DANIELE CONCINA

 

 

Il domenicano Daniele Concina nasce il 2 ottobre 1687 dalla nobile famiglia di Pietro Concina di Clauzetto e Pasqua Ceconi. Visse e operò a Venezia divenendo un importante punto di riferimento per tutto ciò che si riferiva alle controversie di carattere religioso ed è ricordato per la sua grintosa forza polemica.

Testi liberamente tratti da uno studio di Giovanni Pillini, pubblicato su "ÂS Int e Cjere" della Societât Filologjche Furlane.

 

 

 

 

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A chi dia uno sguardo, anche superficiale, alle vicende del territorio di Vito d’Asio e di Clauzetto, non può non apparire singolare il gran numero di religiosi, sia regolari sia secolari, di cui è stata particolarmente feconda la zona. Lo aveva notato nel secolo scorso anche Giovanni Pietro Fabrici, nativo di Clauzetto, religioso lui pure: ‘Ogni famiglia di qualche fortuna - scriveva - reputa principal suo decoro l’aver uno o più individui dedicati al servizio della Chiesa di Dio". Ovviamente una spiegazione del fenomeno va cercata, oltre che nel fatto che l’appartenenza al clero creava prestigio, anche in altre direzioni e cioè nella situazione socio-economica della zona, nella natura dei luoghi, che predisponevano alla contemplazione, e nell’ambiente piuttosto isolato. Ma quello che colpisce l’osservatore non è soltanto l’aspetto quantitativo del fenomeno, ma anche quello qualitativo. Una prima constatazione in questo senso ci porta a dire che, se non tutti, almeno una buona parte, questi religiosi si dimostrano di carattere severo e intransigente, poco o nulla propensi a venire a patti con le debolezze umane o anche semplicemente con le mode. D’altra parte una seconda constatazione ci conduce a formulare un giudizio positivo sulla loro preparazione, talvolta di primissimo ordine, anche se non sempre in sintonia con le correnti della cultura contemporanea. Questo rifiuto del nuovo e questo ritardo rispetto ai tempi possono però essere visti anche come il frutto di un tenace attaccamento ai principi della Fede e come la conseguenza di un atteggiamento di timore nei riguardi dei pericoli cui la cultura "moderna" avrebbe potuto condurre l’umanità. Si tratterebbe allora di una forma di sollecitudine dettata da amore verso il prossimo, anche se espressa in modi non sempre accorti ed accettabili. Riprendendo l’osservazione del Fabrici a proposito del fatto che in una stessa famiglia si manifestavano parecchi casi di vocazione religiosa, l’esempio più interessante in tal senso mi sembra, sotto molti aspetti, quello della nobile famiglia Concina. Dal matrimonio di Pietro di Clauzetto con Pasqua Ceconi di Vito d’Asio, negli ultimi anni del ‘600 nacquero cinque figli maschi, dei quali ben quattro abbracciarono la vita religiosa: Pietro, prete secolare, dottore in utroque, che "si fece strada colla conoscenza di varj idiomi in varie corti e fu ascritto fra i consiglieri di S.M. Cristianissima", Antonio Maria, servita, che però morì appena trentenne, Leonardo, che divenne domenicano col nome di Niccolò e fu professore di metafisica all’Università di Padova negli anni ‘30, e Daniele, domenicano. Dei quattro il più celebre è senza dubbio Daniele non solo per le sue doti personali, ma anche perché occupò un posto di primissimo piano nella vita religiosa nella prima metà del '700. Nella seconda metà del settecento entra in crisi, sotto l’attacco del movimento dei "lumi", quel tipo di cultura che era stato diretto e dominato dal clero. La Rivoluzione francese e tutto quello che ne seguì, anche in Italia, determinarono in seguito non solo il ridimensionamento dell’influenza degli ordini religiosi e del clero secolare, ma anche l’isolamento del loro modo di affrontare i problemi filosofici e le questioni politiche e morali. Neanche la Restaurazione riportò le cose alla situazione preesistente, poiché neppure i conservatori si sentivano di ripristinare in toto il mondo dell’Ancien régime. Il tipo di lotta condotto da Daniele Concina contro la cultura moderna non sarebbe stato più possibile. Per questo nel secolo successivo non troviamo più figure di polemisti; anzi si potrebbe dire che r clero di origine vitese o clauzettana eviti di impegnarsi in battaglie forse ritenute sterili o poc giovevoli alla Chiesa. Prevalgono figure di religr:si dediti, oltre che alla cura d’anime, all’insegnamento e alla predicazione. Possiamo citare a questo proposito Giovanni Maria Zannier, nato a Clauzetto nel 1792, che fu parroco di Teglio e distinse come oratore e insegnante nel seminari di Concordia. Morì nel 1855. Un altro Giovanni Maria Zannier, di Pradis di Sotto (1809-1875 laureato, oltre che in teologia, anche il lettere, insegnò nel seminario di Portogruaro e fu canonico nella cattedrale di Concordia. Svolse attività, molto apprezzata, di predicatore non solo in Friuli, ma anche a Torino, a Roma e persino a Vienna. Si distinse anche come oratore. Accanto a questi possiamo ricordare Giovanni Pietro Fabrici di Clauzetto (1798-1868), divenuto poi arciprete di Azzano, oratore e studioso di storia locale. Di lui infatti abbiamo citato, all’inizio del presente saggio, un articolo sulla Pieve d’Asio, cui vanno aggiunte alcune biografie sui religiosi della zona. Fabrici sembra ancora riproporre la figura del prete clauzettano piuttosto duro e intransigente, tanto da lasciarsi coinvolgere in polemiche a carattere personale. Ma si tratta di piccole cose. Merita un cenno un’altra figura di religioso: Domenico Toppani di Vito d’Asio (1817-1843), insegnante nel seminario di Portogruaro, che fu poeta occasionale. Morì appena ventiseienne, lasciando una piccola raccolta di versi che, se pur non di eccezionale livello, non sono privi di eleganza e finezza. Ricordiamo anche Leonardo Zannier (1849-1935), la cui opera di studioso della storia della Pieve è documentata da questi scritti: Vito d'Asio. Imposizione di una nuova decima feudale alla fine del Medio Evo (Portogruaro 1885), Asio. Cronichetta ecclesiastica di S. Margherita d’Anduins (S. Vito al Tagliamento 1885), Il clero di Vito (Portogruaro 1895). Lungo sarebbe percorrere la lista dei religiosi operanti nella zona o provenienti da essa. Basti pensare che più della metà del clero della diocesi di Concordia era oriunda della Pieve d’Ano. I cognomi che ricorrono più frequentemente sono quelli dei Ceconi, dei Missana, degli Ortis, degli Zannier. Nessuno però di questi giunse mai all’altezza, comunque la si voglia valutare, di Daniele Concina, la cui grintosa forza polemica resta certamente un caso limite, e neppure a livello culturale di Niccolò.

Su Daniele Concina sono stati formulati giudizi molto diversi, da quello sostanzialmente positivo di Arturo Carlo Jemolo a quello non molto benevolo di Franco Venturi che lo considera un teologo lento e torrentizio e ne evidenzia la costante opposizione a tutte le novità. Paola Berselli Ambri ne mette in luce l’onestà e la rettitudine e riconosce in lui, così battagliero, anche una punta di ingenuità che lo rende più accettabile di certi suoi astuti rivali, in particolare i Gesuiti, ma nel contempo le sembra che nello svolgere la sua opera di polemista a favore della Chiesa egli si sia mosso "col garbo classico dell’elefante entrato nel magazzino di porcellane". Per Alberto Vecchi invece Concina fu "un uomo dal vigore eccezionale che riuniva in modo fortemente accentuato quel tanto di aspra scontrosa austerità e di dolce signorile mitezza che sono proprie a tanta parte della gente friulana". Sfumato il giudizio di Pietro Nonis, il quale, arche se riconosce al frate clauzettano certe asprezze del carattere, ne mette però in evidenza la grande fede, l’attaccamento alla Chiesa, l’onestà intellettuale. Sembra al Nonis che Concina segua un indirizzo teologico "sostanzialmente fissista" e di tipo "tardo-tomista", che non pervenga, se non di rado, ad una "visione sintetica, equilibrata e comprensiva" dei problemi e che le sue qualità umane e le sue virtù cristiane si colgano più nel suo concreto operare che nei suoi scritti. Paolo Preto ne fa tutto sommato un ritratto non lusinghiero: riconosce l’austerità e l'integrità del personaggio, ma anche l’asprezza del carattere, l’eccessiva vis polemica e la durezza degli interventi. Certo Concina fu un religioso tutto d’un pezzo, un uomo che non amava transigere, alieno da ogni compromesso. Egli avrebbe desiderato che la Chiesa tornasse all’antica purezza e che la società fosse costituita, se non proprio da campioni di ascetismo, almeno da persone oneste. Il suo sguardo era rivolto al passato, ansioso di veder restaurato il Cristianesimo delle origini o per lo meno non contaminato dalle idee della cultura moderna. Egli si buttò a capofitto nella battaglia contro il lassismo e le novità, che per lui facevano tutt’uno, finendo con l’urtarsi non solo con i Gesuiti, ma anche con alcuni esponenti del suo stesso Ordine. Purtroppo egli si lasciò spesso trascinare in polemiche furiose che talvolta finirono col dar l’impressione che in certi casi fossero in discussione non tanto i supremi valori del Cristianesimo, quanto argomenti alimentati da beghe fratesche, con risultati tutto sommato poco giovevoli alla Chiesa stessa, al punto che in qualche caso furono necessari autorevoli interventi per farle cessare, tanto più che l’opinione pubblica stava ormai porgendo orecchio attento alle novità diffuse dall’incipiente cultura dei "lumi", il che la portava a guardare quasi con fastidio o con indifferenza, a seconda dei casi, a questo tipo di manifestazioni. Lo stesso Benedetto XIV non approvava la violenza di certi suoi interventi, tanto che, a proposito della polemica sull’usura, temendo che il fiero domenicano avesse a passare certi limiti, manifestò l’intenzione "o di dovergli proibire la stampa o di far ben castrare lo scritto, quando si dovesse stampare". L’opera cui si riferisce il papa è il Commentarius conciniano alla sua enciclica sull’usura. Scrivendo al cardinal Querini, Benedetto XIV manifestava la preoccupazione che l’opera del Concina potesse fare "più male che bene" e pertanto auspicava che venisse "riveduta purgata e corretta, non essendo dovere che il chiosatore passi più avanti del testo che nemmeno in rigore aveva bisogno di chiosa...". Evidentemente il papa si era risentito per il fatto che un frate, per quanto dotto ed animato da buone intenzioni, si volesse dimostrare più ligio di lui in campo dottrinale. Benedetto XIV temeva gli spiriti troppo zelanti, tanto che, tornando sullo stesso argomento, raccomandava, sempre al cardinal Querini, che l’opera in questione fosse rivista e che, qualora fosse stata pubblicata, "uscisse senza metter fuoco". Daniele Concina fu certamente inviso a molti e forse anche da qualcuno detestato. Fu ammirato, ma anche temuto. "E’ uno di quelli - scriveva il funzionario imperiale Gian Battista Gaspari al fratello Lazzaro, domenicano nello stesso convento del Concina - che basta non averli per nemici. Se abbraccerete il mio consiglio, vi guarderete dal far causa comune con esso lui nelle controversie e nelle brighe ch’ei va accattando or qui or là...". Giustamente Jemolo ha scritto che "figure così ricche di vita.., non possono non destare accanto ad avversioni profonde, entusiasmi ed attaccamenti". Bisogna comunque convenire che quella di Daniele Concina è una figura non priva di fascino. Infatti, se si dimostrò nemico delle novità e tuonò contro tutte le forme di lassismo, era perché egli temeva le conseguenze negative che sarebbero potute derivare all’umanità dal rifiuto della tradizione e dall’abbandono di principi solidi e pratiche collaudate. La religione non era uno scherzo per Concina, che anzi non ne smarrì mai il senso tragico, al punto di viverla profondamente come un’esperienza che oggi potremmo definire di tipo esistenziale. Resterebbe da vedere se questo suo modo di sentire e di operare sia riconducibile alle sue origini friulane. Qualcuno lo pensava allora e qualcuno lo pensa oggi. La cosa è tutt’altro che improbabile e costituirebbe una conferma di quanto abbiamo detto all’inizio. Concina si spense nel 1756.