CANTICO DI ISAIA 45,15-26 :
TUTTI I POPOLI SI CONVERTANO AL SIGNORE


“Veramente tu sei un Dio misterioso” (Is 45,15).
Questo versetto, che introduce il Cantico proposto alle Lodi del venerdì della prima settimana del Salterio, è tratto da una meditazione del profeta Isaia sulla grandezza di Dio manifestata nella creazione e nella storia: un Dio che si rivela, pur restando nascosto nell’impenetrabilità del suo mistero. Egli è per definizione il “Deus absconditus”. Nessun pensiero lo può catturare. L’uomo può solo contemplare la sua presenza nell’universo, quasi seguendone le orme e prostrandosi nell’adorazione e nella lode.
Lo sfondo storico da cui nasce questa meditazione è quello della sorprendente liberazione che Dio procurò al suo popolo, al tempo dell’esilio babilonese. Chi avrebbe mai pensato che gli esuli di Israele potessero tornare in patria? Guardando alla Potenza di Babilonia essi avrebbero potuto solo disperare. Ma ecco il grande annuncio, la sorpresa di Dio, che vibra nelle parole del profeta: come al tempo dell’Esodo, Dio interverrà. E se allora aveva piegato con tremendi castighi la resistenza del faraone, ora si sceglie un re, Ciro di Persia, per sconfiggere la potenza babilonese e restituire la libertà a Israele.
“Tu sei un Dio misterioso, Dio di Israele, salvatore” (Is 45,15). Con queste parole, il profeta invita a riconoscere che Dio agisce nella storia, anche se non appare in primo piano. Si direbbe che sta “dietro le quinte”. È lui il regista misterioso e invisibile, che rispetta la libertà delle sue creature, ma al tempo stesso tiene in mano le fila delle vicende del mondo. La certezza dell’azione provvidenziale di Dio è fonte di speranza per il credente, che sa di poter contare sulla presenza costante di Colui “che ha plasmato e fatto la terra e l’ha resa stabile” (Is 45,18).
L’atto creativo, infatti, non è un episodio che si perde nella notte dei tempi, così che il mondo, dopo quell’inizio, debba considerarsi abbandonato a se stesso. Dio trae continuamente all’essere la creazione uscita dalle sue mani. Riconoscerlo è anche confessare la sua unicità: “Non sono forse io, il Signore? Fuori di me non c’è altro Dio” (Is 45,21). Dio è per definizione l’Unico. Nulla gli si può paragonare. Tutto gli è subordinato. Ne consegue anche il ripudio dell’idolatria, per la quale il profeta pronuncia parole severe: “Non hanno intelligenza quelli che portano un idolo da loro scolpito e pregano un dio che non può salvare” (Is 45,20). Come mettersi in adorazione davanti a un prodotto dell’uomo?
Alla nostra sensibilità odierna potrebbe sembrare eccessiva questa polemica, come se prendesse di mira le immagini in sé considerate, senza avvertire che ad esse può essere attribuito un valore simbolico, compatibile con l’adorazione spirituale dell’unico Dio. Certamente, è qui in gioco la sapiente pedagogia divina che, attraverso una rigida disciplina di esclusione delle immagini, ha protetto storicamente Israele dalle contaminazioni politeistiche. La Chiesa, partendo dal volto di Dio manifestato nell’incarnazione di Cristo, ha riconosciuto nel Secondo Concilio di Nicea (787) la possibilità di usare le immagini sacre, purché intese nel loro valore essenzialmente relazionale.
Resta tuttavia l’importanza di questo monito profetico nei confronti di tutte le forme di idolatria, spesso nascoste più che nell’uso improprio delle immagini, negli atteggiamenti con cui uomini e cose vengono considerati come valori assoluti e sostituiti a Dio stesso.
Dal versante della creazione, l’inno ci porta sul terreno della storia, dove Israele ha potuto sperimentare tante volte la potenza benefica e misericordiosa di Dio, la sua fedeltà e la sua provvidenza. In particolare, nella liberazione dall’esilio si è manifestato ancora una volta l’amore di Dio per il suo popolo, e ciò è avvenuto in modo così palese e sorprendente, che il profeta chiama a testimoni gli stessi “superstiti delle nazioni”. Li invita a discutere: “Radunatevi e venite, avvicinatevi tutti insieme, superstiti delle nazioni” (Is 45,20). La conclusione a cui giunge il profeta è che l’intervento del Dio di Israele è indiscutibile.
Emerge allora una magnifica prospettiva universalistica. Dio proclama: “Volgetevi a me e sarete salvi, paesi tutti della terra, perché io sono Dio, non ce n’è un altro” (Is 45,22). Così diventa chiaro che la predilezione con cui Dio ha scelto Israele come suo popolo non è un atto di esclusione, ma un atto di amore di cui tutta l’umanità è destinata a beneficiare.
Si profila così, già nell’Antico Testamento, quella concezione “sacramentale” della storia della salvezza, che vede nell’elezione speciale dei figli di Abramo, e poi dei discepoli di Cristo nella Chiesa, non un privilegio che “chiude” ed “esclude”, ma il segno e lo strumento di un amore universale.
L’invito all’adorazione e l’offerta della salvezza riguardano tutti i popoli: “Davanti a me si piegherà ogni ginocchio, per me giurerà ogni lingua” (Is 45,23). Leggere queste parole in ottica cristiana significa andare col pensiero alla rivelazione piena del Nuovo Testamento, che addita in Cristo “Il Nome che è al di sopra di ogni altro nome” (Fil 2,9), cosicché “Nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra; e ogni lingua proclami che Gesù Cristo è il Signore, a gloria di Dio Padre” (Fil 2,10-11).
La nostra lode del mattino, attraverso questo Cantico, si dilata alle dimensioni dell’universo, e dà voce anche a quanti non hanno ancora avuto la grazia di conoscere Cristo. È una lode che si fa “missionaria”, spingendoci a camminare per tutte le vie, annunciando che Dio si è manifestato in Gesù come il Salvatore del mondo.
                                                                
Giovanni Paolo II
                                                       L’Osservatore Romano 1-11-2001


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