CANTICO DI ISAIA: 40,10-17....:
IL BUON PASTORE,
DIO L'ALTISSIMO E IL SAPIENTISSIMO

Nel libro del grande profeta Isaia, vissuto nell’ottavo secolo a. C., sono raccolte le voci anche di altri profeti, suoi discepoli e continuatori. È il caso di colui che gli studiosi della Bibbia hanno chiamato «il Secondo Isaia», il profeta del ritorno di Israele dall’esilio babilonese, che avvenne nel sesto secolo a.C. La sua opera costituisce i capitoli 40-55 del libro di Isaia ed appunto dal primo di questi capitoli è desunto il Cantico entrato nella Liturgia delle Lodi del giovedì della terza settimana.
Questo Cantico si compone di due parti: i primi due versetti provengono dalla fine di un bellissimo oracolo di consolazione che annunzia il ritorno degli esiliati a Gerusalemme, sotto la guida di Dio stesso (cf Is 40,1-11). I versetti successivi formano l’inizio di un discorso apologetico, che esalta l’onniscienza e l’onnipotenza di Dio e, d’altra parte, sottopone a dura critica i fabbricanti di idoli.

Come un compagno di viaggio

All’inizio dunque del testo liturgico appare la figura potente di Dio, che torna a Gerusalemme preceduto dai suoi trofei, come Giacobbe era tornato in Terra Santa preceduto dai suoi greggi (cf Gn 31,17; 32,17). I trofei di Dio sono gli Ebrei esiliati, che Egli ha strappato dalla mano dei loro conquistatori. Dio è quindi dipinto «come un pastore» (Is 40,11). Frequente nella Bibbia e in altre antiche tradizioni, questa immagine evoca l’idea di guida e di dominio, ma qui i tratti sono soprattutto teneri e appassionati, perché il pastore è anche il compagno di viaggio delle sue pecore (cf Sal 22). Egli si cura del gregge, non solo nutrendolo e preoccupandosi che non si disperda, ma anche chinandosi con tenerezza sugli agnellini e sulle pecore madri (cf Is 40,11).

Dio, l’unico artefice

Conclusa la descrizione dell’ingresso in scena del Signore re e pastore, ecco la riflessione sul suo agire come Creatore dell’universo. Nessuno può stare alla pari con lui in quest’opera grandiosa e colossale: non certo l’uomo, ed ancor meno gli idoli, esseri morti e impotenti. Il profeta ricorre poi a una serie di interrogazioni retoriche, nelle quali cioè è già inclusa la risposta. Esse sono pronunziate in una sorta di processo: nessuno può competere con Dio e arrogarsi il suo immenso potere o la sua illimitata sapienza.
Nessuno è in grado di misurare l’immenso universo creato da Dio. Il profeta fa capire come gli strumenti umani siano ridicolmente inadeguati per questo compito. D’altra parte, Dio è stato un artefice solitario; nessuno è stato in grado di aiutarlo o di consigliarlo in un progetto così immenso com’è quello della creazione cosmica (cf vv. 13-14).
Nella sua diciottesima Catechesi battesimale San Cirillo di Gerusalemme, sulla base del nostro Cantico, invita a non misurare Dio con il metro della nostra limitatezza umana: «Per te, uomo così piccolo e debole, la distanza dalla Gotia all’India, dalla Spagna alla Persia, è grande, ma per Dio, che tiene in mano tutto il mondo, ogni terra è vicina» (Le catechesi, Roma 1993, p. 408).

Il limite dell’uomo

Dopo aver celebrato l’onnipotenza di Dio nella creazione, il profeta delinea la sua signoria sulla storia, cioè sulle nazioni, sull’umanità che popola la terra. Gli abitanti dei territori noti, ma anche quelli di regioni remote, che la Bibbia chiama «isole lontane», sono una realtà microscopica rispetto alla grandezza infinita del Signore. Le immagini sono brillanti e intense: i popoli sono «come una goccia da un secchio», «il pulviscolo sulla bilancia», «un granello di polvere» (Is 40,15).
Nessuno sarebbe in grado di approntare un sacrificio degno di questo grandioso Signore e re: non basterebbero tutte le vittime sacrificali della terra, né tutte le foreste di cedri del Libano per accendere il fuoco di questo olocausto (cf v. 16). Il profeta riporta l’uomo alla coscienza del suo limite di fronte all’infinita grandezza e alla sovrana onnipotenza di Dio. La conclusione è lapidaria: «Tutte le nazioni sono come un nulla davanti a lui, come niente e vanità sono da lui ritenute» (v. 17).

Cristo, la sorpresa divina

Il fedele è, dunque, invitato, fin dall’inizio della giornata, all’adorazione del Signore onnipotente. San Gregorio di Nissa, Padre della Chiesa di Cappadocia (IV secolo), così meditava le parole del Cantico di Isaia: «Allorquando sentiamo pronunciare la parola “onnipotente”, noi pensiamo al fatto che Dio tiene insieme tutte le cose nell’esistenza, sia quelle intelligibili, sia quelle che appartengono alla creazione materiale. Per questo motivo, infatti, egli tiene il circolo della terra, per questo motivo egli ha nella mano i confini della terra, per questo motivo egli contiene il cielo con un pugno, per questo motivo egli misura l’acqua con la mano, per questo motivo egli comprende in se stesso tutta la creazione intellettuale: perché tutte le cose rimangano nell’esistenza, tenute con potenza dalla potenza che le abbraccia» (Teologia trinitaria, Milano 1994, p. 625).
San Girolamo, dal canto suo, si ferma stupito di fronte a un’altra sorprendente verità: quella di Cristo, che, «pur essendo di natura divina... spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini» (Fil 2,6-7). Quel Dio infinito e onnipotente – egli annota – si è fatto piccolo e limitato. San Girolamo lo contempla nella stalla di Betlemme ed esclama: «Lui che in un pugno racchiude l’universo, eccotelo racchiuso in un’angusta mangiatoia» (Lettera 22, 39, in: Opere scelte, I, Torino 1971, p. 379).
                                                       
Giovanni Paolo II
                                                 L’Osservatore Romano, 21-11-2002


RIVISTA MARIA AUSILIATRICE 2003-7
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