SALMO 40
PREGHIERA DI UN MALATO

Un motivo che ci spinge a apire e ad amare il Salmo 40 che recitiamo ai Vespri del venerdì della prima settimana, è il fatto che Gesù stesso lo abbia citato: «Non parlo di tutti voi; io conosco quelli che ho scelto; ma si deve adempiere la Scrittura: colui che mangia il pane con me, ha levato contro di me il suo calcagno» (Gv 13,18).

Abbandonato da tutti

È l’ultima sera della sua vita terrena e Gesù, nel Cenacolo, sta per offrire il boccone dell’ospite a Giuda, il traditore. Il suo pensiero corre a questa frase del Salmo, che è in realtà la supplica di un uomo infermo abbandonato dai suoi amici. In quell’antica preghiera, Cristo trova sentimenti e parole per esprimere la sua profonda tristezza.
Noi ora cercheremo di seguire e illuminare la trama intera di questo Salmo, affiorato sulle labbra di una persona che soffre certo per la sua infermità, ma soprattutto per la crudele ironia dei suoi «nemici» (cf Sal 40,6-9) e perfino per il tradimento di un «amico» (cf v. 10).

Affidandosi a Dio

Il Salmo 40 si apre con una beatitudine. Essa ha per destinatario l’amico vero, colui che «ha cura del debole»: egli sarà ricompensato dal Signore nel giorno della sua sofferenza, quando sarà lui ad essere «sul letto del dolore» (cf vv. 2-4).
Il cuore della supplica è, però, nella parte successiva dove prende la parola il malato (cf vv 5-10). Egli inizia il suo discorso chiedendo perdono a Dio, secondo la tradizionale concezione anticotestamentaria che ad ogni dolore faceva corrispondere una colpa: «Pietà di me, Signore; risanami; contro di te ho peccato» (v. 5; cf Sal 37). Per l’antico ebreo la malattia era un appello alla coscienza per avviare una conversione.

Anche se si tratta di una visione superata da Cristo, Rivelatore definitivo (cf Gv 9,1-3), la sofferenza in se stessa può nascondere un valore segreto e diventare una strada di purificazione, di liberazione interiore, di arricchimento dell’anima. Essa invita a vincere la superficialità, la vanità, l’egoismo, il peccato e ad affidarsi più intensamente a Dio e alla sua volontà salvifica.

Sconfiggere l’ipocrisia

Ma ecco entrare in scena i malvagi, coloro che sono venuti a visitare il malato non per confortarlo, bensì per attaccarlo (cf vv. 6-9). Le loro parole sono aspre e colpiscono il cuore dell’orante, che esperimenta una cattiveria che non conosce pietà. La medesima esperienza compiranno molti poveri umiliati, condannati a stare soli e a sentirsi un peso per gli stessi familiari. E se ricevono talora qualche parola di consolazione, ne avvertono subito il tono falso e ipocrita.

Anzi, come si diceva, l’orante sperimenta l’indifferenza e durezza persino da parte degli amici (cf v. 10), che si trasformano in figure ostili e odiose. Il Salmista applica loro il gesto dell’«alzare il calcagno», l’atto minaccioso di chi sta per calpestare un vinto o l’impulso del cavaliere che eccita il suo cavallo col tallone per fargli calpestare l’avversario.
L’amarezza è profonda, quando a colpirci è «l’amico» in cui si confidava, chiamato letteralmente in ebraico «l’uomo della pace». Il pensiero corre agli amici di Giobbe che da compagni di vita si trasformano in presenze indifferenti e ostili (cf Gb 19,1-6). Nel nostro orante risuona la voce di una folla di persone dimenticate e umiliate nella loro infermità e debolezza, anche da parte di coloro che avrebbero dovuto sostenerle.

Certi della salvezza

La preghiera del Salmo 40 non si spegne, però, su questo sfondo cupo. L’orante è certo che Dio si affaccerà al proprio orizzonte, rivelando ancora una volta il suo amore (cf vv. 11-14). Sarà lui a offrire il sostegno e a prendere tra le braccia il malato, il quale ritornerà a «stare alla presenza» del suo Signore (v. 13), ossia – secondo il linguaggio biblico – a rivivere l’esperienza della liturgia nel Tempio.

Il Salmo, segnato dal dolore, finisce dunque in uno squarcio di luce e di speranza. In questa prospettiva si riesce a capire come Sant’Ambrogio, commentando la beatitudine iniziale (cf v. 2), vi abbia visto profeticamente un invito a meditare sulla passione salvifica di Cristo che conduce alla Risurrezione. Così, infatti, il Padre della Chiesa suggerisce di introdursi alla lettura del Salmo:

«Beato chi pensa alla miseria e alla povertà di Cristo, che, da ricco che era, si è fatto povero per noi. Ricco nel suo Regno, povero nella carne, perché ha preso su di sé questa carne da poveri... Non ha patito dunque nella sua ricchezza, ma nella nostra povertà. E perciò a soffrire non è stata la pienezza della divinità..., ma la carne... Cerca dunque di penetrare il senso della povertà di Cristo, se vuoi essere ricco! Cerca di penetrare il senso della sua debolezza, se vuoi ottenere la salute! Cerca di penetrare il senso della sua croce, se vuoi non vergognartene; il senso della sua ferita, se vuoi sanare le tue; il senso della sua morte, se vuoi guadagnare la vita eterna; il senso della sua sepoltura, se vuoi trovare la Risurrezione»
(Commento a dodici salmi: Saemo, VIII, Milano-Roma 1980, pp. 39-41).

                                                                 Giovanni Paolo II
                                                         L’Osservatore Romano, 02-06-2004


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1 FRANCESCO PITTONI (1654-1724): Cristo nell'orto del Getsemani, Palazzo Levetzaw, Gorica
RIVISTA MARIA AUSILIATRICE 2005-3
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