di Alessandro Vicenzi

#1 - IL SANGUE E' VITA

 

C’era sangue ovunque. Sulle pareti, sul pavimento, sulle sue mani, sulle sue spalle, sulla sua faccia. L’odore denso della vita fuggita saturava completamente la stanza.

Non c’erano più suoni, solo il pesante respiro dell’unico uomo ancora vivo in quella cripta, Conan di Cimmeria. Ai suoi piedi, otto cadaveri. Sciacalli senza onore che lo avevano attirato in una trappola dalla quale non avevano speranza di uscire vivi.

Si era lasciato condurre fino a lì, fingendo di non capire cosa avessero in mente, di non vedere le ombre dei complici, di non udire i loro bisbigli e il loro puzzo. Quando erano sbucati fuori, sapeva già come cosa fare. Aveva ucciso per primo i due che lo avevano trascinato fino a lì, sbattendone le teste assieme. La scena doveva avere impressionato gli altri, che avevano esitato quel poco che gli era bastato a estrarre la spada. Restavano sei contro uno, ma erano sei pulcini spaventati contro un leone infuriato. I tremiti scomposti dell’agonia dei loro compari a terra non avevano certo aiutato la loro paura. Gli si erano fatti incontro uno alla volta, e uno alla volta erano stati abbattuti. Solo l’ultimo aveva tentato una fuga, fermata dalla pesante daga che gli si era conficcata nella schiena con un rumore sordo.

“Crom!”, esclamò il gigantesco cimmero, cercando di pulirsi un poco. Lo avevano trascinato in  fondo a quell’oscura cripta stygiana, e non c’era nulla che valesse la pena portare via da lì. Nessun oggetto di valore, figurarsi i tesori che gli avevano promesso per farlo andare con loro. Tempo sprecato, fatica sprecata. Frugò i corpi dei suoi assalitori. Pochi spiccioli, pugnali scadenti. Erano solo dei poveracci (primo errore: non avevo capito che erano veramente poveracci, li ho creduti collegati alla strega-regina e ho disegnato dei sacerdoti e delle guardie), che forse speravano di fare il colpo della loro vita e impadronirsi della sua borsa d’oro e della sua spada. Forse avrebbe potuto fermarli in altro modo. O forse no. Forse così aveva evitato che altri rischiassero di venire derubati in quel modo. Rise. Non si vedeva certo nei panni di una guardia. Era un avventuriero, un soldato, un ladro. Tutto quello che faceva era dettato dal suo istinto, e dal suo onore. Onore. Sangue di Crom! Conosceva di più il significato di quella parola lui, un barbaro del nord, che i signori che vivevano nelle grandi città e che si definivano “civili”.

Uscì dalla stanza in cui si trovava. Doveva risalire verso l’alto, prima che la sua torcia si spegnesse. Aveva studiato attentamente il percorso fatto all’andata, e non ci sarebbero stati problemi. Per precauzione, tornò nella stanza dalla quale era partito per prendere le torce degli uomini con i quali era sceso. Come entrò, si rese subito conto che c’era qualcosa di sbagliato: il sangue era scomparso dalle pareti, dal pavimento, dal soffitto. Non c’era più una goccia di sangue nella stanza. Gli stessi cadaveri erano pallidi e dissanguati. Per la prima volta da quando aveva messo piede là sotto, Conan sentì un brivido di terrore. Nessuna creatura poteva essere entrata lì dentro dopo di lui. Era una stregoneria! Il cimmero maledisse gli stregoni e la Stygia che sembrava partorire seguaci delle arti nere come un cadavere produce vermi.

Esaminò le pareti da vicino. Prima non ci aveva fatto caso, ma guardandoli da vicino i muri non erano lisci come gli era sembrato all’inizio. Erano percorsi da minuscole scanalature, come dei piccoli condotti: il pavimento, le pareti e il soffitto formavano un percorso, un complesso e intricato disegno che portava a un minuscolo foro sulla base di una parete. Il sangue doveva essere scomparso di lì. Qualcosa lo aveva attirato. Passò il pollice sulla lama, premendo fino a stillare una goccia di sangue. La guardò cadere al suolo. Per un istante la goccia restò dove era caduta, poi fuggì lungo una della scanalature fino al buco, e scomparve. Non sarebbe rimasto lì dentro un solo istante in più. Corse verso l’uscita della stanza, ma qualcosa glielo impedì. Era la mano di uno dei morti, che si era stretta saldamente attorno alla sua caviglia, con una forza inumana.

“Sei stupito, barbaro?”

La voce aveva risuonato nella stanza proprio nello stesso momento in cui Conan aveva reciso la mano del morto con un colpo di spada. L’arto prese a muoversi sul pavimento, come un grottesco ragno, mentre i cadaveri si alzavano in un silenzio irreale. Era una voce sibilante e malata, come di un vecchio. Conan ringhiò. Aveva ucciso quegli uomini una volta, non gli sarebbe costato nulla continuare a colpire i loro cadaveri animati fino a che non avessero smesso di muoversi per sempre. Poi avrebbe pensato allo stregone che era causa di quell’orrore.

La lotta non fu breve, né semplice come il cimmero aveva pensato. Quelle aberrazioni erano più resistenti e combattive di quanto non sembrasse, e i loro denti e le loro unghie lacerarono più di una volta la carne di Conan, mentre la sua spada danzava al suono di una sinfonia di morte e acciaio. Come in un incubo, i morti venivano colpiti e si rialzavano, crollavano al suolo senza perdere una goccia di sangue o emettere alcun lamento, mentre Conan grugniva, bestemmiava e imprecava ogni volta che vedeva il suo sangue cadere al suolo. Avrebbe voluto fuggire da quella stanza, ma i morti viventi non gli permettevano di raggiungere l’uscita. E poi c’era quella voce, che di tanto in tanto sussurrava, malata e perversa, “Sì… continuate, miei servi, così!”.

Poi tutto finì. Nessun morto tornò a rialzarsi. Al suolo c’erano otto esseri umani ridotti a tagli di carne, arti, teste e organi sparsi ovunque. Conan era coperto di sangue (non molto, nei disegni), e questa volta era solo suo, ma la stanza era di nuovo completamente pulita. Non c’era una singola goccia di sangue.

Fu allora che una delle pareti prese a tremare. Non c’era più tempo per scappare, pensò Conan. Qualunque cosa fosse venuta fuori dal muro che stava per crollare, avrebbe dovuto combatterla. Uomo, stregone o demone che fosse, avrebbe assaggiato il suo acciaio. Si tolse di dosso uno scalpo (ehm... avendo pensato a degli zeloti e avendoli disegnati tutti rasati fin dall'inizio...) che era finito sulla sua spalla, e si mise in posizione di combattimento.

Il muro collassò su se stesso, con un fragore terribile. In un attimo la stanza fu invasa dalla polvere, e Conan non vide più nulla.

“Crom!”, gridò, “mostrati, così che io possa sventrarti come il cane che sei, stregone!”

Il sibilo di un soffio, e la polvere svanì. Davanti a Conan c’era una donna, forse una delle più belle donne che il cimmero avesse visto in vita sua. La perfezione delle sue forme, avvolte appena in un velo quasi trasparente, era tale da mozzare il fiato. I suoi grandi occhi obliqui erano due onici neri incastonati in un viso fiero e armonioso, le labbra erano piene e ben disegnate, e incredibilmente rosse. Stringeva in una mano una verga dorata (l'ho dimenticata! ormai avevo disegnato già due tavole quando me n'ero accorto), ed era coperta di monili e gioielli (non molto, mi scocciava disegnare gioielli, i gioielli migliori non erano minerali...)che risplendevano ben più della torcia che Conan stringeva nella mano sinistra.

“Quale prodigio?”, balbettò il barbaro, non riuscendo a credere che dietro a tanto orrore potesse celarsi una simile bellezza.

“Gioisci, uomo,” disse lei, parlando con una voce fatta di seta e miele, ma con un’anima nobile e dura come il diamante, “poiché i tuoi occhi sono i primi a posarsi su Aleena dopo secoli. Davanti a te è colei per la quale re e imperatori persero la ragione, colei per la quale le vite di migliaia di uomini vennero spezzate sui campi di battaglia, colei per la quale intere montagne furono scavate alla ricerca di pietre preziose che potessero conquistarla. Uomini da ogni parte del mondo giungevano al mio palazzo per chiedermi in sposa, o solo per potermi ammirare, recando doni di ogni tipo. Grande e potente fu il mio regno, e i miei sudditi mi adoravano disperandosi! Inginocchiati davanti a colei che è tornata dal regno delle ombre, piccolo uomo!”

Conan era stupefatto. Si era aspettato un vecchio stregone, avvizzito dalla prigionia sottoterra, e si trovava invece di fronte a una splendida donna, tanto bella da sembrare irreale. Sentì le gambe che iniziavano a piegarsi, contro la sua volontà. Non voleva inginocchiarsi, ma sembrava impossibile resistere al volere di una creatura tanto superba. Lei lo fissava con quegli occhi neri come la notte, lui la fissava con la fierezza dei suoi occhi del colore dell’acciaio. Non voleva cedere, sentiva che in qualche modo se avesse ceduto su quello sarebbe rimasto in suo potere per sempre. Strinse i denti e resistette. Sentiva il dolore esplodere e diffondersi per tutto il corpo, ma non cedeva.

Lei sorrise: “La tua tempra è forte, uomo, ma non illuderti. Io sono tornata alla vita anche grazie al tuo sangue vigoroso, ed è quello che mi rende così potente. Arrenditi. Inginocchiati e unisciti a me. Non ci sarà limite a ciò che tu e io potremmo fare assieme!”

Lo sforzo stava diventando insostenibile. La mano che stringeva la torcia si strinse così tanto che il legnò si spezzò, e l’unica fonte di luce di Conan cadde sul pavimento, spegnendosi. Come la donna scomparve dalla sua vista, il cimmero fu libero di alzarsi. Al buio, il gigante sorrise.

“Ah, è così, donna? Il tuo potere non funziona su chi non ti può vedere?”, gridò, quasi ebbro di gioia per non avere ceduto. Ci fu un ansimare spaventato. Un rumore di passi. La donna stava tentando di fuggire, di sorpassare il cimmero approfittando del buio. Conan sorrise. Le lunghe notti cimmere lo avevano abituato a non fare affidamento solo sulla vista. Allungò il braccio orfano della torcia e intercettò la sua fuga, stringendo le dita attorno al collo della donna.

Il contatto lo fece rabbrividire. La pelle era fredda e grinzosa, nulla che avesse a che vedere con l’immagine splendente e magnifica di pochi attimi prima.

“Lasciami! Lasciami!”, starnazzò una voce soffocata, lontana dal suono incantevole che aveva tentato di ammaliare il barbaro. Il corpo che si dibatteva per liberarsi era molto più piccolo e magro di quello che aveva visto, e le mani che cercavano inutilmente di forzare la stretta di Conan piccole e gracili. Al cimmero bastò aumentare solo di un poco la pressione della mano per spezzare il collo della creatura. In un istante smise di dibattersi. Qualunque cosa fosse, era morta. Ne gettò a terra il corpo, poi cercò un’altra torcia, e la accese.

Il corpo era quello di una donna, ma era come un acino d’uva avvizzito. In vita forse era stata la donna splendida che gli era apparsa, ma la morte non aveva preservato quella bellezza. La sua superbia l’aveva fatta rivelare troppo presto, quando era ancora troppo debole per potere tornare veramente alla vita. Tutto quello che poteva fare era creare illusioni, pensò Conan, mentre esplorava la stanza che il crollo del muro aveva rivelato. C’erano molti gioielli, dentro, e oggetti preziosi. Raccolse tutto quello che poteva, poi si caricò in spalla il cadavere della donna e uscì dalla cripta.

Abbandonò il cadavere nel deserto, all’aperto, augurando agli sciacalli di trovare un poco di carne attorno a quelle vecchie ossa, e tornò verso la sua locanda, sperando che Dana fosse ancora sveglia e che non pretendesse troppi pezzi d’oro per aiutarlo a dimenticare quella sciocca notte di sangue.

 

NOTE:

Questa storia si svolge poco prima che Conan incontri la piratessa Bêlit (nella storia “La regina della costa nera”). Conan ha più o meno ventiquattro o venticinque anni, in questo momento, stando alla maggior parte delle cronologie del personaggio che ho consultato.