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       SALMO 143,1-8:
    LA PREGHIERA DEL RE

Salmo 143,1-8

Benedetto il Signore, mia roccia, che addestra le mie mani alla guerra, le mie dita alla battaglia.
Mia grazia e mia fortezza, mio rifugio e mia liberazione, mio scudo in cui confido, colui che mi assoggetta i popoli.
Signore, che cos’è un uomo perché te ne curi? Un figlio d’uomo perché te ne dia pensiero? L’uomo è come un soffio, i suoi giorni come ombra che passa.
Signore, piega il tuo cielo e scendi, tocca i monti ed essi fumeranno. Le tue folgori disperdano i nemici, lancia frecce, sconvolgili.
Stendi dall’alto la tua mano, scampami e salvami dalle grandi acque, dalla mano degli stranieri. La loro bocca dice menzogne e alzando la destra giurano il falso.

L’itinerario nel Salterio usato dalla Liturgia dei Vespri propone ai Vespri del giovedì della IV settimana la prima parte di un inno regale, il Salmo 143: la Liturgia, infatti, presenta questo canto suddividendolo in due momenti.
La prima parte (cf vv. 1-8) rivela in modo netto la caratteristica letteraria di questa composizione: il Salmista ricorre a citazioni di altri testi salmici articolandoli in un nuovo progetto di canto e di preghiera.

Proprio perché il Salmo è di epoca successiva, è facile pensare che il re che viene esaltato abbia ormai i contorni non più del sovrano davidico, essendo la regalità ebraica conclusa con l’esilio babilonese del VI secolo a.C., bensì egli rappresenti la figura luminosa e gloriosa del Messia, la cui vittoria non è più un evento bellico-politico, ma un intervento di liberazione contro il male. Al «messia» – vocabolo ebraico che indica il «consacrato», come lo era il sovrano – subentra, così, il «Messia» per eccellenza, che, nella rilettura cristiana, ha il volto di Gesù Cristo, «figlio di Davide, figlio di Abramo» (Mt 1,1).

Una professione di umiltà

L’inno si apre con una benedizione, ossia con un’esclamazione di lode rivolta al Signore, celebrato con una piccola litania di titoli salvifici: egli è la roccia sicura e stabile, è la grazia amorosa, è la fortezza protetta, il rifugio difensivo, la liberazione, lo scudo che tiene lontano ogni assalto del male (cfr Sal 143,1-2). C’è anche l’immagine marziale del Dio che addestra alla lotta il suo fedele così che sappia affrontare le ostilità dell’ambiente, le potenze oscure del mondo.

Davanti al Signore onnipotente l’orante, pur nella sua dignità regale, si sente debole e fragile. Egli emette, allora, una professione di umiltà che è formulata, come si diceva, con le parole dei Salmi 8 e 38. Egli, sente, infatti, di essere «come un soffio», simile a un’ombra passeggera, esile e inconsistente, immerso nel flusso del tempo che scorre, segnato dal limite che è proprio della creatura (cf Sal 143,4).

Per combattere il male

Ecco, allora, la domanda: perché Dio si cura e si dà pensiero di questa creatura così misera e caduca? A questo interrogativo (cf v. 3) risponde la grandiosa irruzione divina, la cosiddetta teofania che è accompagnata da un corteo di elementi cosmici e di eventi storici, orientati a celebrare la trascendenza del Re supremo dell’essere, dell’universo e della storia.

Ecco monti che fumano in eruzioni vulcaniche (cf v. 5), folgori che sono simili a saette che disperdono i malvagi (cf v. 6), ecco le «grandi acque» oceaniche che sono simbolo del caos dal quale è però salvato il re ad opera della stessa mano divina (cf v. 7). Sullo sfondo rimangono gli empi che dicono «menzogne» e «giurano il falso» (cf vv. 7-8), una raffigurazione concreta, secondo lo stile semitico, dell’idolatria, della perversione morale, del male che veramente si oppone a Dio e al suo fedele.

Conoscere Dio

Noi ora, per la nostra meditazione, ci soffermeremo inizialmente sulla professione di umiltà che il Salmista compie e ci affideremo alle parole di Origene, il cui commento al nostro testo è giunto a noi nella versione latina di San Girolamo.

«Il Salmista parla della fragilità del corpo e della condizione umana», perché «quanto alla condizione umana», l’uomo è un nulla. «Vanità delle vanità, tutto è vanità», disse l’Ecclesiaste. Ma torna allora la domanda stupita e riconoscente: «Signore, che cos’è l’uomo per esserti manifestato a lui?» [...] «Grande felicità per l’uomo, conoscere il proprio Creatore. In questo noi ci differenziamo dalle fiere e dagli altri animali, perché sappiamo di avere il nostro Creatore, mentre essi non lo sanno».

Vale la pena meditare un po’ queste parole di Origene, che vede la differenza fondamentale tra l’uomo e gli altri animali nel fatto che l’uomo è capace di conoscere Dio, il suo Creatore, che l’uomo è capace della verità, capace di una conoscenza che diventa relazione, amicizia. È importante, nel nostro tempo, che noi non dimentichiamo Dio, insieme con tutte le altre conoscenze che abbiamo acquisito nel frattempo, e sono tante! Esse diventano tutte problematiche, a volte pericolose, se manca la conoscenza fondamentale che dà senso e orientamento a tutto: la conoscenza di Dio Creatore.

Nel cuore della misericordia

Ritorniamo a Origene. Egli dice:

«Non potrai salvare questa miseria che è l’uomo, se tu stesso non la prendi su di te». «Signore, piega il tuo cielo e scendi».

La tua pecora sbandata non potrà guarire se non sarà messa sulle tue spalle... Queste parole sono rivolte al Figlio: «Signore, piega il tuo cielo e scendi»... Sei disceso, hai abbassato i cieli e hai steso la tua mano dall’alto, e ti sei degnato di prendere su di te la carne dell’uomo, e molti credettero in te» (Origene - Gerolamo, 74 omelie sul libro dei Salmi, Milano 1993, pp. 512-515). Per noi cristiani Dio non è più, come nella filosofia precedente il cristianesimo, una ipotesi ma è una realtà, perché Dio «ha piegato il cielo ed è sceso». Il cielo è Egli stesso, ed è sceso in mezzo a noi.

Giustamente Origene vede nella parabola della pecorella smarrita, che il pastore prende sulle sue spalle, la parabola dell’Incarnazione di Dio. Sì, nell’Incarnazione Egli è sceso e ha preso sulle sue spalle la nostra carne, noi stessi. Così la conoscenza di Dio è divenuta realtà, è divenuta amicizia, comunione. Ringraziamo il Signore perché «ha piegato il suo cielo ed è sceso», ha preso sulle sue spalle la nostra carne e ci porta sulle strade della nostra vita.
Il Salmo, partito dalla nostra scoperta di essere deboli e lontani dallo splendore divino, giunge alla fine a questa grande sorpresa dell’azione divina: accanto a noi c’è Dio-Emmanuele, che per il cristiano ha il volto amoroso di Gesù Cristo, Dio fatto uomo, fattosi uno di noi.

                                                                           Benedetto XVI
                                                                 L’Osservatore Romano, 12-01-2006


 IMMAGINI:
1 © Marina Busso / L’uomo scopre la sua dignità solo quando riconosce con umiltà la sua condizione di fragile creatura.
 Con la sua Incarnazione, Dio ha piegato il suo cielo verso la terra dell’uomo e ha steso la sua mano dall’alto, degnandosi di prendere su di Sé la carne dell’uomo.

         RIVISTA MARIA AUSILIATRICE  2007 - 5  
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