Da Pietro al Papato
di Fausto Salvoni

CAPITOLO DODICESIMO

LA "QUESTIONE"  DEGLI APPELLI
Il vescovo di Roma non ha ancora tutto il potere


INDICE PAGINA

Basilide e Marziale
Il Concilio di Sardica
Dopo il Concilio di Sardica


Basilide e Marziale

Il Concilio di Nicea del 325, sancendo una pratica già impostasi nei secoli precedenti, decise che ogni vescovo punito potesse ricorrere contro tale sentenza al proprio metropolita. I metropoliti furono inizialmente tre: a Roma per l'Occidente, Alessandria per l'Egitto e Antiochia per l'Oriente (Siria, Cilicia, Mesopotamia, Palestina)(1) .

In Spagna Basilide, vescovo di Léon e Astorga, e Marziale, vescovo di Mérida, durante la persecuzione apostatarono dalla religione cristiana. Nel processo Basilide confessò di aver bestemmiato Dio e Marziale di aver partecipato per lungo tempo ai banchetti di un collegio pagano e di aver fatto seppellire i suoi figli tra i pagani. Rimossi dalle loro sedi ricorsero a Roma, dove era stato eletto da pochi mesi il vescovo Stefano (254-257) che impose ai vescovi viciniori di reintegrarli nelle loro sedi. Ma Cipriano, vescovo di Cartagine (n. 257), in una lettera sottoscritta da trentasei vescovi riuniti in Concilio, gli si oppose con dignità e, senza attaccare direttamente Stefano, gli ricordò come anche il suo predecessore Cornelio fosse stato d'accordo con gli altri vescovi nel deporli.

« Cornelio, nostro collega, uomo pacifico e giusto, al quale Dio si è perfino degnato di concedere l'onore del martirio, ha deciso che uomini siffatti, possono senza dubbio essere ammessi alla penitenza, ma che debbono venir esclusi dal clero e deposti dalla dignità episcopale »(2) .

L'elogio tributato a Cornelio era una lezione indiretta al successore Stefano. Dato il rapporto di mutuo incoraggiamento e interessamento esistente nelle chiese di allora, Cipriano nel cado Marciano, vescovo di Arles, colpevole di aver aderito al rigorismo di Novaziano, non si peritò di suggerire lui stesso a Stefano il modo di comportarsi:

« Voi dovete scrivere esplicitamente ai nostri colleghi dell'episcopato che sono in Gallia, affinché non permettano più a lungo a Marciano che è ostinato e orgoglioso... di insultare il nostro collegio... mandate quindi in Provenza ai fedeli di Arles una lettera in virtù della quale, essendo Marciano scomunicato, un altro sia messo al suo posto, affinché il gregge di Cristo, che egli ha disperso e che tuttora ferito e scemato, possa riunirsi » (3) .

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Il Concilio di Sardica

A Sardica (oggi Sofia) nella Mesia, ai confini tra l'impero d'Oriente e quello d'Occidente, si riunì nel 343 un concilio composto d'occidentali ad eccezione di ottanta dissidenti eusebiani orientali. Non fu quindi un concilio ecumenico ed ebbe scarsa risonanza per cui si tentò conferirgli maggior valore facendone passare i decreti come decisioni del Concilio di Nicea. A noi interessano i canoni 3-5 (specialmente 3) che riguardano il diritto di appello a Roma (4) Il vescovo deposto da un sinodo provinciale può appellarsi al vescovo di Roma che ordinerà una nuova istruttoria da parte dei vescovi limitrofi. Se anche in questo caso vi sarà opposizione la chiesa di Roma (come metropolitana) interverrà mediante un tribunale di vescovi, presieduto dai legati romani, a meno che si voglia ricorrere personalmente a Giulio II.

« A meno che si creda conveniente alla vostra carità per onorare la memoria di Pietro, che si scriva dai giudici a Giulio II, il vescovo di Roma » (5) .

Si tratto, quindi di un semplice consiglio del presidente Osio, lasciato alla discrezione dei singoli vescovi, eppure i primi, compreso Leone, poggiarono su questo canone, da loro abusivamente attribuito al Concilio di Nicea, per sostenere il diritto d'intervento nelle diocesi altrui.

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Dopo il Concilio di Sardica

a) Occidente. – Dobbiamo distinguere l'Occidente dall'Oriente; Roma accolse volentieri i ricorsi dell'Occidente e intervenne in loro favore talvolta anche con prepotenza, mentre fu assai cauta in Oriente. L'Occidente era infatti sottoposto alla sua giurisdizione (cfr Valentiniano III e il Concilio di Nicea), mentre l'Oriente sottostava, prima, parte ad Alessandria e parte ad Antiochia, e poi tutto intero a Costantinopoli.

E' assai interessante vedere il comportamento delle chiese africane, che, fiere della propria autonomia, decisero con diversi decreti conciliari che la deposizione di un vescovo fosse attuata da un tribunale di almeno dodici vescovi del luogo (6) Le chiese africane conservarono a lungo una certa indipendenza: il Concilio di Ippona, tenuto l'8 ottobre 393 sotto la presidenza di Aurelio, decise che la causa riguardante un vescovo fosse deferita al primate della provincia (7) e, in seconda istanza, al concilio generale delle chiese africane e si oppose all'ingerenza romana(8) .

b) Celestio, sostenitore delle idee pelagiane, giunse nel 411 a Cartagine per ricevervi il sacerdozio senza tuttavia ritrattare la propria dottrina; dopo la sua scomunica l'eretico si appellò a Roma e ad Efeso e ricevette ugualmente l'ordinazione sacerdotale (9) Gli Africani, riuniti in concilio generale a Cartagine il 1° maggio 418, chiesero a papa Innocenzo I e a Zosimo di condannare la dottrina di Pelagio, mentre per loro sostenevano sufficiente la condanna individuale già effettuata(10) I vescovi africani sancirono pure che i « presbiteri, i diaconi e in genere gli appartenenti al clero inferiore » potevano ricorrere «ai vescovi limitrofi, ai concili o al primate », ma non potevano appellarsi a Roma: « Non si accolga in Africa alcuno che abbia appellato alla chiesa transmarina », vale a dire alla chiesa romana (11) .

c) Apiario, un presbitero di Sicca Veneria, scomunicato dal vescovo Urbano, per la sua malfamata condotta, anziché appellarsi al sinodo provinciale, ricorse direttamente a Roma, dove il vescovo Zosimo accolse la protesta dell'appellante, e lo rimandò in patria con un apparato straordinario di legati: Faustino, vescovo di Potenza nel Piceno, e due presbiteri di Roma, Filippo e Asello: «Nemmeno se si fosse trattato di presiedere un concilio ecumenico vi sarebbe stato maggior spiegamento di forze»(12) Apiario doveva essere reintegrato, Urbano scomunicato se non aderiva, i viaggi a corte dovevano essere meno frequenti e ammessi i ricorsi a Roma, come era stato sancito dal Concilio di Nicea (13) .

Aurelio di Cartagine accolse freddamente tali richieste: siccome gli invocati « decreti di Nicea» non esistevano nella raccolta africana dei Canoni niceni, i vescovi inviarono dei messi in Oriente, per esaminare i documento originali. Nel frattempo venne a morte il vescovo Zosimo di Roma, e la chiesa romana fu dilaniata da lotte per la successione: Eulalio si fece consacrare vescovo in S. Giovanni in Laterano e Bonifacio nel tempio di S. Marcello.

Nel 419 si riunì a Cartagine un sinodo, e, in attesa dei testi ufficiali d'Oriente, si assolse Apiario dalla scomunica, lo si mandò via da Sicca Veneria e si scrisse a Bonifacio, che nel frattempo aveva avuto il sopravvento:

« Noi speriamo che per divina misericordia, fin quando la Santità Vostra presiederà la chiesa romana, non dovremo più soffrire una simile arroganza, e che verranno usati a nostro riguardo modi tali da non essere più obbligati a protestare » (14) .

Apiario, rifugiatosi a Tabraca, si comportò ancor peggio per cui, scomunicato, ricorse nuovamente a papa Celestino, che lo rimandò di nuovo in Africa con il medesimo legato Faustino. Questi, nonostante le accuse schiaccianti, adducendo con arroganza le pretese romane, esigette la reintegrazione di Apiario. Ma in seguito alla confessione di Apiario, anche Faustino dovette capitolare, e si mandò a Celestino la decisione del sinodo di Cartagine (a. 424) dalla quale risultava che le questioni africane si dovevano risolvere in Africa e non a Roma, e si affermava che l'accoglimento degli appelli da parte della Chiesa romana avrebbe costituito una indebita ingerenza nei problemi africani. Gli Atti erano accompagnati da una lettera sinodale assai forte:

« Al molto caro amato signore e venerabile fratello Celestino... Faustino s'oppose violentemente a tutto il sinodo, insultandoci gravemente con il pretesto di affermare il privilegio della Chiesa romana di chiedere la reintegrazione di Apiario nella comunione per il fatto che la vostra santità lo ha reintegrato. Tuttavia, con tutto il rispetto, noi seriamente ti esortiamo per il futuro a non essere pronto ad accogliere querelanti che vengono da questa regione e a non ricevere nella comunione quelli che noi abbiamo scomunicato. Vostra riverenza vorrà notare che ciò è stato prescritto da canoni di Nicea... Poiché dai decreti di Nicea non solo i chierici di rango inferiore ma gli stessi vescovi sono stati sottoposti al giudizio dei loro stessi metropolitani. Poiché essi (decreti) hanno ordinato con molta saggezza e giustizia che tutti i problemi devono essere terminati là dove ebbero inizio: essi non hanno mai pensato che la grazia del Santo Spirito possa venir meno in una provincia ai sacerdoti di Cristo, sì che questi non abbiano a poter discernere e difendere fermamente ciò che è giusto, tanto più che, quando uno si sente leso nei suoi diritti da una condanna, può ricorrere al sinodo provinciale e anche a un concilio generale (dell'Africa); altrimenti si dovrebbe supporre che Dio può ispirare un singolo uomo con giustizia e rifiutare ciò a una innumerevole assemblea di sacerdoti riuniti a Concilio »
« Come potremo aver fiducia in una sentenza emanata al di là del mare, dal momento che non è possibile inviare quivi tutti i necessari testimoni o per causa di debolezza di sesso, o per età avanzata o per qualsiasi altro impedimento? Per quanto poi all'invio di un legato da parte della vostra Santità, noi non troviamo che ciò sia stato ordinato da alcun Concilio di Padri; poiché per ciò che ci avete inviato mediante il nostro fratello vescovo Faustino noi non troviamo nulla del genere nelle autentiche copie di quel Concilio (di Nicea) »
« Ad ogni modo chiunque tu voglia delegare del tuo clero per eseguire i tuoi ordini, non farlo, altrimenti parrà chiaro che noi introduciamo il fumoso tifo di questo secolo nella Chiesa di Cristo (= il sistema imperiale di inviare rappresentati)... Ora che il miserabile Apiario è stato rimosso, siamo sicuri che l'Africa non dovrà più a lungo sopportare la presenza del nostro fratello Faustino »(15) .

d) Il Concilio di Cartagine (a. 525). – Le decisioni precedenti furono riprese dal Concilio di Cartagine del 525 che così sentenziò: « Nessuno osi appellare alla Chiesa romana » (16) Il che denota che le chiese africane non riconoscessero il diritto d'appello a Roma.

e) Chiese orientali. – Anche alcuni vescovi orientali ricorsero a Roma, non tanto perché ne riconoscessero l'autorità giurisdizionale sopra l'Oriente, ma solo per sostenere mediante il peso di una chiesa assai importante la propria posizione. Vi ricorsero specialmente coloro che erano perseguitati come il Crisostomo nel 404, Giuliano di Costantinopoli, Eusebio di Dosilea e Teodoreto di Ciro nel 449. Costo non potevano ignorare i canoni di Nicea che li mettevano sotto la giurisdizione dei metropoliti orientali, come Alessandria e Antiochia e quello di Costantinopoli che li sottoponevano al metropolita costantinopolitano. I vescovi di Roma cercarono di intervenire e appoggiare le loro richieste così come del resto fecero altri vescovi. Tuttavia spesso l'intervento era assai diplomatico, come appare dalla lunga corrispondenza intercorsa tra Girolamo e papa Damaso, a cui il primo, che pur era latino e suo amico, era ricorso per i soprusi da lui subiti da parte del vescovo di Gerusalemme, Giovanni. Nella polemica che si dibatteva allora circa la esistenza di tre «ipostasi» (o «persone») in Dio, Girolamo si rivolse a Roma, scrivendo:

« Delle volpi devastano la vigna di Cristo... perciò ho deciso di consultare la cattedra di Pietro dove si trova quella fede che la bocca di un Apostolo ha esaltato... Nè l'immensità del mare né l'enorme distanza terrestre hanno potuto impedirmi di cercare la perla preziosa; solo presso di voi si conserva intatta l'eredità dei padri... Io non conosco altro primato che quello di Cristo! per questo mi metto in comunione con la tua Beatitudine, cioè con la cattedra di Pietro. So che su questa pietra è edificata la Chiesa... Chi non si trova nell'arca di Noè perirà durante il diluvio » (17) .

Ma il papa tace e il monaco angustiato nuovamente lo sollecita:

« Ora il nemico non cessa di starmi appresso: qui nel deserto subisco attacchi più violenti che mai. Da un lato rugge la rabbia degli ariani... dall'altro la Chiesa è divisa in tre correnti e ciascuna cerca di attirarmi. La stessa veneranda autorità dei monaci che vivono attorno si alza contro la mia persona. Io intanto continuo a gridare: chi è unito alla cattedra di Pietro è con me »(18) .

Anche quando il suo monastero di Gerusalemme fu devastato dai pelagiani con il permesso del vescovo Giovanni di Gerusalemme, Girolamo nuovamente si rivolge a papa Damaso, che assicura Girolamo di aver scritto ima lettera al vescovo di Gerusalemme, che ancora oggi possediamo e nella quale si leggono le seguenti esortazioni:

«Il potere che il diavolo ha preso su di te e sui tuoi non riesce assolutamente a scuotere quella tua risaputa pietà di Vescovo? Su di te dico. Perché il fatto che nella tua Chiesa sia stato commesso un misfatto così esecrabile è, senz'altro, un capo di accusa contro la tua carica vescovile. Dove sono le precauzioni che hai preso? » E prosegue raccomandandogli : «Sta attento, fratello mio, alle insidie dell'antico nemico e sii molto vigilante, come dovrebbe esserlo un buon superiore così potrai o porre rimedio o reprimere quei fatti che mi sono stati riferiti più come resoconto personale che come accusa formale. Altrimenti il diritto ecclesiastico sarebbe costretto a prendere le dovute sanzioni contro chi non ha difeso la causa degli oppressi » (19) .

Se da questi scritti appare quanto grande sia già divenuta l'autorità papale, si può anche osservare con quanta diplomazia parli al vescovo di Gerusalemme; non è lui bensì « il diritto ecclesiastico che sarebbe costretto ad intervenire », vale a dire il tribunale regionale a cui spettava il giudizio e non al vescovo di Roma(20) .

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NOTE A MARGINE

1. Concilio di Nicea, can. 5: si deve ricorrere al primate della provincia: « i vescovi di una provincia si aduneranno due volte all'anno, prima della quaresima e in autunno per esaminare questi appelli » (Conciliorum Oecumenicorum Decreta, Herder, Roma 1962, p. 7). Il can. 6: «Si osservi l'antica consuetudine secondo la quale il vescovo di Alessandria abbia potere sull'Egitto, la Libia e la Pentapoli, poiché anche il vescovo di Roma ha un diritto simile. Anche Antiochia e le altre province conservino i loro privilegi nelle chiese » (ivi c. 8). Sul Metropolita cfr A. Arpà , Il Metropolita e la sua potestà giurisdizionale sino al Concilio di Trento compreso , Roma. Pontif. Università Lateranense 1966. (Secondo l'autore la loro superiorità sarebbe già esistita al II secolo). torna al testo

2. Epist. 67, indirizzata al clero e ai fedeli della Chiesa di Léon e Astorga e della Chiesa di Mérida, che non reintegrarono i vescovi. torna al testo

3. Epist. 78, 2-3. Si noti che il Concilio di Nicea (can. 6) sancì la consuetudine antica per cui la Chiesa romana godeva di preminenza su tutto l'Occidente, quindi la sua parola vi aveva un valore preponderante. Si noti pure che Cipriano non dice a Stefano di eleggere lui il nuovo vescovo, bensì che «un altro sia messo» secondo le norme in uso. Cfr Fliche-Martin, Storia della Chiesa, vol. II Torino 1959, (2° ediz., pp. 258 e seguenti). torna al testo

4. Vi sono due recensioni: una greca (preferita dal Gaspar) e una latina (preferita dal Turner, Lietzmann). torna al testo

5. Can. 3: «Si vobis placet, santi Petri apostoli memoriam honoremus, ut scribatur ab iis qui causam examinaverunt, Julio Romano episcopo» (Hefele-Leclercq, l. c., vol. I, p. 763). Si noti tuttavia che in tal caso il vescovo di Roma poteva accogliere le decisioni del processo effettuato contro l'appellante, oppure indire un nuovo processo, che tuttavia non sarebbe stato effettuato da lui, ma da lui affidato ai vescovi viciniori dell'appellante. Roma richiamò spesso la prima parte, ma dimenticò la seconda (processo presso i vescovi viciniori) per arrogarsi essa tale diritto. torna al testo

6. 2° Concilio di Cartagine c. 10 (tenuto sotto Genetliaco il 390) PL 84, 187 c. torna al testo

7. Can 6 del Breviario di Ippona PL 54, 422 A. torna al testo

8. Ivi can 7 PL 54, 423 A. torna al testo

9. Cfr Hefele.Leclercq, Histoire des Conciles, vol. II, pp. 168-196. torna al testo

10. «Non ammettono tuttavia la giurisdizione di Roma sugli individui» scrisse bene Jean Gaudemet , L'Eglis dans l'Empire romain, Paris 1958, p. 439. torna al testo

11. Conc. di Cartagine s. 474 can. 17; Mirbt, Quellens zur Geschichte des Papstum, n. 606 «Ad transmarina autem qui putaverit appellandum, a nullo intra Africam in comunione suscipiatur» (Hefele 11, 119 caus 2 qu c. s. 35). Va notata la trasformazione che gli diede Graziano nella sua collezione: « nisi forte ad Romanam sedem appellaverit » con tale piccola aggiunta il no, diviene sì! torna al testo

12. L. Duchesne, Histoire ancienne de l'Eglise, vol. III, p. 243. torna al testo

13. Di fatto si trattava delle decisioni di Sardica, non di Nicea; ma Roma sempre attribuì a Nicea i decreti di Sardica, che i vescovi africani ritenevano una assemblea di ariani (cfr. Agostino, Epist. 44, 6; Contra Cresconium 4, 52). torna al testo

14. Codex Canonum Ecclesae Africanae n. 134 (ed. G. Voellus e N. Justellus, vol O, Paris 1661); Hardouin, t. l, col 946; Fuchs , Bibliotek der Kirchenvaters , t. III, p. 404 (cfr PL 67, 126). torna al testo

15. Sinodo di Cartagine del 424, in Mansi III, 839 s. lettera a papa Celestino n. 138 in Mansi IV, p. 515; cfr J. Chapman, Studies on Early Papacy, London 1928, pp. 184.208; Bihlmeyer o. c., I, p. 357. torna al testo

16. Così nel Codex Palatinus lat. 574 della Bibl. Vatic., ff. 118-119 «Ut nullus ad romanam ecclesiam audeat appellare»; cfr C. Munier , Un canon inedit du XX Concile de Carthage , in «Revue de Sciences Religeuses» 40 (1966), pp. 113-126. L'edizione di Labbé-Cossart I, c. 1634 invece di « romanam sedem » ha « ad Trasmarinam » come nel Can. Cartaginese del 424; siccome l'edizione fu tratta dal codice palatino, si deve pensare o ad un errore involontario o ad una falsificazione per diminuire l'opposizione di Roma. Il codice proveniva dall'Abbazia benedettina di Lorsch; la stessa lezione si ha pure nel cod. Murbacensis della celebre Abbazia di Burbach (ora biblioteca alsaziana di Gotha). torna al testo

17. Lett. 15, 1-2. torna al testo

18. Lett. 16. torna al testo

19. Lett. 137. torna al testo

20. Si vedano i decreti del Concilio di Nicea, Per l'epistolario tra Damaso e Girolamo e Giovanni, vescovo di Gerusalemme, cfr G. Brunelli, Il primato nelle lettere di Girolamo, in «L'Osserv. Romano, 1 ottobre 1965, p. 7). torna al testo