18 feb.: B. GIOVANNI DA FIESOLE (BEATO ANGELICO): 1400-1455

IL PITTORE
CHE HA FATTO PIANGERE GLI ANGELI


Da alcuni anni, si fa un gran parlare e scrivere su modernità e post modernità, sulle narrazioni forti passate e sul pensiero debole presente, sulle dimensioni antropologiche dell’una parte e dell’altra. Si afferma che gli elementi fondanti e propulsivi della modernità sono stati due: l’emancipazione dell’uomo da ogni vincolo, specialmente da quello metafisico e religioso (chi non ricorda Kant e il suo “Sapere aude”, che è stato il vero motto dell’illuminismo), e la costante e assoluta esaltazione della ragione (fino a farne la “dea ragione”).
Questa era stata l’artefice del progresso scientifico, morale e civile, si sosteneva. L’uomo e le sue capacità raziocinanti e calcolanti al di sopra di tutto e al centro di tutto. Ecco la vera rivoluzione copernicana.
Poi è venuto il secolo XX con le sue ideologie devastanti e le due spaventose guerre mondiali. Qualcosa non quadrava. Molte certezze caddero, molti punti di riferimento messi in crisi. Dove splendeva superba la luce della ragione, subentrava furtiva l’ombra del dubbio.
I sostenitori della post modernità affermano che, scoperta la debolezza della ragione con l’eredità del XX secolo, bisogna rivalutare o riscoprire altre forme diverse e complementari di conoscenza. Si dice anche che bisogna superare il puro logo centrismo riaffermando così che l’uomo non comunica solo con la ragione perché non è solo ragione, ma che c’è anche il linguaggio del cuore da non sottovalutare e dimenticare. Pascal diceva che si può (o si deve?) conoscere se stessi e Dio anche attraverso il cuore, perché questo ha delle “ragioni” che la ragione non conosce.
Sembra proprio che le ragioni della ragione, da sole, non bastino per vivere umanamente.
Anche l’arte, come linguaggio comunicativo, non fa appello alla pura logica e razionalità, ma è tuttavia una delle vie per conoscere la realtà. “Il linguaggio dell’arte è una via di conoscenza, è un ambito in cui si può attingere alla sorgente della vita e al vero, percepito come bello.
La modernità aveva riservato all’arte uno spazio marginale, una specie di «seconda classe», in cui era stata relegata insieme ai sentimenti, poco considerati dalla gnoseologia. Oggi si riconosce che l’arte ha un approccio alla verità meno violento dell’argomentazione e della logica, un approccio nel segno del simbolo, del fascino, dell’attenzione e della libera adesione” (Ignazio Sanna, in L’antropologia cristiana tra modernità e post modernità, Queriniana 2001, pag. 218).
Tra le grandi religioni, è solo il cristianesimo che ha sviluppato una vera cultura dell’immagine, e quindi dell’arte. C’è un vincolo stretto tra arte e religione cristiana, tra fede e bellezza, tanto da ipotizzare che in Occidente difficilmente avremmo avuto uno sviluppo dell’arte e una disciplina chiamata “estetica” senza il cristianesimo, e in special modo senza il concilio di Nicea del 787 che sanciva l’approvazione del culto delle immagini, contro l’iconoclasticismo che c’era stato in precedenza nel concilio di Hiereia del 754.
Nicea quindi ha sancito la differenza tra le tre religioni monoteiste: mentre l’ebraismo e l’islamismo
sono chiamate religioni del libro o della parola, il cristianesimo in forza dell’incarnazione è la religione dell’immagine, perché Dio in Cristo Gesù si è mostrato, si è fatto visibile, conoscibile attraverso la sua presenza incarnata e attraverso la sua Parola (importanza della Bibbia).
Nel cristianesimo non solo un bel discorso mi può parlare e portare a Dio, ma anche un fiore, un paesaggio, un bel tramonto o un bel quadro di qualche artista. Anche l’arte, cioè il linguaggio della bellezza, mi può aiutare a conoscere Dio, a riflettere su di Lui e a ricordarmi di Lui. Questi sono stati i sentimenti che hanno guidato il cuore, la mente e la mano di un famoso pittore passato alla storia come il Beato Angelico. È un grande della pittura italiana, universalmente noto e presente in prestigiosi musei del mondo. Ma per la Chiesa è anche un personaggio da pregare e imitare perché è stato dichiarato Beato da Giovanni Paolo II.
La sua, in verità, è stata una canonizzazione atipica. Infatti perché si intraprenda tutto il complesso iter ci vogliono il processo canonico, la segnalazione di miracoli, il culto presso la tomba del candidato ecc. Di fra Giovanni sono sempre esistite le folle di visitatori che rimangono ammirati davanti ai suoi quadri, traendone certamente un influsso positivo di gioia e di serenità estasiante. Anche questo è un miracolo. Comunque Giovanni Paolo II ha dribblato tutti questi paletti centenari e rispettosi della tradizione, e ha deciso di sua autorità che il Nostro era degno del titolo di Beato. Era già chiamato così da secoli, ma adesso c’era il sigillo ufficiale. E così fu nel 1994.

Un bravo frate che predicava... col pennello

Guido di Pietro era nato a Fiesole, presso Firenze, verso il 1400. Non si sa molto della sua vita. Ma si è certi che studiò pittura e fu ammesso in una delle numerose gilde di pittori presenti nella città. Probabilmente conobbe Masaccio, ma con certezza egli subì l’influenza di Lorenzo Monaco, un pittore e monaco camaldolese di Siena.
Verso il 1420 quando entrò nell’ordine domenicano, col nome di Fra Giovanni da Fiesole, aveva già una discreta fama di pittore. In convento continuò a dipingere, sostenendo così con i suoi diritti d’autore i suoi confratelli.
Come pittore egli rappresenta il passaggio dal Medio Evo al Rinascimento, sintetizzando nelle sue opere il fervore religioso del primo con l’amore puramente estetico del bello in sé del secondo. Fu anche il primo italiano a dipingere paesaggi riconoscibili e il primo a guardare alla natura come ambiente bello e gradevole, in cui vivono e agiscono le creature di Dio. Non solo conosceva le leggi della prospettiva ma era anche abile nell’utilizzarla. Insomma “è un grande artista” (E. H. Gombrich).
A partire dal 1441 cominciò a dipingere una scena sacra nella cella di ogni frate del convento di San Marco in Firenze. L’obiettivo era religioso e catechistico: aiutare la meditazione, la devozione e la preghiera dei frati. “Per il Beato Angelico l’arte era un modo di meditare e di predicare: le sue opere mostravano alla gente che cosa si doveva adorare, in perfetto accordo con la tradizione catechetica domenicana” (A. Butler).
Al di fuori del convento di San Marco dipinse numerosi affreschi, per lo più rappresentanti la Madonna col Bambino in compagnia di santi. Dipinse anche due cappelle in Vaticano su commissione del papa Eugenio IV, e cominciò a lavorare anche ad un grande ciclo di affreschi sul Giudizio Finale della cattedrale di Orvieto. La Cronaca di Orvieto di allora lo definisce: “un fratello magnifico, un grande pittore, famoso più di tutti i pittori italiani”. Prima della morte lavorò ancora a Roma per la Basilica di San Pietro.
Un elemento caratteristico dei suoi dipinti è la presenza degli angeli: angeli belli nelle forme, immersi nella più profonda beatitudine, sprizzanti gioia di vivere, pieni di luce indicanti così la vicinanza al Dio della gioia e della luce. Chi li vedeva era rapito come in Paradiso e sollecitato a pensieri soprannaturali.
Girolamo Borselli già nel 1517 gli attribuì il titolo di “Beato”, e per sottolineare questa numerosa presenza angelica nei dipinti il Vasari nella prima biografia del 1550 lo chiamò “fra Giovanni Angelico”. Proprio per questo motivo, narra una leggenda molto carina, che quando il celebre frate pittore morì, agli angeli da lui dipinti spuntò una lacrima di dolore per il loro amico.
Si sa che ogni pittore dipinge basandosi o ispirandosi a determinati modelli o modelle viventi, questo lo faceva anche il sommo Michelangelo. Ebbene questi, vedendo i dipinti dell’Angelico, scrisse di lui: “Si deve credere che questo buon monaco abbia visitato il Paradiso e abbia avuto il permesso di scegliere là i suoi modelli”. Non ci poteva essere complimento più bello e più centrato.
È proprio vero. Contemplare i suoi dipinti è regalarsi un po’ di aria di Paradiso, concedersi un piccolo saggio e assaggio della Realtà Ultima Futura che è Dio nella sua gloria e beatitudine (che sarà anche nostra), significa elevare i propri pensieri e credere che, dopo tutto, questa terra con le sue gioie e dolori (talvolta, più numerosi) non è tutto. Simili pensieri non ci faranno certamente male e, Dio sa, quanto ne abbiamo bisogno.
                                                                                                  MARIO SCUDU sdb
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*** Questo e altri 120 santi e sante sono nel volume di :
MARIO SCUDU, Anche Dio ha i suoi campioni, Editrice Elledici, Torino

“Chiunque vuole dipingere Cristo, deve essere su questa terra molto vicino a Cristo”. (Beato Angelico). E fra Giovanni da Fiesole lo fu sempre.

Fra Giovanni: “di virtù ornato molto”
“Fra Giovanni decto da Fiesole anghielicho, vezoso, et divoto et di virtù ornato molto, con grande facilità dipinse in Firenze, in Roma et altrove” (A. Billi, Il Libro, 1516-30).

“La compunzione del cuore, i suoi slanci verso Dio, il rapimento estatico, il gusto anticipato della beatitudine celeste, tutto questo genere di emozioni profonde e esaltate che nessun artista può rendere senza averle prima provate, ecco quale fu il misterioso ciclo che il genio di Fra Angelico amava percorrere e che rifece daccapo dopo averlo terminato...” (A. F. Rio).


IMMAGINI:
1 Annunciazione, Museo del Prado, Madrid /
2 Annunciazione, Museo di San Marco, Firenze /
3 Annunciazione, Muso Diocesano di Cortona
RIVISTA MARIA AUSILIATRICE 2004-2
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