SAN VOLFANGO DI REGENSBURG (925-994)
OGNI MATTINA SI DONAVA A DIO

Non è infrequente leggere nella vita dei santi (ma lo stesso dicasi per la vita di altri personaggi laici) insieme a dati e notizie certe e storicamente provate, anche delle leggende, presentate come tali. Non è infrequente, né scandaloso, né fuorviante. Ciò che è leggenda rimane leggenda, ciò che è storico e provato rimane tale. Avrà quindi il peso del dato storico, da accettare. Anche nella vita del santo di questo mese si parla di leggende. Ma perché ci sono? C’è qualche spiegazione razionale e accettabile? Certamente. Le leggende non nascono attorno a figure poco conosciute o a personaggi di terzo livello, che poco di significativo hanno fatto per l’umanità, o che comunque non hanno solleticato la fantasia popolare più di tanto. Nascono sempre attorno a personaggi significativi che hanno lasciato un’impronta, generalmente positiva, nell’immaginario collettivo del loro tempo. Così è stato di san Volfango di Regensburg, (in italiano Ratisbona) in Baviera.

Ecco una leggenda su questo grande santo vissuto alle soglie dell’anno 1000. Volfango non solo non era contento, ma quasi irritato, per i troppi onori, le troppe celebrazioni nel suo nome, le molteplici riverenze, gli applausi non solo del popolo ma pure del potere politico, anche nel più alto grado, e cioè l’imperatore stesso.
Gli ritornavano in mente le parole evangeliche: “... hanno ricevuto la loro ricompensa”. Era forse il suo caso, stava rischiando anche lui? Meglio fuggire. Destinazione: prima i monti vicino a Salisburgo, poi sulle rive dell’Abersee vicino a Falkenstein, sempre in Austria. Per un anno intero volle patire il freddo, il caldo, la solitudine, la fame e la sete. Ma non solo. Il diavolo volle alleviare la sua solitudine con una visita non di cortesia ma di tentazione, come da copione e da mestiere. Risultato magro.

Allora gli scagliò contro una montagna per schiacciarlo. Ma Volfango, pronto, si scansò appoggiandosi al monte Falkenstein. E qui rimasero impresse l’impronta di una croce formata dalla testa e dalle braccia. Volfango lanciò da lì la sua ascia. Laddove cadde egli volle costruire con le proprie mani una chiesetta ed una cella. E, narra la leggenda, costrinse addirittura il diavolo, ad aiutarlo nella costruzione. Attorno a questa cappella nacque poi il villaggio chiamato San Volfango. Dopo alcuni anni però fu riconosciuto da un cacciatore di Ratisbona e fece ritorno nella sua diocesi.
Leggenda certo, ma con un significato storico ben preciso.

Dopo due secoli e molti litigi, i beni riguardanti l’Abersee appartenenti a Ratisbona, furono dati a Mondsee (dove la leggenda ha collocato per alcuni anni il santo). Si chiamerà quindi Wolfgangsee. Questo spiega i due elementi con cui si raffigura san Volfango: l’ascia e la chiesa. Si voleva insomma far capire che nella sua vita egli era stato un costruttore di chiese. Ma non solo. L’ascia significava che si poteva invocare san Volfango come protettore delle frontiere. Il lancio dell’ascia era infatti un antico costume per definire una frontiera.


Missione fallita tra gli Ungheresi

Volfango nacque a Pfulligen, in Svevia, intorno al 925. I suoi genitori non erano né nobili né ricchi, tuttavia vollero assicurare al loro figlio una adeguata istruzione, grande privilegio per quei tempi riservato ai rampolli di famiglie potenti politicamente o per ricchezza. Studiò nella celebre scuola del monastero di Reichenau, sul lago di Costanza. Un suo biografo descrisse particolarmente tre qualità in Volfango: una notevole intelligenza, un ardente desiderio di imparare e da ultimo, una buona memoria. Qui nel monastero fece amicizia con Enrico di Babenberg, figlio di una famiglia dell’alta nobiltà della Svevia. Insieme si recarono a Würzburg dove Enrico aveva un fratello vescovo.

Questi era amante delle scienze, e per questo fece venire appositamente dall’Italia il celebre professore Stefano di Novara. Morto Enrico nel 964, Ottone I l’imperatore (figlio di santa Matilde, che ho ricordato nel numero di marzo) affidò Volfango a uno dei suoi fratelli, Bruno, arcivescovo di Colonia, molto pio ed erudito, che aveva a cuore la riforma monastica. A Colonia, Volfango fu iniziato alla politica e all’amministrazione di un vescovado. Tutte cose provvidenziali dopo, quando diventerà vescovo. Ma egli aveva un’idea fissa, fin dai giorni di Würzburg: diventare monaco. E così entrò ad Einsiedeln, famoso monastero situato nella Selva Nera, non lontano da Zurigo, celebre per la stretta osservanza della regola di san Benedetto. L’abate di allora era... un inglese (c’era già una certa unione europea, nel nome di Cristo certamente e in questo caso anche di san Benedetto). Volfango diventò così un bravo maestro di scuola ed eccellente pedagogo tanto che questa sua fama attirò ben presto allievi dai monasteri vicini.

Ordinato sacerdote volle partire per la Pannonia, odierna Ungheria, per tentare di evangelizzare i Magiari. Questi per decenni erano stati il terrore, per i loro periodici saccheggi, di parte della Germania, ma anche dell’Italia del nord. Finalmente erano stati sconfitti proprio da Ottone I (aiutato da sant’Ulrico) nella battaglia di Lechfeld nel 955. Ma si capì che non bastava averli vinti militarmente, bisogna convincerli anche evangelicamente. Così avrebbero cessato di essere una minaccia. Non più nomadi del saccheggio ma buoni agricoltori legati e integrati con la loro terra.

Sant’Ulrico e anche l’imperatore lo desideravano. Non si trovò nessuno più adatto di Volfango: lo ritenevano il migliore per quell’incarico ad alto rischio... di fallimento. E così, scrivono gli annali dell’abbazia: “fu mandato ai Magiari”. Il nostro santo era sì il meglio in fatto di pedagogia e di evangelizzazione, ma i Magiari erano veramente un osso duro. La storia dice che sostanzialmente la sua missione di evangelizzazione (non sufficientemente preparata) fallì. Altri riusciranno dopo di lui, e anche grazie a lui.
Nel 972 venne nominato vescovo di Ratisbona. Alla sua elezione si obiettò che non era un aristocratico, non di sangue blu insomma ma normale. Allora i vescovi erano di famiglie ricche e potenti, e loro stessi diventavano ricchi (per le rendite delle loro diocesi) e politicamente influenti. Comunque l’imperatore approvò la sua elezione, e così pure il popolo e il clero di Ratisbona, all’unanimità. Segno della grande stima e fama che si era già guadagnato.

Da vescovo non rinunciò ad essere monaco

Il suo fedele biografo Otlone ci assicura che Volfango aveva lasciato sì il monastero ma non il suo essere monaco nella profondità del suo cuore. Continuò infatti a vivere da monaco. Un particolare importante: come i suoi predecessori anche Volfango era nello stesso tempo vescovo di Ratisbona e anche abate del monastero di sant’Emmerano. Diventò anche il tutore o educatore dei figli del duca di Baviera, Enrico il Querelatore. Uno di essi diventerà poi l’imperatore Enrico II, santo.

Ma il principale lavoro di Volfango era la cura della sua grande diocesi. Curava soprattutto il rapporto con la gente, con tutti ma specialmente i più poveri della città. Lui li chiamava “i suoi signori e fratelli”. Spesso li invitava alla sua tavola e divideva con loro i pasti. Nell’anno 987 a causa della carestia distribuì alla popolazione il grano che aveva. Il popolo di Dio, fatto di persone semplici e buone, sembra talvolta avere uno speciale sensore che capta la santità dei propri pastori. Si era accorto anche della santità di Volfango. Infatti la celebrazione della sua Messa attirava sempre una grande folla. Egli sapeva toccare i cuori con la chiarezza dei suoi pensieri e con la grazia di Dio. Si recava anche nelle parrocchie a visitare la gente.

La personalità di san Volfango è una di quelle che dominano il Sacro Romano Impero nel secolo X. La sua opera è particolarmente importante non solo dal punto di vista religioso, pastorale e artistico, ma anche civile per la Baviera e per l’Austria (qui si spiega la presenza del nome Wolfgang in cittadini tedeschi e austriaci: ne ricordiamo solo due, Goethe e Mozart, che anche le pietre conoscono).
Ma Volfango è passato alla storia per un episodio che ha dello straordinario, e anche del rivoluzionario (per quei tempi). Allora la diocesi era fonte di ricchezza e di prestigio. E questi due elementi erano direttamente proporzionali alla vastità dei territori che la componevano. Si può immaginare la politica di qualche vescovo. Non era certo quella di dividere, o condividere, ma di aggiungere. Volfango, da uomo intelligente e “politico” quale era divise la sua diocesi, separando la parte che oggi sarebbe la Boemia. Alcuni dei suoi colleghi vescovi protestarono. Quando la prassi era di cercare di ingrandire la propria diocesi, perché quel Volfango di Ratisbona andava contro corrente?

Si creava un precedente? Sarebbe toccato a loro auto-ridimensionarsi? Pensieri umani, troppo umani; che questi signori vescovi facevano, perché spesso era preponderante il loro ruolo politico a detrimento di quello ecclesiale. Volfango lasciò dire e ridire. E lui fece quello che aveva in mente. Non pensava né ai suoi interessi personali né ad aumentare le rendite diocesane. Aveva capito che per rafforzare la Chiesa in Boemia, bisognava creare una diocesi indipendente, che comprendesse quelle popolazioni che non erano tedesche, anche se politicamente erano state annesse da Ottone I.

Volfango scrisse di suo pugno il diploma della donazione. Nasceva così una diocesi boema con popolazione boema e con sede vescovile a Praga in Boemia. E con il primo vescovo indigeno nel 976, Titmaro predecessore del grande sant’Adalberto. “Volfango sapeva che per incarnare il cristianesimo in un popolo bisogna riconoscerne e valorizzarne la personalità, anche con sede e gerarchia ecclesiastica locale. Un problema che occuperà anche il XX secolo, e che Volfango aveva già compreso” (Domenico Agasso). Mille anni prima.
Qui sta la grandezza, lungimiranza e santità di san Volfango, anche come uomo di respiro europeo. Per questo lo abbiamo ricordato.
                                                                                           
 MARIO SCUDU sdb ***


  *** Questo e altri 120 santi e sante e beati sono presenti nel volume di :
             
MARIO SCUDU, Anche Dio ha i suoi campioni, Editrice Elledici, Torino

IMMAGINI:
1 San Volfango disputa con un eretico, di Michael Pacher (1483), Alte Pinakothek, Monaco di Baviera.
RIVISTA MARIA AUSILIATRICE 2002-9
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