IL DESTINO DELL’UOMO

«Tra noi e l’inferno o il cielo c’è di mezzo soltanto la vita, che è la cosa più fragile del mondo » B. Pascal, Pensieri

da un articolo di Adriano Tommasi pubblicato nella rivista "Cristianesimo Oggi" n. 1, 1994

Chi sono?
Da dove vengo?
Dove vado?
Qual è lo scopo della mia vita?
Cosa c’è dopo la morte?

Sono questi gli interrogativi fondamentali che ogni uomo prima o poi si pone nella sua vita. Fa parte di un bisogno innato rispondere a queste domande, e dare risposte precise a questi interrogativi è fondamentale per ciascuno di noi. Infatti, come possiamo pensare di dare una direzione alla nostra vita, decidere come vorremmo impiegarla, se non sappiamo cos’è, se non ne capiamo il senso profondo?

L’uomo ha cercato da sempre di risolvere questi quesiti esistenziali nei modi più disparati e con le teorie più varie. Ma, sostanzialmente, le possibili risposte a queste domande si riducono a due grandi filoni: quella materialista e quella trascendente.

MATERIALISMO

Il materialismo si basa su una concezione meccanica del creato, nel senso che lo vede come un grande meccanismo regolato unicamente dalle leggi della fisica. Secondo questa visione del mondo, tutto è determinato con certezza: il moto dei pianeti, i cicli delle stagioni, le nostre secrezioni ghiandolari, anche le nostre emozioni, tutto è il frutto dell’incessante scontrarsi di atomi ed interagire di forze. Ogni effetto ha la sua causa perché ogni avvenimento è guidato dalle leggi naturali che i nostri scienziati vanno via via scoprendo; se potessimo conoscere appieno tutte queste leggi, saremmo allora in grado di prevedere con assoluta certezza qualsiasi evento del nostro universo perché tutto risulta rigidamente predeterminato.

La nascita dell’universo è spiegata grazie alle più recenti teorie cosmologiche (nessuna delle quali è però pienamente soddisfacente). La vita sul nostro pianeta è spiegata tramite l’evoluzionismo, che vede la nascita della vita come un evento casuale: la nascita della prima cellula vivente avvenuta in maniera del tutto fortuita nel brodo primordiale del mare antico e da essa il lento sviluppo delle varie specie viventi. L’uomo è derivato dalla scimmia, la quale a sua volta è derivata da forme di vita più rozze, e via via su fino ai primi organismi unicellulari.

Insomma chi siamo? Solo delle scimmie molto evolute . . . nulla di più. Dove andiamo? Siamo destinati a tornare in quella polvere da cui la vita è nata milioni di anni fa. Il nostro io, la nostra coscienza termina con la nostra vita biologica. Quando il nostro corpo morirà, la nostra mente cesserà di pensare e noi cesseremo semplicemente di esistere. Gli atomi del nostro corpo si disgregheranno, andranno a formare nuove entità, forse nuovi esseri viventi. Ma a lungo andare anche il sole smetterà di ardere, la sua luce si spegnerà, e a poco a poco, tra miliardi di anni, l’intero universo si consumerà nella morte termica predetta dalla seconda legge della termodinamica.

TRASCENDENTE

Ma è proprio così, allora? Siamo solo degli "animali", anche se molto evoluti? Al di là di tutte le dissertazioni scientifiche e delle considerazioni che si possono fare sulla fondatezza delle teorie sull’origine dell’uomo e dell’universo, c’è sempre stato qualcosa che non mi ha convinto, che mi ha lasciato perplesso. Ci sono delle cose che ci differenziano parecchio dagli animali, da tutti gli animali e che non possiamo non considerare. L’uomo ha una coscienza morale, ha la sensazione di distinguere fra il bene ed il male.

La specie umana è l’unica ad avere la coscienza della morte. L’uomo è l’unico animale che sia consapevole di dover morire, e spesso si rifiuta di ammettere la morte come un’estinzione totale. Anzi, contrariamente alle evidenze che provengono dai sensi (l’invecchiamento, le rughe, le malattie, il disfacimento del corpo), molti uomini sostengono che l’anima non muore. E questa è una caratteristica universalmente diffusa. Non c’è popolazione, tribù o clan che non ammetta in qualche modo la sopravvivenza dell’anima e non tratti i propri defunti con riti particolari.

Come osserva un illustre etnologo: «E’ stato detto che, se la verità di un assunto dipendesse dal numero di persone che in esso credono, nessuna teoria del mondo sarebbe più vera dell’immortalità dell’anima. Siamo qui di fronte a uno di quei rari motivi culturali sempre ricorrenti che possono essere presi come "universalmente umani": non c’è dubbio che il materialista moderno, negatore di ogni immortalità individuale, si pone contro uno dei più antichi e costanti convincimenti dell’intero genere umano» (V. Grottanelli, L’Uomo e la società, Labor Milano 1965, vol. III, p. 346).

Dunque tutti gli uomini sono consapevoli di dover morire e si rifiutano di accettare l’idea di una fine totale. Negli animali invece, non solo non c’è alcun indizio per ammettere una loro sopravvivenza, ma essi neppure sanno cos’è la morte. Possiamo allargare ancora di più il discorso. La specie umana potrebbe essere definita "Homo religiosus". La ragione di questa definizione sta nel fatto che non vi è razza o popolazione che non manifesti qualche credenza religiosa o soprannaturale.

L’uomo tende istintivamente a credere in un’entità trascendente, cioè posta al di fuori della realtà terrena, e ad essa riconosce attributi divini e rende atti di culto e venerazione. Insomma, anche se qualcuno si dichiara ateo, l’uomo è essenzialmente religioso, come è generalmente portato per la musica, anche se molti sono stonati.

E’ vero che le varie religioni, le varie credenze sono molto diverse tra loro. Ma hanno qualche cosa che le accomuna. L’uomo accoglie dentro di sé, nella sua mente, pensieri e concetti assolutamente estranei al mondo sensibile: accetta e comprende i concetti di Assoluto, di Eternità, discute e descrive l’Ultraterreno, cioè un mondo che non ha mai visto né sentito né toccato. Per dirla con una parola un po’ difficile, ha delle capacità "metafisiche" (da una parola greca che indica tutto ciò che va oltre il nostro mondo di quaggiù, oltre i nostri sensi).

LA PROPOSTA DI CRISTO

Se tutto rimanesse a questo stadio, l’idea di qualcosa dopo la morte resterebbe appunto un’ idea, una vaga sensazione dentro di noi. Sensazione che ci è impossibile rendere più concreta proprio perché riguarda una realtà, il mondo ultraterreno, che non possiamo vedere né conoscere. Se dipendesse da noi, si fermerebbe tutto qui, e nulla potremmo fare per scoprire se effettivamente esiste l’aldilà.

E’ a questo punto che ci viene incontro la figura di Cristo il quale, definendosi Dio, attesta di provenire proprio da quel mondo ultraterreno di cui vorremmo avere maggiori notizie. E Gesù queste notizie ce le dà. Nel vangelo di Giovanni, Cristo afferma: «Io sono la via, la verità e la vita; nessuno viene al Padre se non per mezzo di me. Se m’aveste conosciuto, avreste conosciuto anche mio Padre; e fin da ora lo conoscete, e l’avete veduto» (Giovanni 14, 6-7).

Cristo è venuto per raccontarci cosa c’è dopo la nostra morte, egli ci descrive l’aldilà e chi vi abita, ci permette di conoscere la mente di Dio, che mai avremmo potuto sondare con le sole nostre forze. Il senso della nostra esistenza si trasforma allora totalmente. La nostra vita non finisce qui, con la morte del corpo, ma si proietta oltre questo mondo terreno.

Attraverso le rivelazioni di Cristo, le terribili domande esistenziali che da sempre angosciano l’uomo, trovano immediatamente risposta. Dubbi assillanti, quali " chi sono?" o " dove vado?", non hanno più ragione di essere, perché Cristo viene a dare un significato alla nostra vita, ne cambia la prospettiva, facendocela vedere come un breve passaggio prima di entrare nell’eternità: « E questa è la vita eterna - dice Gesù - che conoscano te, il solo vero Dio, e colui che tu hai mandato, Gesù Cristo» (Giovanni 17, 3).

Gesù porta una soluzione al problema della morte. Con tono rassicurante ci tranquillizza: «Io sono la resurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore vivrà; e chiunque vive e crede in me, non morrà mai» (Giovanni 11, 25-26). La sua morte in croce e la sua resurrezione sono la prova tangibile che egli terrà fede a queste promesse. Per il cristiano la vita non si conclude con la morte; i cristiani morti, infatti, vengono addirittura definiti "beati " dalla Scrittura: «Beati i morti che d’ora in avanti muoiono nel Signore. Si, dice lo Spirito, affinché si riposino dalle loro fatiche, perché le loro opere li seguiranno » (Apocalisse 14, 13).

La morte è vista come un tranquillo riposo, come un dolce sonno e qualcosa della nostra esistenza passata rimane a farci compagnia: il bene che abbiamo fatto, le buone opere che abbiamo compiuto, se siamo salvati. Dunque Cristo trasforma la nostra esistenza su questa terra in un trampolino di lancio. Nel senso che il nostro destino eterno si decide qui e ora, in base a ciò che decideremo di fare della nostra vita. Possiamo in un certo senso affermare che la nostra vita eterna comincia già da adesso, nell’aldiquà, ancor prima che nell’aldilà, attraverso azioni di speranza attuate qui e ora.

Ammoniva l’apostolo Paolo: «Se abbiamo sperato in Cristo per questa vita soltanto, noi siamo i più miserabili di tutti gli uomini» (1 Corinzi 15, 19), proprio per insegnare che la nostra fede deve portarci ad allungare il nostro sguardo oltre il materiale, in una prospettiva ultraterrena. Avremo la vita eterna in Cristo, come egli ci ha promesso, solo se sarà eterno il nostro modo di vivere e di morire, cioè se vivremo la nostra vita avendo l’animo «alle cose di assù, non a quelle che sono sulla terra», come consigliava Paolo (Colossesi 3, 2).

DA QUI . . . ALL’ETERNITÀ

Il cristiano dunque è una persona che si affida al trascendente. La strada inizia con un bivio: da una parte il materialismo, la negazione di un destino eterno per l’uomo, dall’altra Gesù Cristo e la sua proposta concreta: « Poiché questa è la volontà del Padre mio; che chiunque contempla il Figliolo e crede in lui, abbia vita eterna; e io lo risusciterò nell’ultimo giorno» (Giovanni 6, 40).

Attraverso la rivelazione della Bibbia, Dio ci indica la strada dell’aldilà. Ma è la Sua strada, non quelle inventate dagli uomini. Questa strada passa attraverso la nostra vita di quaggiù, passa attraverso l’ubbidienza al Signore. Sono le azioni e le decisioni che prendiamo qui su questa terra quelle che determineranno il nostro destino eterno. La nostra fede, la nostra speranza, la nostra ubbidienza ai comandamenti di Dio sono le azioni concrete che possiamo e dobbiamo compiere, FIN DA QUESTO MOMENTO , se vogliamo costruirci un futuro eterno nell’aldilà.

Scegliere il trascendente significa accettare Cristo e mettere in pratica i Suoi insegnamenti: è questo il modo più "eterno" di vivere la nostra vita terrena, seguendo l’esempio dei personaggi dell’Antico Testamento: Abramo, Giacobbe, Mosè, tutte persone ubbidienti ai voleri di Dio, uomini che non si fermarono al mondo di quaggiù, che vissero la vita " nella certezza delle cose che speravano " (Cfr Ebrei 11, 1), basandola sulla fede nel l’aldilà.

Chi vive alla giornata, senza un ideale, trascorre la propria vita senza darle uno scopo, e dopo la sua morte tutto ciò che ha fatto, per quanto importante e nobile, viene perso e dimenticato, come lamentava anche il Petrarca: « Ahi ciechi! il tanto affanno che giova? Tutti torniamo alla grande madre antica. e il nostro nome appena si ritrova »

Il cristiano, invece, segue l’esempio dei grandi eroi della fede dell’Antico Testamento, che "si adoperarono non per le cose che periscono, ma per quelle che hanno vita eterna ": «In fede morirono tutti costoro, senza aver ricevuto le cose promesse, ma avendole vedute e salutate da lontano, e avendo confessato che erano forestieri e pellegrini sulla terra. Poiché quelli che dicono tali cose dimostrano che cercano una patria. E se pur si ricordavano di quella ond’erano usciti, certo avevano tempo di ritornarvi. Ma ora ne desiderano una migliore, cioè una celeste; perciò Iddio non si vergogna di essere chiamato il loro Dio, poiché ha preparato loro una città» (Ebrei 11, 13-16).


Per ulteriori approfondimenti scrivi a:
Chiesa di Cristo