I VANGELI DELL'INFANZIA
 
IL RITORNO DALL'EGITTO  (Mt 2, 19-23)

Il testo:

19. Ora, morto Erode, ecco un angelo del Signore apparve in sogno a Giuseppe.
20. e gli disse: «Alzati, prendi il bambino e sua madre e va' nel paese d'Israele, perché coloro che cercavano la vita del bambino sono morti».
21. Ed egli, alzatosi, prese il bambino e sua madre e venne nel paese d'Israele;
22. ma, avendo udito che Archelao regnava in Giuda al posto di Erode suo padre, ebbe paura di andare là. E, divinamente avvertito in sogno, si rifugio nel territorio di Galilea,
23. e, giunto là, abitò in una città detta Nazareth, affinché si adempisse quello che era stato detto dai profeti: «Egli sarà chiamato Nazareno»
.
La morte del persecutore Erode

Matteo, già con la citazione di Osea 11, 1 alla fine dell'episodio della fuga in Egitto (2, 15), aveva preannunciato che Dio avrebbe chiamato suo Figlio dal-l'Egitto – cioè dalla terra della schiavitù –. Ora passa a descrivere come avvenne tale ritorno.

La via libera fu segnata – ci dice Matteo 2, 19 – dalla morte del persecutore Erode. Erode il Grande morì il 7 dicembre del 5 a.C. o poco prima della Pasqua del 4 a.C., come è dimostrato da parecchi indizi convergenti. Comunque secondo lo studioso Holzmeister la prima data è preferibile alla seconda.

Il suo vasto regno fu così suddiviso:

– La Giudea, l'Idumea e la Samaria con la capitale Gerusalemme, toccarono al figlio Archelao col titolo di etnarca.

– La Galilea e la Perea al figlio Erode Antipa, col titolo di tetrarca, e con la capitale dapprima Sefforis, vicino a Nazareth e poi Tiberiade sul lago di Galilea o Mar di Tiberiade. Costui sarà il re della decapitazione del Battista (Mt 14, 1-12; Mc 6, 14-29; cf Lc 9, 9) e vedrà Gesù in occasione del suo processo (Lc 23, 7-8). Verrà deposta da Caligola nel 39 d.C.

– Le regioni semipagane a nord est del lago o mare di Tiberiade toccarono al figlio Erode Filippo, con sede nell'antica Panea che venne da lui rinnovata e chiamata Cesarea di Filippo, dove avvenne la famosa confessione di Pietro che indicò in Gesù il Figlio di Dio (Mt 16, 16; Mc 8, 29, Lc 9, 20; Gv 6, 69). Morirà nel 33-34.

– Le dieci città ellenizzate confederate della Decapoli rimasero autonome e dipendenti direttamente da Roma.

Questa successione fu determinata dall'ultimo testamento di Erode il Grande, confermato da Augusto. Da notare però che Augusto non permise che i tre successori di Erode il Grande assumessero il titolo di re.

Un successore simile al padre

Archelao ebbe la parte migliore e più ampia, tra cui la Giudea con Betlemme. Questo principe però, quanto a crudeltà e sospetti, fu simile al padre e sarà deposto da Augusto su richiesta di una delegazione di Giudei recatasi direttamente a Roma nel 6 d.C. I suoi territori divennero allora provincia romana con capitale Cesarea sul mare. Questa regione perciò fu governata da procuratori, tra i quali dal 26 al 36 d.C. troviamo anche il nostro Ponzio Pilato.

Matteo ci informa che il ritorno di Gesù dall'Egitto fu disposto direttamente da Dio mediante due altri avvisi in sogno (vv 19 e 22). Tali sogni, rivelatori della volontà divina, sono quindi in tutto cinque nei primi due capitoli di Matteo, compreso quello ai magi del v. 12 (1, 20; 2, 12; 2, 13; 2, 19; 2, 22); ma soltanto in tre di essi è detto esplicitamente che sono avvenuti mediante l'apparizione dell'angelo del Signore (1, 20; 2, 13; 2, 19).

Il ritorno in Israele e la scelta della Galilea

Giuseppe, dopo il primo sogno, si dirige verso paese di Israele. L'angelo del Signore non indica una località specifica della Palestina, dove Giuseppe e la sua famiglia dovevano dirigersi, ma dice soltanto genericamente « va' nel paese d'Israele». Con questa espressione generica Matteo vuole dal punto di vista teologico indicare tutta la terra promessa, già abitata dalle dodici tribù di Israele.
Giuseppe pensava in cuor suo di ritornare a Betlemme, ma arrivato ad un certo punto della strada, venne a sapere che la località, verso cui aveva in mente di recarsi, era toccata al crudele Archelao; perciò, preso da timore ed avvisato di nuovo da Dio in sogno, si dirige verso la regione della Galilea che era governata dal più mite Erode Antipa.

Dobbiamo presumere che Giuseppe, tornando dall'Egitto, abbia ripercorso la stessa strada dell'andata e cioè la Via Maris; anziché deviare dopo Gaza per la Giudea, proseguì diritto e prese la deviazione a Jamnia per Lidda, poi Antipatride, attraversò tutta la Samaria, e, giunto alla pianura di Esdrelon, prima di Nain prese la deviazione per Nazareth.

Matteo vuole farci capire che per disposizione divina, Gesù non venne ad abitare nella Giudea, cuore del popolo ebraico, neppure nella borgata davidica di Betlemme, ma nella lontana Galilea, abitata in parte da pagani e perciò chiamata da Isaia «La Galilea dei gentili » (Is 8, 23). Quindi Gesù fin da bambino venne in contatto con i gentili e si preparò a diventare anche il loro salvatore.

All'epoca di Gesù, ma anche successivamente fino ai nostri giorni, la Galilea fu considerata dagli Ebrei una terra messianica, soprattutto nella sua parte più alta, molto probabilmente sotto l'influsso del passo di Isaia, il quale annunciava che dalla Galilea sarebbe brillata una luce messianica per il popolo oppresso. Isaia in fatti così scrive:

« Ma le tenebre non dureranno sempre su colei che ora è nell'angoscia. Come nei tempi passati egli ha coperto di obbrobrio il paese di Zabulon e il paese di Neftali, così in avvenire coprirà di gloria la terra vicina al mare, oltre il Giordano, la Galilea dei gentili.
Il popolo che camminava nelle tenebre ha visto una gran luce; su coloro che abitavano nel paese dell'ombra della morte, si è levata una luce » (Is 8, 23 - 9, 1).

Matteo più avanti nel suo vangelo, parlando del ministero di Gesù in Galilea, citerà espressamente questa profezia di Isaia (Mt 4, 16-17). Egli farà appunto iniziare il Ministero di Gesù in Galilea (Mt 4, 12-25) e, dopo la sua resurrezione, apparirà agli undici proprio su un monte della Galilea (28, 16-20); da lì invierà i suoi discepoli a predicare il vangelo in tutto il mondo. Diversamente, come abbiamo visto, da Luca che pone invece il centro di convergenza e di partenza di tutta la predicazione del vangelo da Gerusalemme (Lc 24, 33. 47. 52: At 1, 8).
Diversamente la pensavano anche i Giudei di Gerusalemme che si opponevano a Gesù (Gv 7, 40-53).

Sulla scia del ritorno di Mosè

Nel narrare il ritorno di Gesù, Matteo ricalca senz'altro il ritorno di Mosè in Egitto, dopo la sua fuga nella terra di Madian, così come ci viene narrato in Es 4, 19-20: «L'Eterno disse a Mosè in Madian: Va' tornatene in Egitto perché tutti quelli che cercavano la tua vita, sono morti. Così Mosè prese la sua moglie e i suoi figli, li pose su un asino e tornò nel paese d'Egitto ».

Si nota una straordinaria rassomiglianza fra queste parole e quelle usate da Matteo nei vv. 19-21. Sembra evidente che Matteo, nello stendere questo racconto, abbia avuto davanti agli occhi questo analogo episodio della vita di Mosè. Lo dimostra, oltre che l'identità di alcune parole greche, anche l'anomalia del plurale «sono morti » che corrisponde esattamente al testo ebraico dell'Esodo, ma che potrebbe sembrare del tutto fuori luogo nel racconto di Matteo.

Questa imitazione letteraria è la migliore conferma che Matteo intende presentarci le vicende di Gesù bambino sulla scia dei fatti dell'Esodo ed in special modo di Mosè.

Gesù a Nazareth e l'enigmatico «Nazoraìos» ( Nazwrai=oj)

Matteo conclude l'episodio dicendo che Giuseppe, giunto in Galilea, scelse come dimora della sua famiglia la borgata di Nazareth, in conformità alla predizione dei profeti i quali avevano preannunciato che Gesù sarebbe stato chiamato «Nazoraìos»; la parola greca è Nazwrai=oj .

Tale aggettivo greco, in italiano: nazoreo, è usato da Matteo e Giovanni (Gv 18, 5.7 " Nazwrai=on") per indicare Gesù di Nazareth: Marco invece usa la forma "nazareno" (1, 24: Nazrhne/; 10, 47: Nazarhnoj; 14, 67: Na-zarhnou=; 16, 6: Nazarhno\n); Luca ha entrambe le forme (4, 34: Nazrhne/ ; 18, 37: Nazwrai=oj ; 24, 19: Nazarhnou= ; Atti 3, 6: Nazwrai=on ; 4, 10 Nazwrai¢ou ; 6, 14: Nazwrai¢oj ; 22, 8 Nazwrai¢oj ; 24, 5 "setta dei" Nazwrai¢won ; 26, 9 Nazwrai¢ou ).

Esse sono trascrizioni diverse del corrispondente aggettivo aramaico "nasraya", derivato da Nazareth. Perciò questo all'inizio indicava un abitante di Nazareth ed in special modo Gesù; ma poi ben presto, già in Atti 24, 5 e quindi anche all'epoca e nella comunità di Matteo, cominciò ad indicare i discepoli di Gesù Nazareno. Ancora al giorno d'oggi i musulmani chiamano i cristiani " Nazareni".

Il problema, non ancora risolto con certezza, è quello di sapere quale senso teologico Matteo abbia voluto dare a questo aggettivo che, per volere di Dio, divenne l'appellativo di Gesù e dei cristiani ed a quali profeti egli si riferisse nella sua citazione. Ci sono naturalmente delle opinioni diverse sull'argomento:

1) Molti pensano che l'evangelista giochi sull'etimologia del nome Nazareth (ebr. Nasrath) e alluda a profeti che hanno parlato del Messia servendosi della stessa radice, almeno approssimativa, di Nazareth.
In tal caso, secondo alcuni, Matteo penserebbe a Isaia 11, 1 (cf Is 53, 2), dove il Messia viene annunciato quale un "neser" (che in ebraico significa "pollone", "ramoscello", "rampollo", "fiore") che spunta dal ceppo ormai quasi rinsecchito di Isai (o Iesse), cioè da una dinastia davidica inaridita: alluderebbe quindi alla sua origine davidica, ma umile e trascurata. Il testo di Isaia 11, 1 era comune nella Chiesa primitiva per indicare l'origine davidica di Gesù (cf Rm 15, 12; Ap 22, 16).
Matteo ragionando in modo semitico, che argomentava anche dalle assonanze, affermerebbe perciò che Gesù era davidico perfino nel nome della sua seconda patria. Dio aveva in lui pienamente realizzato la promessa: anche se residente nell'umile borgata di Nazareth, egli era il "neser" davidico.

2) Matteo però usa la parola profeti al plurale. Alcuni quindi pensano che egli abbia anche contemporaneamente pensato al "nazir". Il "nazir" di Numeri 6 era stato tradotto nei Settanta ora con "santo" ("aghios"), ora trascritto come "naziraios". L'esempio tipico del Nazireo era Sansone che, secondo Giudici 13, 5 « sarà un Nazireo consacrato a Dio fin dal seno di sua madre ». L'evangelista con tale accostamento penserebbe alla speciale consacrazione a Dio del fanciullo di Nazareth nella terra santa di Israele; lì egli si sarebbe allenato a diventare, come Sansone, il salvatore del suo popolo.

3) Un po' forzata, anche se suggestiva è l'interpretazione proposta dal Winandy secondo cui con tale aggettivo Matteo penserebbe al participio passivo ebraico "nasûr", impiegato al plurale in Isaia 49, 6, per designare « i sopravvissuti o scampati di Israele»: Dio avrebbe voluto che Gesù abitasse a Nazareth per indicare che era il nuovo Mosè, il primo scampato e l'inizio degli scampati o salvati di Israele.

4) Altri invece, tenendo conto della parola «profeti» al plurale, vedono un riferimento ai profeti in genere, cioè a tutti quei profeti che predissero le umiliazioni e le sofferenze del Messia. Nazareth (vedi Gv 1, 46) aveva allora una nomea dispregiativa; per cui Matteo direbbe: Gesù venne ad abitare a Nazareth per essere, anche e perfino nello stesso appellativo di origine, il disprezzato e l'umiliato predetto dai profeti. Forse questa interpretazione interpreta nella maniera più giusta il plurale della parola «profeti».

Il Nazareno ed i suoi discepoli

Anche tale ultimo episodio di Matteo si rivela ricco di insegnamenti, soprattutto se uniamo insieme le varie prospettive.

Il bambino Gesù è il nuovo Mosè che ritorna nella sua terra dopo la morte dei suoi persecutori: va ad abitare in Galilea, regione della manifestazione messianica, ma sceglie della Galilea proprio Nazareth, una borgata disprezzata, per essere l'umile rampollo o fiore davidico predetto da Isaia, e per annunciare con lo stesso soprannome, derivante dalla sua località di origine, la sua missione di Messia sofferente; inoltre per esercitare anche la funzione di "nazir", cioè di persona totalmente consacrata a Dio e votata, come Sansone, a salvare il popolo di Dio dalla schiavitù del nemico (o peccato).

Se noi desideriamo attualizzare questo episodio per nostro ammonimento ed istruzione, dobbiamo dire che esso ci insegna che per fare grandi cose non è necessario abitare nella capitale, in un posto rinomato, provenire da una famiglia facoltosa o avere una professione importante. Ciò che ci fa grandi non è certamente la nostra origine, la nostra famiglia, la nostra importanza sociale, ma è l'umile servizio a Dio ed ai fratelli, svolto nel luogo in cui Dio ci ha posti; quello che ci nobilita è il nostro lavoro, il nostro impegno, il nostro sacrificio, la nostra dedizione; anche se il nostro lavoro sarà umile, insignificante agli occhi del mondo, noi siamo confortati dal fatto che Dio si è sempre servito delle cose umili per portare a termine i suoi grandi piani di salvezza dell'umanità.