DANIELE 5

Il banchetto di Belshatsar e la scritta sul muro

L'episodio del banchetto sacrilego di questo capitolo 5 di Daniele, ha come protagonista Belshatsar che qui viene presentato come ultimo re di Babilonia e come figlio di Nabucodonosor.

Su Belshatsar ci sono in realtà alcune precisazioni da fare.

Anzitutto c'è da notare la rassomiglianza con il nome che venne imposto a Daniele dal capo degli eunuchi alla corte del re Nabucodonosor, come risulta dal cap. 1 v. 7 (cf anche 4, 8 e 5, 12). Pur essendo abbastanza simili questi due nomi, presentano tuttavia una lieve differenza che viene resa dalla traduzione del Diodati con una "t" in più sul nome imposto a Daniele.

Belshatsar, il nome del re,
Bel(t)shatsar, nome imposto a Daniele.

Nel Glossario che troviamo alla fine della Nuova Diodati ci viene anche data la spiegazione della leggera sfumatura di significato fra i due nomi:

Belshatsar (nome del re) significa letteralmente: "che Bel protegga il re"
Beltshatsar (nome imposto a Daniele) significa letteralmente: "che egli protegga la sua vita". La divinità che avrebbe dovuto proteggere Daniele a Babilonia era il dio stesso del re Nabucodonosor, come risulta da Dn 4, 8.

In Entrambi questi due nomi abbiamo quindi l'indicazione di una importante divinità babilonese chiamata Bel. Si tratta della forma babilonese dello stesso dio cananeo e fenicio Baal che significa "signore". Quando nella Scrittura si nomina Bel ci si riferisce in genere a Marduk, la più importante divinità del pantheon babilonese (Gr 50, 2). Oltre che in Gr 50, 2, Bel viene ricordato anche da Is. 46, 1 (assieme a Nebo, figlio di Marduk) e Gr 51, 44.

Belshatsar viene presentato come re di Babilonia e figlio di Nabucodonosor. In realtà egli era il figlio maggiore di Nabonide, ultimo re di Babilonia. Sappiamo però che Nabonide ad un certo punto del suo regno (nel 533 a.C.) trasferì la sua sede nell'oasi di Teiman in Arabia lasciando a Babilonia come suo sostituto il figlio Belshatsar, il quale esercitò le funzioni di re al posto del padre fino alla caduta di Babilonia per opera di Ciro nel 539 a.C.. Questo spiega perché egli potesse offrire soltanto il terzo posto nel regno a chi gli dava l'interpretazione della scritta sul muro, come possiamo leggere alla fine del v. 7, in quanto il secondo posto era occupato da lui che, per importanza, veniva subito dopo suo padre Nabonide nel regno di Babilonia.

Non deve neppure fare meraviglia che nel versetto 2 si faccia riferimento a Nabucodonosor come al padre di Belshatsar, pur essendo quest'ultimo soltanto un suo discendente. Spesso nel linguaggio semitico, e quindi anche nella Bibbia, il termine "padre" non sempre indica la paternità diretta, ma può designare anche un antenato, come di fatto lo era Nabucodonosor nei confronti di Belshatsar, giacché dopo di lui vi furono altri tre re prima di Nabonide.

Belshatsar, quindi nelle sue funzioni di reggente al posto del padre Nabonide, come erano soliti fare  gli antichi monarchi orientali, prepara un banchetto al quale invita tutti i maggiori esponenti della sua corte e dell'amministrazione dell'impero. Abbiamo un esempio di questa usanza dei monarchi orientali anche in Ester 1, 3, dove si parla di un banchetto preparato dal re Assuero per i suoi principi e servi.

 L'espressione "a mille dei suoi grandi" non va intesa ovviamente in senso letterale, come se effettivamente gli invitati fossero mille, ma è un'espressione generica per indicare la totalità dei suoi dignitari di corte e degli amministratori dell'impero e che potrebbe anche essere tradotta con il termine "tutti i suoi grandi" cioè l'insieme di tutti i suoi dignitari di corte e di tutti gli amministratori dell'impero.
Come ci insegna il prof.Italo Minestroni nella sua dispensa sull'Apocalisse a pagina 4, 1000 è un numero generico di grandezza che indica la totalità. Ad esempio nell'Apocalisse il numero 144.000 indica la totalità della Chiesa militante dell'Antico e Nuovo Testamento, perché questo numero è formato da un multiplo di 12 (12x12=144) moltiplicato per 1000 ed il 12 a sua volta indica l'elezione divina (vedi i 12 figli di Giacobbe, le 12 tribù, i 12 apostoli).

L'episodio viene subito inserito nel suo contesto religioso da cui acquista particolare interesse per la storia della salvezza. Il banchetto offerto dal re Belshatsar a tutta la sua corte, a causa dell'abbondanza di vino bevuto dal re e dai suoi commensali, degenera ben presto in un banchetto sacrilego in cui vengono profanati i vasi d'oro e d'argento portati via dal tempio da Nabucodonosor, come ci era già stato anticipato in Dn, 1, 2. In 2 Re 25, 14-15 abbiamo una descrizione ancora più dettagliata degli utensili che vennero prelevati dal tempio di Gerusalemme e portati a Babilonia.

Pur trattandosi di un festino a sfondo sociale e non di carattere rituale, il sacrilegio viene compiuto ugualmente in quanto si trattava di vasi sacri usati per il culto e che non potevano essere usati per altri scopi profani. Specificando poi che i vasi erano stati portati via dal santuario del tempio (v. 3) si vuole qui ribadire che tali utensili erano adibiti esclusivamente per gli atti di culto nel tempio. Il termine generico di tempio designa infatti l'insieme delle tre parti di cui era composto questo luogo sacro, mentre il santuario è quella parte intermedia tra il vestibolo ed il Santo dei Santi, dove effettivamente si svolgeva ogni atto di culto. A questo sacrilegio partecipano indistintamente tutti: il re, i suoi dignitari ed anche le sue mogli e le sue concubine che probabilmente banchettavano in sale separate, come era usanza nelle corti orientali.

La descrizione dell'esecuzione dell'ordine del re ha lo scopo di mettere in evidenza concretamente l'atto del sacrilegio compiuto e di motivare quindi l'intervento di Dio per annunziarne la conseguente punizione,
Al v. 4 viene inoltre aggiunto che non si limitarono soltanto a bere il vino in questi vasi sacri, prelevati dal tempio di Gerusalemme, ma, nell'ebbrezza provocata da questa bevanda, si misero pure a lodare i loro dei. L'autore e gli altri profeti, con una certa nota di disprezzo per questi dei e per i loro adoratori, precisano che essi erano soltanto degli idoli costruiti dalla mano dell'uomo con una grande varietà di materiali, quali l'oro, l'argento, il bronzo, il legno, la pietra. Con questa precisazione essi vogliono sottolineare l'inferiorità di questi idoli rispetto all'unico Dio di Israele che è invece il Creatore di ogni cosa. Vediamo alcuni passi in Sl 115, 1-8; Is 40, 17-31 Gr 10, 1-16; Ap 9, 20.

Data l'enormità di questo sacrilegio compiuto da Belshatsar e dai suoi invitati, non poteva mancare l'intervento divino che avviene improvvisamente. Mentre essi erano ancora intenti nel loro banchetto sacrilego, in quello stesso momento, ecco apparire le dita di una mano d'uomo che si mettono a scrivere sulla parete intonacata della sala in cui erano riuniti i commensali.

Il versetto 5 ci dice che «apparvero le dita di una mano d'uomo». Da questa espressione sembra che si vedano soltanto le dita, ma si capisce che si tratta delle dita che compongono la mano di un uomo, capaci dunque di scrivere e di esprimere con la scrittura qualche pensiero. L'apparizione delle dita di questa mano d'uomo era tanto più impressionante in quanto illuminata anche sinistramente dal candelabro che si trovava probabilmente tra i commensali e la parete stessa. Non ci è dato comunque di sapere se tale candelabro facesse parte dell'arredo normale della sala o se si trattasse di uno dei candelabri trafugati da Nabucodonosor nel tempio di Gerusalemme assieme a tutti gli altri utensili (Gr 52,19).

Poiché ci viene detto anche alla fine del v. 5 che il « il re vide parte di quella mano che scriveva », possiamo supporre che tale apparizione fu vista soltanto da lui, al quale era diretto questo segno misterioso, come del resto ci viene confermato poi anche dal successivo v. 6, nel quale viene descritto il suo turbamento e non quello degli altri commensali.

Alla vista di questa mano che scriveva delle parole misteriose sulla parete, il re fu profondamente scosso al punto da avvertire anche fisicamente i sintomi del suo turbamento: il viso impallidisce, le ginocchia cominciano a tremare, la forza viene meno ed i pensieri vagano smarriti alla ricerca di una spiegazione plausibile, di un senso da dare a quell'improvvisa manifestazione misteriosa.

Passato il primo stupore, trova la forza per gridare che si facciano entrare gli astrologi, i Caldei e gli indovini affinché leggano quella scritta e ne diano l'interpretazione. Come per i sogni di cui si parla in Dn 2, 4 e 4, 6, così anche per le apparizioni misteriose, il ricorso alle arti magiche è una questione di ordinaria amministrazione nelle religioni dell'antico oriente, in quanto si riteneva che tali arti potessero svelare i segreti della divinità. «gli astrologi, i Caldei e gli indovini » sono una delle tante elencazioni di categorie di persone dedite alle arti magiche che troviamo molto spesso nel libro di Daniele (Dn 1, 20; 2, 2; 4, 7). Di solito sono nominate quattro categorie di persone, come ad es. in Dn 2, 2 e 4, 6, oppure due solo come in Dn 1, 20, o anche una sola, cioè i savi di Babilonia (Dn 2, 14.24.48) o Caldei (1) (Dn 2, 5.10).
« Il re prese a dire ai savi di Babilonia . . . » (v. 7b). Come per l'interpretazione del sogno di Nabucodonosor (Dn 2, 3-13), così ora Belshatsar promette ai sapienti preziosi regali se gli decifreranno la scrittura misteriosa, senza però aggiungere alcuna minaccia in caso contrario, come aveva fatto Nabucodonosor:

– « sarà rivestito di porpora»: anche il Faraone aveva fatto indossare vesti di lana fine a Giuseppe (Gn 41, 42) ed il re Assuero al suo preferito (Est 6, 7.11; 8, 15);
– « porterà una collana d'oro al collo»: la stessa cosa aveva fatto il Faraone con Giuseppe (Gn 41, 42);
– « sarà terzo nel governo del regno»: come abbiamo visto più sopra dopo Nabonide e Belshatsar.
Giuseppe invece era secondo dopo il Faraone (Gn 41, 40), cioè era il viceré.

L'impossibilità dei sapienti babilonesi di accondiscendere alle richieste del re, porta ancora una volta alla ribalta l'esule giudeo Daniele. Intermediaria questa volta è la regina madre, considerata come la testimone di quanto era avvenuto ai tempi di Nabucodonosor.

La condizione dei savi è la stessa del caso dei sogni di Nabucodonosor: Così come non riuscirono allora a raccontare il sogno e a darne l'interpretazione, ora non sanno leggere la scritta né tanto meno sanno darne l'interpretazione.

Di fronte all'incapacità dei savi di leggere ed interpretare la scritta, il turbamento del re aumenta ancora di più. Al suo turbamento si unisce questa volta anche lo smarrimento dei dignitari di corte, costernati per il presagio che non si rivelava per nulla buono. Come mai in questa occasione nessuno si ricorda di interpellare Daniele? Probabilmente i dignitari di corte se ne ricordarono, ma, come apparirà in seguito (cap. 6), essi non avevano molta simpatia per questo esule giudeo che stava diventando sempre più una persona importante del regno.

A questo punto entra in scena la regina. Molto probabilmente si trattava della regina madre che, dopo il re, esercitava sempre una grande influenza nelle corti dell'antico oriente, come ci viene anche testimoniato da alcuni passi della Bibbia relativi ad Israele nel periodo dei re (2 Re 24, 12.15; Gr 13, 18; 29, 2; 2 Cr 15, 16).

La regina madre, come apprendiamo dal v. 10, fa il suo ingresso nella sala del banchetto al quale essa evidentemente non aveva partecipato, ma molto probabilmente era stata informata della situazione da qualche servo, oppure aveva udito dall'esterno della sala le parole del re e dei suoi dignitari. Essa si rivolge a Belshatsar con la consueta frase augurale : « O re, possa tu vivere per sempre». Questa frase certamente faceva parte del cerimoniale di corte in quanto veniva sempre ripetuta da tutti coloro che si rivolgevano al re, come abbiamo avuto modo di constatare nei capitoli precedenti, quando qualcuno si rivolgeva a Nabucodonosor (Dn 2, 4; 3, 9). Dopo tale frase augurale, la regina esorta il re a non aver timore e a non essere dominato dagli effetti del suo spavento che si manifestavano, come abbiamo visto, anche fisicamente con il pallore del volto ed altri sintomi. Vediamo che in questo episodio si insiste molto su questi effetti fisici provocati dalla paura. Evidentemente si vuole sottolineare il turbamento provocato su Belshatsar dalla scritta nel muro.

La regina fornisce anche al re dei buoni motivi per non avere timore ricordandogli che nel suo regno c'era un uomo dai poteri singolari che al tempo del suo antenato ("padre") Nabucodonosor aveva dimostrato delle doti straordinarie nell'interpretazione dei sogni per cui era stato nominato dal re capo dei savi di Babilonia. Si trattava di Daniele a cui il re Nabucodonosor aveva a suo tempo imposto il nome di Beltshatsar.

Nei vv. 11 e 12 la regina elenca tutta una serie di prerogative che avevano lo scopo di convincere il re che Daniele era la persona più qualificata del regno per interpretare la scritta.
Essa inizia dunque dicendo che in Daniele c'è « lo spirito degli dei santi». Questa era ormai la convinzione della corte dopo la spiegazione del sogno dell'albero del capitolo 4. In quell'occasione lo stesso Nabucodonosor si era rivolto a Daniele con le stesse parole (Dn 4, 18). La regina ricorda inoltre a Belshatsar che al tempo del suo antenato Nabucodonosor erano state riconosciute a Daniele «luce, intendimento e sapienza ». Il testo fa riferimento direttamente a Dn 1, 17 dove tali doni sono riconosciuti anche ai compagni di Daniele. Le stesse prerogative però vengono riconosciute da Nabucodonosor direttamente solo a Daniele dopo la spiegazione dei sogni, anche se con parole diverse (Dn 2, 47; 4, 18).
La regina aggiunge che tutte queste doti «sono simili alla sapienza degli dei» ripetendo in tal modo, ma da un punto di vista pagano, quanto Daniele stesso aveva già affermato davanti a Nabucodonosor dando però alle sue parole un senso ben diverso (Dn 2, 27-28; cf anche 2, 23).

Scendendo più nel concreto la regina prosegue dicendo che il suo antenato Nabucodonosor aveva riconosciuto le doti di Daniele e lo aveva stabilito capo dei maghi, degli astrologi, dei Caldei(2) e degli indovini. Perché, aggiunge la regina, in questo Daniele, a cui era stato imposto il nome di Beltshatsar, fu trovato:

– « uno spirito straordinario»: in Dn 1, 20 è detto che Nabucodonosor trovò i quattro Giudei esiliati dieci volte superiori a tutti i sapienti del regno su ogni argomento che richiedeva sapienza ed intendimento;
– « conoscenza ed intendimento»: Dn 1, 17;
– « abilità nell'interpretare i sogni»: Dn 2, 28; 4, 6.18;
– « spiegare enigmi»: questa era una forma di sapienza conosciuta anche dal po-polo ebraico (Gdc 14, 12-19, l'indovinello di Sansone), specialmente dai profeti (Ez 17, 2) e dai sapienti (Prov. 1, 6; 1 Re 10, 1; Sl 49, 4);
– « risolvere questioni complicate»: letteralmente è: "sciogliere i nodi", espressione immaginosa, che rende più efficacemente il senso di quella precedente.

Alla fine, dopo aver elencato e magnificato le doti superiori di Daniele, la regina conclude in tono imperioso, confacente al suo rango di "regina madre": «Si chiami dunque Daniele ed egli darà l'interpretazione».

Daniele interpreta la scritta sul muro

Alla fine il re Belshatsar, convinto dalle parole della regina madre, fa introdurre Daniele alla sua presenza. I versetti da 13 a16 sono una cronistoria dell'antefatto, conforme allo stile narrativo di questi racconti. Essa serve comunque  a far proclamare ufficialmente da parte di Belshatsar l'intervento di Daniele nella questione della scritta misteriosa.

Come prima cosa il re sembra volersi accertare sulla identità del personaggio che gli sta dinanzi chiedendogli: «Sei tu Daniele, uno degli esuli di Giuda, che il re mio padre condusse dalla Giudea? ». Ma la domanda è puramente formale essa serve solo a presentare e riconoscere per la prima volta, durante il regno di Belshatsar, Daniele come membro di quel piccolo popolo, disperso dalla potenza babilonese, così come era già avvenuto durante il regno di Nabucodonosor (Dn 1, 2-4). Belshatsar infatti non attende neppure la risposta, ma prosegue nel suo discorso ripetendo quanto aveva già udito dalla regina madre al v. 11: « Ho inteso di te . . .». La ripetizione da parte del re Belshatsar delle qualità, già udite dalla regina madre, sembrano accreditare ufficialmente Daniele al rango dei sapienti di Babilonia e quindi adatto ad essere interrogato sulle questioni che questa categoria speciale di sapienti era chiamata a risolvere.

Al versetto 15 viene ripetuto il fallimento dei savi e degli astrologi i quali, come già detto al v. 8, non erano stati capaci né di leggere né di interpretare la scritta. Questa volta Belshatsar dice soltanto che essi non hanno saputo dare l'interpretazione della scritta, tacendo sul fatto che essi non hanno saputo neppure leggerla.

Nel v. 16 all'incapacità dei savi di Babilonia di dare un'interpretazione alla scritta murale, viene contrapposta la capacità di Daniele di assolvere a questo compito: «Ho invece inteso dire di te . . . ». Se queste capacità di Daniele saranno dimostrate concretamente con la lettura e l'interpretazione della scritta, allora il re promette a Daniele gli stessi onori che aveva già promesso ai savi di Babilonia (v. 7).

Nei vv. 17-28 come un profeta del passato, ma in veste di sapiente, Daniele prende il tono di colui che rivela un giudizio di Dio. Nella prima parte del suo discorso profetico che va dal v. 17 al 21 egli rievoca la sorte del regno di Nabucodonosor richiamando la visione dell'albero che abbiamo già visto nel capitolo 4. Nella seconda parte che va dal v. 22 al 28 svela il senso della scritta.

Egli inizia la prima parte del suo discorso al v. 17 respingendo i doni offerti dal re, ma assicurando nel contempo la sua disponibilità a leggere ed interpretare la scritta: «Tieni pure i tuoi doni e dà ad un altro le tue ricompense ». La libertà del profeta è assoluta. Il suo intervento non può essere distorto da ricompense, come aveva cercato di fare Balak, re di Moab, con l'indovino Balaam (Nm 22, 6-7; Nm 24, 11-13) per indurlo a maledire Israele, oppure da minacce come aveva voluto fare il re di Israele nei confronti di Michea (1 Re 13-28). Il profeta, specialmente sapiente, si esprime con brevi sentenze ritmiche. All' espressione: « Tieni pure i tuoi doni» ne segue immediatamente un'altra «e dà ad un altro le tue ricompense» che è in parallelismo antitetico con la prima.

L'espressione che segue al v. 18 «O re » che dalla traduzione del Diodati potrebbe sembrare un semplice appellativo con cui Daniele si rivolge a Belshatsar, nasconde in realtà il tentativo di Daniele di mettere il suo interlocutore di fronte alle proprie responsabilità. In altre parole qui Daniele vuole rimarcare il fatto che Belshatsar è il re, cioè colui che ha ereditato il potere di Nabucodonosor. Le parole seguenti « il Dio Altissimo » rappresentano la designazione del vero Dio, come già era avvenuto in Dn 3, 26 e 4, 32; ripetuto poi anche in Dn 5, 21. « regno, grandezza, gloria e maestà» sono quasi le stesse parole con cui Daniele inizia la spiegazione del sogno di Nabucodonosor della statua in Dn 2, 37. Quasi la stessa cosa afferma anche Nabucodonosor di se stesso dopo essere guarito dalla malattia (Dn 4, 36).

Nel v. 19 viene affermata l'universalità del regno di Nabucodonosor, come già era stato riconosciuto in Dn 2, 38. « tutti i popoli, tutte le nazioni e lingue» è una tipica espressione del libro di Daniele per sottolineare l'universalità del potere esercitato dagli imperi pagani ed in modo particolare da quello babilonese nella persona del suo monarca Nabucodonosor, rappresentante tipico della monarchia pagana. Troviamo la stessa espressione ripetuta in Dn 3, 4; 4, 1; 6, 25. «tremavano e temevano davanti a lui», non solo come effetto del potere che il re esercitava sopra i popoli, ma anche per la sua maniera tirannica e dispotica che lo caratterizzava: aveva potere di vita e di morte su tutti i suoi sudditi. «faceva morire chi voleva e lasciava in vita chi voleva, innalzava chi voleva e abbassava che voleva »: questa descrizione rappresenta Nabucodonosor come un re talmente orgoglioso da attribuirsi gli stessi poteri di Dio (Dt 32, 39).

Nel v. 20 viene detto che il peccato di Nabucodonosor consiste nel fatto che, nonostante avesse ricevuto tanto potere, non riconobbe di averlo ricevuto da Dio, come era già avvenuto nel racconto del sogno dell'albero al cap. 4. Invece addirittura si paragona a Dio stesso, come ci viene descritto da Isaia, il quale nel capitolo 14, 1-23 parla della liberazione di Israele e della caduta di Babilonia, soffermandosi a descrivere in modo particolare ai vv. 13-14 il carattere e le aspirazioni del suo massimo esponente.

L'espressione «il suo cuore si innalzò » viene usata normalmente nella Bibbia per designare colui che si mette in opposizione con Dio (Dt 8, 14; 17, 20; Ez 31, 10; Os 13, 6), mentre « il suo spirito si indurì fino all'arroganza » indica il comportamento di colui che non si ravvede nonostante le ammonizioni che Dio gli rivolge per mezzo delle opere o per mezzo dei suoi inviati. Tale infatti era stato il caso di Nabucodonosor che, nonostante fosse stato ammonito con il sogno del grande albero(cap. 4), non si era ravveduto e per questo motivo « fu deposto dal suo trono reale e gli fu tolta la sua gloria ». Nella Bibbia troviamo lo stesso indurimento nel Faraone che, nonostante gli avvertimenti di Mosè e le piaghe mandate da Dio per convincerlo, non aveva lasciato uscire gli Ebrei dall'Egitto; anche lui ed il suo popolo furono puniti con l'uccisione dei primogeniti (Es. 4, 21; 7, 13-22; 9, 12; 10, 20.27; ecc.). Anche le città cananee si indurirono resistendo con le armi all'ingresso di Israele nella Terra Promessa e furono sterminate (Gs 11, 20).

Il v. 21 è una riedizione di quanto già detto nel versetto 25 del capitolo 4, circa la punizione temporanea di Nabucodonosor. Questa e le altre espressioni simili che troviamo ripetute e disseminate nei diversi racconti dei primi sei capitoli del libro di Daniele costituiscono un'evidente prova dell'unità di questo libro.

Con il v. 22, dalla rievocazione del regno di Nabucodonosor, si passa ora alle conseguenze per l'attuale suo discendente. Belshatsar, pur conoscendo bene la storia del suo antenato, specialmente il senso della visione del grande albero del capitolo 4, non aveva «umiliato il (suo) cuore» e quindi anche lui avrebbe fatto la stessa fine.

Con il v. 23 Belshatsar viene messo di fronte alle proprie responsabilità con la rievocazione di quanto era avvenuto in occasione del banchetto sacrilego (vv. 2-4). Così come aveva già fatto il suo antenato Nabucodonosor (v. 20) anche lui si era «innalzato contro il Signore del cielo» mettendosi quindi in opposizione con Dio. Belshatsar non viene punito per le azioni commesse dal suo antenato, ma per le sue azioni personali. Daniele nelle vesti di inviato di Dio gli ricorda in maniera particolareggiata le azioni da lui commesse, che lo hanno reso personalmente colpevole.

– « ti sei fatto portare davanti i vasi del suo tempio »
– « in essi avete bevuto vino tu, i tuoi grandi, le tue mogli e le tue concubine »
– « hai lodato gli dei d'argento, d'oro, di bronzo, di ferro, di legno e di pietra »

Si tratta, come abbiamo detto, della ripetizione dei versetti 2, 3 e 4, ma questa volta  però Daniele non si limita alla semplice elencazione  di questi idoli fabbricati dall'uomo, ma ne sottolinea anche l'inconsistenza, aggiungendo che essi «non vedono, non odono e non comprendono»; in pratica sono il nulla. La colpa grave di Belshatsar quindi è consistita nell'aver dato la preferenza a questo nulla anziché glorificare Dio nelle cui mani risiede la sua vita ed il suo destino.

Questo è il motivo per cui è stata mandata da Dio al re la parte della mano che ha tracciato la scritta (v. 24).

Dal versetto 25 al 28 abbiamo la lettura e la spiegazione della scritta. Secondo Teodozione e la Vulgata la scritta si comporrebbe di sole tre parole: « MENÈ, TEKEL, PERES» che sono quelle che vengono poi spiegate nei versetti. successivi. Ma si tratterebbe di un testo facilitante che molto probabilmente è stato armonizzato con le tre parole della successiva spiegazione. Nel testo masoretico invece, che è seguito anche dalla traduzione del Diodati, troviamo quattro parole: MENÈ, MENÈ, TEKEL UFARSIN . Si tratta di un rebus che può essere interpretato letteralmente, prima di tutto, come un'elencazione di unità monetarie: È contato: una mina, un siclo e dei mezzi (sicli); su questo rebus si innesta l'interpretazione di Daniele delle tre parole principali.

La spiegazione data da Daniele evidentemente non è quella letterale, ma è ricavata secondo l'etimologia popolare semita, che viene desunta per assonanza tra il significato originale della parola e quello simbolico della cosa significata.

Questa è la spiegazione data da Daniele:

v. 26: «MENE : Dio ha fatto il conto del tuo regno ». Si tratta ovviamente della durata del regno di Belshatsar. « e gli ha posto fine». La sua durata dunque dipende dalla volontà di Dio. In queste due espressioni c'è l'idea di un evento che si compie presto e inaspettatamente.

v. 27: «TEKEL: Tu sei stato pesato sulle bilance ». La condotta dell'uomo è pesata da Dio per vedere se essa è conforme o meno alle leggi divine della rettitudine. L'immagine di Dio che giudica il comportamento degli uomini pesandoli non è nuova nella Bibbia (Gb 31, 6; Pv 16, 2; 21, 2; 24, 12). « e sei stato trovato mancante ». Questo esame sulle bilance non è risultato positivo per Belshatsar perché evidentemente in lui il bene era inferiore al male e per questo motivo è stato trovato mancante, cioè al di sotto del limite e quindi delle aspettative di Dio.

v. 28: «PERES: il tuo regno è stato diviso ». La divisione non significa di per se sottrazione del regno; ma quest'ultimo concetto viene espresso dalla frase successiva: « ed è stato dato ai Medi ed ai Persiani ». Letteralmente si dovrebbe tradurre: « alla Media e alla Persia». Si nota qui una certa assonanza tra la parola «PERES» e la parola «Persia» con la quale, insieme alla Media fu diviso il regno babilonese.

Nel v. 29 abbiamo l'epilogo del racconto nel quale si descrive il mantenimento delle promesse fatte dal re a Daniele al v. 16.

Nel v. 30 l'avveramento immediato della predizione di Daniele che conferma la verità della sua interpretazione e quindi dell'intervento punitore di Dio nei confronti dell'empio monarca. In questo modo si chiude anche la storia dell'impero babilonese che tutti ritenevano eterno.

« In quella stessa notte Belshatsar, re dei Caldei, fu ucciso »: Secondo gli storiografi greci Senofonte ed Erodoto, Babilonia fu presa durante la notte, quasi inavvertitamente, mentre si stava banchettando festosamente. Probabilmente il racconto si ispira a questi ricordi. La chiusura del v. 31 ci introduce già nel racconto successivo del capitolo 6.


NOTE A MARGINE
(1) I critici hanno osservato chi il termine etnico «Caldei», designante la razza di Nabucodonosor,  non avrebbe potuto servire per individuare una classe speciale di indovini se non in un'epoca molto tardiva. Al tempo di Nabucodonosor questo nome poteva di certo avere solo una connotazione etnica e razziale. Ciò indica di conseguenza che l'autore del libro di Daniele deve aver scritto la sua opera molto tempo dopo la caduta del neo-impero babilonese, quando cioè esso era solo un ricordo mnemonico. Questa ipotesi tuttavia non si accorda con i dati del testo in quanto l'autore dimostra di conoscere che «Caldei» era anche un termine etnico per designare la razza di Nabucodonosor. Infatti in Dn 5, 30 Belshatsar è presentato come re dei Caldei, per cui in tale caso il vocabolo non si riferisce ad alcuna classe di saggi. La teoria della datazione tardiva non riesce dunque a spiegare dei fatti come questi. Dobbiamo quindi ricercare un altro senso al termine «Caldei». Erodoto parla dei Caldei in modo da indurci a pensare che essi si fossero immessi ben presto in ogni ufficio strategico della politica babilonese, appena essi ebbero conquistato il controllo della capitale. Se tale fu la situazione, allora il termine «Caldei» può ben presto essere divenuto un nome usato per i sacerdoti di Bel-Marduk. Abbiamo comunque anche un'altra spiegazione formulata da R.D. Wilson (Studies in the Book of Daniel, Series 1) per il quale l'accadico Kasdu o Kaldu si riferirebbe ad un tipo di sacerdoti; tale vocabolo deriverebbe dal sumero Galdu con il senso di «maestro, costruttore»; si riferirebbe quindi alla costruzione delle tavole astronomiche che erano usate per aiutare le predizioni astrologiche. Wilson trova un tale uso di Galdu in una tavoletta del quattordicesimo anno di Shamash-shumakin di Babilonia (668-648 a.C.). Si dovrebbe pure osservare che si è rinvenuto un gran numero di titoli sumeri che contengono l'elemento Gal «grande», «capo», «maestro». La somiglianza tra questo Galdu o Kaldu e l'etnico Kaldu (o Kasdu) è puramente accidentale. Questa spiegazione potrebbe chiarire i differenti usi di questo termine da parte dell'autore del libro di Daniele. torna al testo

(2) Per questa nuova lista di sapienti, vedere quanto già detto in occasione del v. 7. torna al testo