IL BUON PASTORE

Testo: Gv 9, 40 - Gv 10, 21

« Alcuni dei farisei che erano con lui udirono queste cose e gli dissero: "Siamo ciechi anche noi?". Gesù rispose loro: "Se foste ciechi non avreste alcun peccato, ma siccome dite: Noi vediamo, perciò il vostro peccato rimane.
In verittà, in verità io vi dico: "Chi non entra per la porta nell'ovile delle pecore, ma vi sale da un'altra parte, quello è un ladro e un brigante; ma chi entra per la porta è il pastore delle pecore.
A lui apre il portinaio; le pecore ascoltano la sua voce, ed egli chiama le sue pecore per nome e le conduce fuori. E, quando ha fatto uscire le sue pecore, va davanti a loro; e le pecore lo seguono, perché conoscono la sua voce. Non seguiranno però alcun estraneo, ma fuggiranno lontano da lui, perché non conoscono la voce degli estranei.
Gesù disse loro questa similitudine, ma essi non capirono di che cosa stesse loro parlando. Perciò Gesù disse loro di nuovo:
"In verità, in verità vi dico: io sono la porta delle pecore. Tutti quelli che sono venuti prima di me sono stati ladri e briganti, ma le pecore non li hanno ascoltati. Io sono la porta; se uno entra per mezzo di me, sarà salvato; entrerà, uscira e troverà pascolo. Il ladro non viene se non per rubare, uccidere e distruggere; ma io sono venuto affinché abbiano la vita e l'abbiano in abbondanza.
Io sono il buon pastore; il buon pastore depone le sua vita per le pecore. Ma il mercenario, che non è pastore e a cui non appartengono le pecore, vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge; e il lupo rapisce e disperde le pecore. Or il mercenario fugge, perché è mercenario e non si cura delle pecore.
Il sono il buon pastore, e conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, come il Padre conosce me e io conosco il Padre, e depongo la mia vita per le pecore. Io ho anche delle altre pecore che non sono di questo ovile; anche quelle io devo raccogliere, ed esse ascolteranno la mia voce, e vi sarà un solo gregge e un solo pastore.
Per questo mi ama il Padre, perché io depongo la mia vita per prenderla di nuovo. Nessuno me la toglie, ma la depongo da me stesso; io ho il potere di deporla e il potere di prenderla di nuovo; questo è il comando che ho ricevuto dal Padre mio".
Allora sorse di nuovo una divisione tra i Giudei per queste parole. E molti di loro dicevano:  "Egli ha un demone ed è fuori di sé; perché lo ascoltate?" Altri dicevano: "Queste non sono parole di un indemoniato; può un demone aprire gli occhi ai ciechi?" »

Il brano del buon pastore è la continuazione della risposta che Gesù ha cominciato a dare alla domanda dei farisei dopo la guarigione del cieco nato. Pertanto i due versetti che precedono il brano (9, 40-41) non possono rimanere isolati da quanto segue come se fossero la conclusione del capitolo precedente, perché in realtà essi sono l’introduzione al brano in cui è riportata la similitudine del buon pastore.

Le parole solenni che troviamo al v. 1 «In verità, in verità io vi dico» non sono mai messe dell’evangelista Giovanni all’inizio di un nuovo discorso, ma sono sempre inserite all’interno di una discussione già iniziata per ribadire con forza un concetto che deve rimanere ben impresso nella mente dell’interlocutore, come è accaduto, ad esempio, in occasione del colloquio con Nicodemo.

Quindi è chiaro che la sostanza di questa parabola e tutto il discorso che ne segue è indirizzato prevalentemente contro i farisei che in quel momento erano gli interlocutori di Gesù. Tanto è vero che al termine del brano, ai vv. 20 e 21 c’è la reazione dei farisei, negativa per alcuni, che lo credono impossessato da un demone, e positiva per altri, che fanno riferimento al miracolo della guarigione del cieco nato appena operata da Gesù.

L’immagine del pastore e del gregge ricorre molto spesso nell’Antico Testamento (Gr 23, 1-4; Ez 34, 1-24; Zc 11, 4-17). Quella del pastore e del gregge è un’immagine che prelude ai tempi messianici in cui il futuro Messia avrebbe pascolato il nuovo gregge di Israele con la forza dell’Eterno (Mi 5, 4). Tutte le volte che si voleva mettere in risalto i travagli del popolo ebraico, le sue sofferenze, il suo esilio, si ricorreva all’immagine del gregge disperso e maltrattato per contrapporre i buoni pastori a quelli cattivi che depredavano il gregge anziché custodirlo ed averne cura.

Anche in Isaia al capitolo 53, dove si parla esplicitamente delle sofferenze del Messia e della sua morte espiatrice per i peccatori, al versetto 6 si allude all’immagine delle pecore smarrite di Israele per descrivere la condizione di un popolo senza guida i cui componenti seguivano ognuno la propria via.

La rievocazione quindi che Gesù fa del pastore e del gregge era un’immagine molto familiare per i farisei; essi la comprendevano molto bene in quanto erano già stati abituati da molto tempo a questo tipo di linguaggio figurato.

Le pecore a cui allude Gesù nel suo discorso sono riunite di notte in un locale, che molto probabilmente si trovava nello stesso cortile adiacente alla casa del pastore. A questo locale si accedeva attraverso una porta custodita da un portinaio. Si tratta di una descrizione che rispecchia la realtà quotidiana della vita pastorale del popolo ebraico. Se qualcuno cerca di entrare abusivamente in questo locale dove sono custodite le pecore arrampicandosi sul muro, mostra evidentemente di non essere autorizzato e di venire con cattive intenzioni; non può trattarsi che di un ladro o di un assassino.

Il pastore legittimo delle pecore invece chiede ed ottiene di entrare nell’ovile dalla porta principale. Il guardiano lo conosce e gli apre, quando viene al mattino a ritirare le pecore; anche le pecore stesse lo riconoscono dalla voce che odono ed a cui rispondono seguendolo. Queste pecore infatti sono di proprietà del pastore, egli ha con esse un rapporto personale; tutte hanno un nome, con cui il pastore le chiama per farle uscire dall’ovile. Le pecore hanno fiducia in lui e lo seguono quando si mette davanti a loro per condurle al pascolo. Se un estraneo cercasse di fare altrettanto otterrebbe l’effetto contrario perché mancherebbe la base della fiducia.

Troviamo qui descritto con naturalezza e con parole semplici il rapporto personale, la cura e la fiducia che lega il pastore al suo gregge; mentre al contrario non c’è nulla di tutto questo nel rapporto tra le pecore ed uno sconosciuto qualsiasi o peggio ancora tra le pecore ed un malintenzionato che si avvicini alle pecore con il proposito di rubarle.

Per il contesto in cui è inserita e per lo scopo che si prefigge la parabola è molto chiara e non avrebbe bisogno di ulteriori spiegazioni. In essa si allude chiaramente ai capi dei farisei che si sono impossessati abusivamente della posizione che occupano e di cui si servono egoisticamente con la forza per dominare il gregge di Dio e maltrattarlo, come avevano dimostrato di fare poco prima nei confronti del cieco, guarito da Gesù.

Vi è quindi una condanna del fenomeno del fariseismo. Questo è il significato immediato di questa similitudine del pastore e del gregge, ma la condanna che Gesù fa del fariseismo può essere estesa anche a tutti coloro che abusivamente si avvicinano al gregge per altre vie senza passare per la porta principale con lo scopo di gettare scompiglio nel gregge e distoglierlo dal vero pastore, cioè da Gesù.

Naturalmente questa condanna non è formulata esplicitamente, ma soltanto nella forma traslata di parole che di per sé hanno sempre qualcosa di enigmatico e lasciano spazio all’incomprensione. Difatti i farisei non comprendono o fanno finta di non comprendere e questa loro incomprensione offre lo spunto a Gesù per alzare ulteriormente il tiro e allargare il raggio d’azione del suo discorso.

Al versetto 7 infatti Gesù precisa ulteriormente: «Io sono la porta delle pecore ». In altre parole egli afferma ora che non c’è altro modo legittimo di avvicinarsi alle pecore, cioè al gregge di Dio, al suo popolo, se non attraverso Gesù stesso. Se prima Gesù era soltanto il pastore che conosce le sue pecore, le chiama per nome ed esse lo seguono fiduciose, ora egli afferma addirittura di essere la porta, cioè la via legittima per mezzo della quale si può entrare nell’ovile.

Al versetto 9 Gesù però ripete nuovamente: « Io sono la porta» , ma questa volta il suo discorso acquista un significato più profondo e più ampio. Non solo egli è la porta attraverso la quale si può accedere in maniera legittima al gregge di Dio, non solo è la porta attraverso la quale il suo gregge entra ed esce e viene condotto al pascolo, ma è soprattutto la porta attraverso la quale si entra nella salvezza.

Giovanni non parla mai esplicitamente della chiesa e questa parola non la troviamo mai nel suo vangelo, ma questo è senz’altro un brano in cui molto chiaramente si allude alla chiesa che viene qui rappresentata dal gregge di cui Gesù Cristo stesso è il pastore e nello stesso tempo anche la porta per mezzo della quale si entra in questo gregge per ottenere la salvezza.

Non è quindi il gregge o il fatto di appartenere a questo gregge che produce in sé la nostra salvezza, ma è la porta, cioè Cristo, per mezzo del quale si ottiene questa salvezza e si entra come conseguenza a far parte del suo gregge o della sua Chiesa.

Questo fatto viene detto con parole molto chiare in Atti 2, 47: « E il Signore aggiungeva alla chiesa ogni giorno coloro che erano salvati ». Gesù quindi è la porta attraverso la quale dobbiamo passare se vogliamo essere salvati. Non ci sono altri modi o altri sistemi per ottenere la salvezza se non quello di passare attraverso Gesù. Se scegliamo altre vie, se ci arrampichiamo nel muro per entrare nell’ovile siamo soltanto degli abusivi e come tali saremo trattati. Del resto vi sono molti altri passi nel Nuovo Testamento che affermano in maniera molto chiara ed inequivocabile che Gesù è l’unica via, l’unica persona attraverso la quale è possibile ottenere la salvezza (Gv 14, 6; At 4, 12).

Gesù prosegue nella spiegazione della parabola chiarendo il motivo per cui egli è l’unica porta attraverso la quale dobbiamo passare per ottenere la salvezza. Egli infatti non solo è l’unico pastore autorizzato a custodire ed a pascolare le pecore, ma è per di più « il buon pastore » che è pronto anche a dare la sua vita per le pecore. Mentre il ladro viene per depredare il gregge, mentre il mercenario abbandona le pecore al proprio destino al primo accenno di pericolo, perché non ha un vero interesse per loro, Gesù depone la sua vita e si sacrifica per loro. Il sacrificio di Cristo crea uno stretto legame fra lui e le sue pecore, quello stesso legame che unisce Cristo al Padre: « Io sono il buon pastore, e conosco le mie pecore e le mie conoscono me, come il Padre conosce me e io conosco il Padre, e depongo la mia vita per le pecore » (vv. 14-15).

Questo stretto rapporto personale che lo lega alle pecore, come conseguenza del suo sacrificio per loro, viene da Giovanni descritto come conoscenza reciproca che qualitativamente corrisponde alla conoscenza reciproca esistente tra il Padre ed il Figlio. Si deve però tenere presente che il concetto di conoscere, che Giovanni ha sviluppato dal suo uso linguistico dell’Antico Testamento, non significa soltanto un sapere teoretico, ma include una positiva relazione personale tra il soggetto che conosce e l’oggetto che è conosciuto, per cui sorge una specie di rapporto di solidarietà stretta ed intima.

L’ unione che esiste fra Dio e Cristo è la stessa unione che esiste anche fra Cristo ed i suoi fedeli. Tale unione viene ancora ribadita in Gv 17, 21 ed è frutto appunto del sacrificio di Cristo sulla croce. Per mezzo di tale sacrificio noi siamo diventati una stessa cosa con Cristo, per cui Paolo poteva esclamare: «Non sono più io che vivo, ma è Cristo che vive in me » (Ga 2, 20). « Poiché voi tutti che siete stati battezzati in Cristo, vi siete rivestiti di Cristo » (Ga 3, 27).

Ma nelle parole di Gesù riferite nel brano di Giovanni ai vv. 14 e 15 non è affermata soltanto un’analogia formale fra l’intimità di Cristo con i suoi fedeli e l’intimità del Figlio con il Padre, ma si vuole dire che l’intimità di questa relazione, per cui il pastore si sacrifica per le sue pecore, è fondata sull’intimità della relazione che esiste tra il Padre ed il Figlio, dato che tale sacrificio di per se stesso corrisponde alla volontà del Padre, il cui proposito salvifico lo ha indotto a mandare e a sacrificare il Figlio (Gv 3. 16). In questo senso l’idea del v. 15 continua nel v. 17 e sarebbe del tutto naturale sotto questo aspetto che il v. 17 seguisse immediatamente al v. 15. Ma fra i due versetti si inserisce una riflessione del tutto diversa, un’annotazione di passaggio, sembrerebbe, che è destinata ad evitare un equivoco nel quale quasi inevitabilmente sarebbero caduti i farisei ai quali è rivolto il discorso: l’esclusività del popolo ebraico nell’elezione da parte di Dio.

Gesù è il salvatore del mondo e non soltanto di Israele (Gv 1, 9). Echeggia in queste parole la felicità della chiesa in procinto di diventare universale superando le barriere dei popoli (Ef 2, 14-22; Ga 3, 28). Il v. 17 riprende l’idea del v. 15, e qui sorprende che Gesù non si limiti ad affermare: «Per questo il Padre mi ama perché io depongo la mia vita », ma aggiunga anche «per prenderla di nuovo ».

Il versetto 18 chiarisce questo aspetto perché il potere di deporre la propria vita ed il potere di riprenderla di nuovo sono fatti risalire alla volontà di Dio. L’amore del Padre per il Figlio ha un duplice aspetto: da un lato esso è dovuto all’auto sacrificio di Gesù nella morte, la cui volontarietà è sottolineata con molta enfasi. La sua decisione è stata presa non per la costrizione di una forza estranea, come potrebbe pensare chi osserva il gesto di Gesù dall’esterno. La morte di Gesù è un atto suo, un atto di obbedienza. Ma il motivo dell’amore del Padre per il Figlio non è che questi muore, e basta, ma che muore per riprendere la vita, per passare dunque, attraverso la morte ad una nuova vita.

È proprio questo che deve essere messo in rilievo in tutto questo discorso, perché soltanto colui che è risorto e che è innalzato a vita divina sarà in condizione di prendere su di sé il ministero pastorale di questo e di quell’ovile in modo che la chiesa diventi una realtà per tutta l’umanità.