giungere. E il cammino per giungervi si presenta duro per noi che, come i discepoli del Vangelo, siamo ancora agli inizi della nostra formazione o cerchiamo di rimotivare la nostra fede. Ebbene, Gesù non ci nasconde le difficoltà che dobbiamo superare per far sì che la sua Parola diventi “l’opzione di fondo” di tutta la nostra esistenza. Lo fa con delicatezza, iniziando dalle difficoltà esterne che sono le meno dure.

Simili a terreno pietroso

Quelli che sono rappresentati dal “terreno pietroso” (4,16-17) accolgono con gioia la “Parola”, ma “al sopraggiungere della tribolazione (contrasti familiari, sociali, ecc.) o la persecuzione subito si abbattono, si lasciano andare”. Sono bloccati dalla “paura”, “non sono costanti” (siamo nella terminologia dei “valori”), non se la sentono di tribolare e tanto meno di essere perseguitati a causa della Parola, cioè di sentire in pericolo la propria vita. E allora la loro vita si alterna tra la gioia dell’ascolto e l’incostanza nel vivere la Parola. Perciò è chiaro che per essi la “Parola” non può ancora essere la “scelta di fondo”, non riescono a vederla come un “valore assoluto” per cui valga la pena di affrontare quelle difficoltà che possono mettere in pericolo la propria vita: è questa che ha valore. Ed è questo modo di pensare che Gesù vuole cambiare. Per lui è la “Parola di Dio”, la Parola del Padre che ha il massimo valore ed è su di essa che fonda la sua vita, e vuole che anche per i discepoli sia così.

Un terreno colmo di spine

Per Gesù le maggiori difficoltà nella piena accoglienza della “Parola” non sono esterne, ma nel cuore, ed egli vuole guarire il nostro cuore. Guarda i suoi discepoli; sa che hanno ascoltato la sua Parola con attenzione e che vogliono approfondirla con lui. Ed egli dice quello che per tutti è ovvio. Basti pensare a quando noi siamo in ascolto della “Parola di Dio”. Nel nostro cuore c’è davvero solo la Parola di Dio o mentre ascoltiamo sentiamo affiorare dal nostro inconscio tante altre realtà, una ridda di sentimenti, emozioni e affetti? Forse queste realtà non corrispondono a quelle elencate da Gesù, ma si abbinano assai bene alle nostre. Sentiamole: “Il seme caduto tra le spine rappresenta coloro che mentre ascoltano sentono “irrompere (certe traduzioni tralasciano questo verbo) nel loro cuore le preoccupazioni della vita, un amore sfrenato per la ricchezza e ogni sorta di bramosie, quelle dell’avere, del potere e del valere”, a cui tante volte segue lo scatenarsi di tutti quei piaceri che caratterizzano una vita dissoluta. Quante attrattive offre il mondo e quanti desidèri suscitano in noi (vv. 18-19). La “Parola” è in pericolo: il cuore è troppo ingombro di tanti altri “valori”; non c’è posto per la “Parola”. Tutte queste realtà la escludono e fanno di tutto per soffocarla.
Ogni discepolo capisce che Gesù vuole che facciamo verità dentro di noi, ci chiede il coraggio di chiamare per nome quello che c’è nel nostro cuore e di metterlo a confronto con la Parola ascoltata che non vuole annullare le energie vitali delle nostre emozioni, sentimenti e affetti, ma orientarle verso relazioni di vera comunione con gli altri e con Dio. Gesù ci fa solo una domanda: “Tra tutte queste realtà che si dibattono in te, compresa la Parola, che cosa scegli come valore, come opzione fondamentale per la tua vita?”. I discepoli che sono accanto a Gesù comprendono che per Gesù, solo “l’ascolto della Parola” può fare verità dentro di loro, e donare il coraggio di realizzare in pienezza la loro vita. Oggi siamo noi al posto degli apostoli. L’invito di Gesù per noi è di fare della “sua Parola” l’opzione fondamentale del nostro vivere e di sforzarci in modo tale che essa sia sempre in sintonia con il “valore proclamato”. Egli ci vuole “terra buona”. E per riuscire in questo c’è un solo modo: continuare ad ascoltare la sua Parola.

“State attenti a ciò che ascoltate” (4,24)

È la frase che regge tutto l’impianto del capitolo 4 di Marco; è quella, che accolta con entusiasmo, ci permette di aprirci ai valori di Gesù e di immedesimarli nella nostra esistenza. Gesù la dice a coloro che hanno accolto la sua parola e che insieme a lui la stanno approfondendo. Per lui è sommamente necessario rendersi conto delle cose ascoltate, è importante averne un’alta stima, perché solo se diamo ad esse tutto il loro valore e continuiamo ad ascoltare in modo da possederle veramente, allora saremo davvero la lampada posta sul candelabro (4,21) e con Gesù-Luce ci sentiremo luce per gli altri, sentiremo la voglia anche in mezzo alle difficoltà di sollevare la luce della Parola sopra il candelabro del nostro corpo. È un impegno, e l’impegno suscita sempre una domanda: vale la pena? Ci riuscirò? Sì, basta imitare Gesù che vive la certezza della speranza.

Gesù, l’uomo della speranza

Quando racconta la parabola del seminatore parla anche di perdite, però c’è il seme caduto in terra buona che dà il trenta, il sessanta, il cento per uno. Questo parlare in crescendo dice tutto il suo entusiasmo. Anche il suo comportamento verso “quei di fuori” è colmo di speranza, ma soprattutto esprime la sua speranza quando racconta le parabole del “Seme che cresce da sé” (4,26-29) e quella del “piccolo granello di senapa” (4,30-32). Nella prima dice, in immagini, che la sua missione consiste solo nel seminare, nell’annunciare la Parola del Regno. Il resto viene da sé: c’è solo da aspettare, ma è certo che seguirà la gioia della mietitura. Il seme può essere piccolissimo, ma quando crescerà farà rami tanto grandi che gli uccelli si ripareranno alla sua ombra. Bisogna sentirsi “seme” o come dice lui “seme che va sotto terra per portare molto frutto”. Gesù vive di certezze. Ma noi discepoli siamo davvero in sintonia con lui? Viviamo le stesse certezze? Crediamo nel “valore supremo della sua Parola”. Sembrerebbe che i discepoli di allora ci credessero davvero, perché «Gesù in privato spiegava loro ogni cosa». Ma la loro era vera fede?

Un bilancio s’impone

Subito dopo il discorso in parabole Gesù dice ai discepoli: «Passiamo all’altra riva». Ed ecco che si sollevò una gran tempesta di vento. I discepoli si davano da fare per non affondare, mentre Gesù dormiva tranquillo. Lo svegliarono dicendo: «“Maestro, non t’importa che moriamo?”. Gesù sgridò il vento e disse al mare: “Taci, calmati”. E ci fu bonaccia. E ai discepoli disse: “Non avete ancora fede?”» (vedi 4,35-41).
Siamo di fronte a una domanda che stupisce. Quel giorno avevano ascoltato con molta attenzione la sua Parola. Eppure non hanno ancora fede. Ma il motivo della non fede, ce lo indicano loro stessi quando si dissero l’un l’altro: «Chi è costui, al quale anche il vento e il mare ubbidiscono?». Sentono tanta gioia nello stare con lui e non si sognano di abbandonarlo. Ma è così imprevedibile che ancora non riescono a capire chi è. Come si fa ad affidarsi ciecamente ad uno che non si sa chi sia? Prima bisogna conoscerlo. E hanno ragione. E noi continueremo a seguire il loro cammino per entrare anche noi in una sempre più profonda conoscenza di Gesù.

Preghiamo

Signore Gesù, che la tua Parola mi aiuti sempre a “fare verità” nel mio cuore in modo che il mio modo di vivere sia in sintonia con la parola che proclamo. Ma donami soprattutto con abbondanza il dono dello Spirito, perché non mi limiti a sentire delle parole, anche se importanti, ma senta che sto ascoltando te, Parola del Padre. I discepoli si sono chiesti: “Chi è costui?”, ma forse è meglio che io mi chieda ogni giorno: “Signore Gesù, chi sei per me? Ebbene, Signore Gesù, io vorrei e voglio sforzarmi perché tu sia colui che dà senso alla mia vita intima e perché solo l’annuncio di Te e del tuo Vangelo sia ciò che dà senso a ogni mia attività. Amen!

                                                                         Mario Galizzi


RIVISTA MARIA AUSILIATRICE 2003-6
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