Le Monde 13 Febbraio 2002
E se riparlassimo della scuola?
di Bruno Mattei*
Dopo dodici anni abbondanti noi sentiamo molto bene che il sistema scolastico
non risponde, o risponde molto male alle sfide che deve affrontare.
Innanzitutto una sfida di democratizzazione: differenti inchieste pubblicate
in questi ultimi tre anni mostrano in maniera convergente che, non solo le
ineguaglianze scolastiche non sono regredite, ma che si sono aggravate per
quanti riguarda i ragazzi più poveri.
La sfida di "vivere insieme" a scuola, sullo sfondo di violenze
e di inciviltà crescenti sintomi, come minimo di una confusione, in
realtà di una impotenza della relazione educativa.
La sfida di una cultura scolastica comune che arriva tanto meno a definirsi
ed a fare senso da quando lo spirito più liberale soffia adesso pressoché
dappertutto nella scuola e trasforma lungo gli anni il servizio pubblico dell'istruzione
in una amabile finzione.
Infine la sfida a rinnovare in dieci anni circa la metà del corpo insegnante
quando la formazione nei IUFM (Institut Universitaire des formation des maîtres)
non ha la possibilità, o ben poco, di rispondere alle sfide della professione,
come testimoniano l'inquietudine ed il malcontento crescenti degli studenti
in formazione.
Oggi gli oscuri brontolii e le aperte sofferenze di un malessere dell'insegnare
come dell'andare a scuola diventano nettamente percepibili durante tutto il
percorso scolastico. Si fissa il sentimento che "la riforma" di
democratico non più che la retorica e l'intenzione, tanto ha rivelato
la sua scarsa presa sulla realtà dei problemi e le loro cause profonde.
Una recente inchiesta parlamentare ha esaminato con cura le prigioni, e i
giovani, i quali, per quanto se ne sa, sono sempre presunti innocenti. Si
avrà paura di dover guardare in faccia la parte di barbarie del sistema
educativo? Neanche un anno e mezzo fa, il governo annunciò l'iniziativa
di sessanta forum e dibattiti democratici in tutta la Francia sulla questione
degli O. G. M.: i dodici milioni di giovani vite che, insieme a chi li sostiene
e li cura, frequentano le scuole meritano forse minore sollecitudine delle
piante di mais?
Vero è che, di volta in volta, c'è qualche rappresentante della
classe politica che si stupisce di tanto poco zelo a discutere pubblicamente
della scuola: "I parlamentari non si interessano all'educazione che per
due ore e mezzo l'anno, quando si parla del bilancio dello stato", rimarcava
di recente un deputato nel sottolineare che l'ultimo dibattito legislativo
sull'educazione risaliva a la legge sull'Orientamento del 1989
proprio
prima del decennio in cui tutti i segni dell'attuale degradazione stavano
per diventare visibili.
Veramente, ascoltando bene, ultimamente si sente questo o quel partito politico
sussurrare qualche riflessione sui problemi della scuola, in verità
con l'intenzione evidente di aprire il dibattito in aiuto alla campagna presidenziale.
Ma è probabile che non se ne farà niente almeno per due ragioni:
- un dibattito politico autentico farebbe apparire ciò che probabilmente
gli uni e gli altri non hanno desiderio di far capire pubblicamente: adesso
non hanno molte cose da dire, poche riflessioni ed analisi globali e di conseguenza
poche proposte all'altezza delle sfide;
- Dopo l'inizio degli anni ottanta i temi che appartenevano alla destra sono
stati incorporati dalla sinistra e viceversa.
Come se uno pseudo consenso un po' debole ed un pragmatismo di corto respiro
siano preferibili alle questioni fondamentali che in quel modo occorrerebbe
necessariamente mettersi. Che ne è delle missioni della scuola, oggi
così confuse, così poco coerenti, in verità contraddittorie?
E della famosa "uguaglianza delle opportunità", vecchio mito
repubblicano in nome del quale sono proposte tutte le politiche di riforma,
ma che oggi è riciclato nell'ideologia liberale?
Apparterrebbe all'intera società civile, o almeno alle sue forze vive
e coscienti, impadronirsi del dibattito sulla scuola. Così la si affermerebbe
come una forza determinante e legittima per modificare e riorientare la decisione
politica. Ma l'osservazione di quel che accade nei suoi diversi livelli, docente,
associativo, pedagogico o sindacale, non porta affatto all'ottimismo. Certamente
tutti nelle loro differenze non mancano mai in occasione di dibattiti pubblici
o di assemblee di rivendicare una "grande discussione nazionale".
Ma tutte le buone intenzioni sono rimaste senza domani. Esse testimoniano
la difficoltà della politica a creare, in questo paese, degli spazi
pubblici di dibattito e, per quanto riguarda la scuola, di uscire dalla dipendenza
storica e culturale nei confronti dello Stato educatore.
Il problema che la scuola e la sua crisi attuale mettono non è di natura
differente da quello che è messo da una società in crisi di
etica e di un progetto di "avanzamento della sua democrazia" (Edgar
Morin). Peguy lo diceva giusto un secolo fa: "Le crisi dell'insegnamento
sono delle crisi di civiltà
ma quando una società non
può insegnarsi è che lei ha vergona, ha paura di insegnare a
se stessa; una società che non si insegna è una società
che non si ama, che non si stima, ed è precisamente il caso della società
moderna". Tranne che oggi è forse possibile dubitare che non abbia
più neppure vergogna.
* Bruno Mattéi è professore di filosofia a l'institut universitaire
de