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Questo documento non è stato redatto dal o per il Fronte Patriottico, che tuttavia ne apprezza i contenuti

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UNA FORZA POPOLARE DI LIBERAZIONE

I motivi e le idee della resistenza all'impero americano Un anno fa alcuni di noi si fecero promotori di un testo dal titolo Peoples smash America che in poco tempo raccolse centinaia di adesioni. Non era solo un grido di allarme contro la guerra, era un appello al movimento che dilagava per le strade del paese a non fermarsi alla difesa della pace, ad attrezzarsi per la necessaria resistenza all'Impero americano. La nostra esortazione cadde sfortunatamente nel vuoto, che della "seconda superpotenza mondiale", non appena i carri armati di Bush entrarono a Bagdad, non restò traccia. Neanche l'eroica resistenza del popolo iracheno risvegliò il movimento per la pace dalla sua catalessi. Rifiutandoci di seguire la corrente di riflusso noi ritenemmo, pur disponendo di forze modeste, che fosse necessario rilanciare l'iniziativa, a due livelli. Occorreva sostenere subito la resistenza irachena contro gli occupanti, ma pure avviare un lavoro che sapevamo essere di medio periodo, quello di fondare un nuovo movimento che non solo raccogliesse l'ostilità alla politica imperiale americana ma organizzasse anche qui una Resistenza all'americanismo e all'imperialismo. Non ci saremmo aspettati tanto fuoco di sbarramento. La manifestazione del 13 dicembre "Con il popolo iracheno che resiste" (presenziata dal portavoce della Resistenza Awni Al Kalemji) e al cui successo abbiamo contribuito, è stata oggetto, oltreché di un boicottaggio senza precedenti da parte di ampi settori della sinistra, di una vera e propria campagna di demonizzazione e criminalizzazione dei principali mezzi di informazione. Stessa sorte è toccata all'idea che ci sta più a cuore, quella di fondare un movimento politico antiamericanista, su cui è stato detto tutto e il contrario di tutto. E' necessario a questo punto precisare le ragioni per cui riteniamo di dover andare avanti, iniziando proprio dall'analisi della situazione sociale, allo scopo di verificare se ciò che stiamo proponendo è velleitario o se, come pensiamo, poggia su obiettive tendenze materiali e spirituali. Di proposte politiche se ne possono infatti fare molte, si affermano però solo quelle che incontrano un'effettiva domanda sociale. Ribatteremo infine, punto per punto, alle critiche e alle accuse che in questi mesi ci sono state rivolte.

La crisi italiana

Il nostro paese vive da lunga data una crisi complessiva, che è economica, sociale, politica e culturale. Essa si inscrive in quella internazionale segnata da due fattori: l'incapacità del capitalismo di soddisfare i bisogni, anche primari, della maggioranza degli esseri umani, e le tensioni dovute al passaggio dall'estinto ordine bipolare all'impero americano. I gruppi dominanti che negli anni '90 si sono trovati al potere, approfittando del collasso del regime democristiano, portarono un attacco demolitore alle conquiste del movimento operaio e alle secolari tradizioni popolari, solidaristiche ed egualitarie (che pur in modo parziale sono state fissate nella Costituzione). Questi gruppi importarono il modello americano, non solo sul piano economico, ma pure su quelli politico, istituzionale e culturale. Ma questa americanizzazione, invece di risolvere la crisi l'ha aggravata, e da essa non si uscirà con semplici aggiustamenti, con mezze misure, ma solo con soluzioni radicali. Quali sono? O l'americanizzazione verrà completata, portata alle sue ultime conseguenze con devastanti lacerazioni sociali, o al suo posto si affermerà la contro-tendenza opposta, una sostanziale de-americanizzazione, economica, politica, sociale e culturale. Il paese non può, pena il naufragio, galleggiare e oscillare ancora a lungo tra Scilla e Cariddi. Il momento della scelta è più vicino di quanto si pensi. Sotto traccia, impercettibilmente, matura una nuova polarizzazione sociale, si vanno formando gli eserciti destinati ad affrontarsi in campo aperto. Dall'esito di questa battaglia dipenderà il futuro.

L'opposizione all'americanizzazione

Gli artefici dell'americanizzazione liberista non possono dunque né restare a lungo in mezzo al guado né fare marcia indietro. Sono obbligati ad andare avanti. Essi debbono accelerare il processo di americanizzazione su tutti i piani: economico, sociale, istituzionale e culturale. Ma più essi procedono, più si separano dalla "società civile", più alimentano la resistenza. Le recenti proteste sociali, da quelle dei dipendenti del trasporto urbano a quelle dei medici, da quelle dei siderurgici a quelle ambientaliste, da quelle dei lavoratori dell'Alitalia a quelle dei magistrati, pur profondamente diverse l'una dall'altra, hanno un oggettivo comune denominatore: il rifiuto del modello sociale e istituzionale americano-liberista. Questa tendenza era stata preceduta da alcuni fenomeni di grande importanza politica. Il movimento no global e quello per la pace, hanno mostrato che la società non è stata normalizzata, che l'americanizzazione si è fermata alla superficie; che in essa vanno anzi crescendo non solo l'opposizione al corso degli eventi ma pure una domanda di cambiamento, un desiderio ancora confuso di svolta. I sondaggi di opinione commissionati dagli stessi governi confermano lo iato tra la "società civile" e la sua rappresentazione politica, di destra e sinistra, di vecchi e nuovi reazionari, mostrano che i sentimenti antiamericanisti si vanno consolidando. Emblematico quello compiuto a scala europea, in base al quale la maggioranza dei cittadini ritiene che Israele e gli USA siano le due principali minacce alla pace mondiale. La vergognosa successiva campagna di intossicazione, centrata sull'accusa di "antisemitismo", è stata la più chiara conferma che questa discrasia diventa una voragine, che le forze politiche sistemiche (in un contesto in cui ai governi nazionali non restano che margini del tutto residuali di azione) non possono rappresentare queste spinte sociali e questi sentimenti culturali. Siamo davanti alle avvisaglie di una crisi sociale che potrebbe dunque diventare una crisi politica e istituzionale senza precedenti. E' questa fibrillazione sociale, è la resistenza popolare trasversale che rende virulenta e imprevedibile la guerra per bande dentro le istituzioni, che spiega l'instabilità politica crescente, la sostanziale paralisi dei governi nonostante essi godano di maggioranze parlamentari senza precedenti.

Chi rappresenta chi?

Chi darà voce a queste istanze profonde? Questo è il problema più scottante di questo periodo, la domanda che ci siamo posti quando abbiamo avanzato l'idea di un nuovo movimento popolare di liberazione antiamericanista. Noi muoviamo da tre convinzioni: che le tradizioni storiche di questo paese (che i liberali liquidano con l'epiteto di "catto-comunista" intendendo in realtà l'egualitarismo sociale e un universalismo umanistico) sono refrattarie all'americanismo e chiedono di essere rappresentate; che si sta aprendo, fuori dal campo bipolare, uno varco che diventerà un vero e proprio spazio politico di massa; che questo spazio ora vuoto, prima o poi, sarà occupato. Stiamo appunto proponendo di rompere gli indugi, di porsi l'obbiettivo di dare voce alle istanze che vanno prendendo piede tra le masse e che non noi, ma i maître a penser del regime hanno bollato, in maniera dispregiativa, come antiamericaniste. I tempi sono stringenti. Il fattore tempo, in politica, è cruciale, è quello che separa le potenziali avanguardie che vogliono imprimere una data direzione agli eventi storici, da coloro che non potranno che assistere fatalisticamente ai fatti. Sappiamo bene che il nostro slancio, affinché produca il risultato sperato, ha bisogno che certi processi sociali, ancora incipienti, giungano ad una certa maturazione. Occorre anzitutto che la resistenza si stabilizzi e si rafforzi, che entrino in scena, oltre agli strati sociali contrattualmente forti, quelli più deboli afferrati nell'universo del lavoro precario e flessibile, dell'esclusione sociale. Occorre che questa nuova opposizione sociale incontri la diffusa ostilità culturale e spirituale al Moloch americano-liberista. Questa evoluzione non dipende da noi, ciò che dipende da noi è costruire per tempo un saldo punto di riferimento e di ancoraggio a istanze sociali e politiche che stanno oltre al mero sindacalismo sociale, che contengono un'esigenza generale di fuoriuscita dalla globalizzazione imperialistica e dalla sfera geopolitica del dominio americano. Non abbiamo nulla da perdere, se non le catene di un paralizzante minoritarismo.

Il populismo

Ciò che deve spingerci ad accelerare il passo è che il varco politico che sta tra la "società regale" e quella "reale", vista la refrattarietà dei ceti politici istituzionali, rischia di essere occupato da un nuovo populismo, un populismo che troverà quasi certamente i suoi catalizzatori fuori dal perimetro istituzionale. Non si tratta di un fulmine a ciel sereno: da un decennio, non solo in Italia ma in mezza Europa, vediamo tutti sintomi dell'avvento di movimenti populisti (Italia, Austria, Francia, Olanda, Belgio, ecc.). Non si tratta di fare esorcismi. Col populismo in fieri occorre fare i conti, individuando anzitutto le sue cause, che risiedono nella fine delle "aspettative di benessere crescente", nel lento processo di pauperizzazione dello stesso ceto medio, nella percezione che la caduta di rango sociale è inarrestabile. Certi sociologi parlano dello "effetto di spaesamento e sradicamento" indotto dai processi di globalizzazione. Questo "spaesamento" è amplificato dal pensiero unico americanista dominante che batte in modo martellante su un unico tasto: la globalizzazione è una ineluttabile e auspicabile fatalità. Quattro sono gli elementi principali dell'incipiente populismo: 1. la resistenza alla pauperizzazione e alla degradazione del proprio rango sociale; 2. il rifiuto della modernità realmente esistente e la renitenza davanti al mito della globalizzazione; 3. la rivolta contro il fatalismo che presenta la globalizzazione come fenomeno inarrestabile; 4. l'avversione verso il carattere iper-oligarchico del capitalismo, che è anche astio verso il sistema politico che protegge gli interessi di queste oligarchie. Possiamo considerare queste istanze come reazionarie? No, non possiamo. Esse, pur presentandosi mescolate ad altre meno nobili e inaccettabili (è un vizio dei dottrinari la spocchia verso ciò che non è "puro e limpido" come vorrebbero) sono istanze legittime, hanno un valore che osiamo definire progressivo. Esse sono tuttavia aperte ad esiti non solo diversi ma opposti: possono essere utilizzate sia da forze politiche anticapitaliste e antisistemiche, che neocapitaliste e neoimperialiste. E' indiscutibile che chiunque voglia fuoriuscire dal capitalismo non può prescindere da queste istanze, deve anzi rappresentarle per declinarle in maniera adeguata. Tra le istanze populiste inaccettabili due spiccano sulle altre: la xenofobia e la pulsione allo "Statofortismo". Pur respingendo l'ideologia della "società multietnica" (che si traduce nei fatti nell'americano melting pot, ovvero nel sistema segregazionistico dei ghetti) e ogni feticismo parlamentare; noi vogliamo invece difendere i diritti degli immigrati, che sono le prime vittime della globalizzazione capitalistica, e le tradizioni e le norme democratiche che a caro prezzo il movimento operaio e le classi subalterne hanno strappato in lotte secolari. La sinistra sistemica inorridisce davanti al rischio "plebeo e antipolitico" del populismo in fieri aggrappandosi ostinatamente al PTPC (Partito Trasversale Politicamente Corretto) e ai dogmi dell'americanismo. Quali sono questi dogmi? Il capitalismo come sistema sociale eterno, il diritto dell'Occidente imperialista ad esercitare la propria supremazia mondiale, gli Stati Uniti come Stato guida del sistema, Israele come suo avamposto inviolabile. La sinistra radicale, pur rappresentando forze sociali che resistono all'americanismo, si rifiuta pudicamente di ammetterlo, restando impigliata, via Rifondazione, nell'orbita del PTPC. Si illude di contrastare il populismo con l'anatema, opponendo un sindacalismo sociale vagamente classista declinato con un massimalismo politico privo di costrutto. In realtà questa sinistra è già populistizzata: il massimalismo non è infatti altro che un populismo declinato a sinistra. Essa tende sì a rappresentare istanze sociali anticapitaliste ma non va oltre a slogan astratti e generici, avanzando l'idea velleitaria di una "umanizzazione della globalizzazione" ("un altro mondo è possibile"), rifiutando di porre sul tappeto la fuoriuscita dal capitalismo. E' un massimalismo che ha reciso i suoi ponti col marxismo, "politicamente corretto", imbelle e senza prospettive. Questa sinistra non vuole accettare che il fenomeno della mondializzazione imperialista, avendo causato devastanti sconquassi sociali planetari non meno violenti della rivoluzione industriale, ha travolto le sovrastrutture e le rappresentazioni ideologiche, tra cui le categorie di scaturigine ottocentesca di "progressista e conservatore", "riformatore e reazionario", "innovatore e passatista".

Un'altra possibilità

Se adottassimo la tradizionale categorizzazione per cui progressista è accogliere la modernità, lo sviluppo della tecnica e della scienza, il primato categorico dello sviluppo delle forze produttive; progressisti e di sinistra sarebbero proprio gli artefici e i partigiani americanisti della globalizzazione imperialista. Non a caso i cantori di quest'ultima condannano addirittura il movimento no global come "conservatore" e spesso "reazionario". Di converso, ove assumessimo altri paradigmi e pietre angolari - una concezione antieconomicistica e anticonsumistica della qualità della vita umano-sociale, il creativo lavoro umano come principale forza produttiva, la salvaguardia della natura e delle biodiversità, la difesa di culture, costumi e tradizioni in cui si incardina un'intera civilizzazione, la difesa delle prerogative degli stati nazionali - saremmo effettivamente dei "conservatori"; in quanto bisogna "mettere al riparo" le basi della civilizzazione, ciò che resta di naturale e di umano, dallo schiacciasassi dello sviluppo imperialistico, in quanto effettivamente "salvaguardare" significa anche "conservare". Senza questa preservazione nessun futuro storico di liberazione sarebbe possibile. Non stiamo dicendo che queste categorie sono prive di ogni contenuto di senso: stiamo dicendo che esse vanno riprecisate e riformulate se davvero vogliamo cambiare questo mondo. Così come occorre respingere l'ideologia "progressista" che considera la scienza e la tecnologia come fossero fenomeni neutrali. Scienza e tecnica sono invece fattori sociali, che il sistema forgia e utilizza per perpetuare determinate relazioni classiste di oppressione. Non è quindi il concetto di modernità in sé che respingiamo, ma la modernità realmente esistente, quella che porta le stimmate della globalizzazione imperialista. Lo sviluppo scientifico può essere un fattore distruttivo se non lo si strappa dalle mani dell'oligarchia imperialista per porlo sotto il controllo sociale. Non si contrasta il populismo che cova tra le masse demonizzandolo, confondendo le istanze legittime con quelle inaccettabili, la spinta sociale con la sua eventuale rappresentazione politica. Il fatto è che il populismo in fieri si va nutrendo non dentro gli angusti e improbabili confini del neofascismo, ma dentro il nostro universo, quello antiamericanista e antiliberista. Lo stesso nazionalismo di ritorno di cui il populismo si farà senz'altro interprete non può essere liquidato come "reazionario". A certe condizioni è invece un fattore positivo, in quanto la richiesta di un maggiore interventismo nazionale e pubblico, non solo traduce la legittima richiesta di stato sociale (di tutela pubblica dalla globalizzazione liberista e dalle cieche leggi di mercato); esprime anche il rifiuto della supremazia americana e contesta la sovranità limitata a cui l'Italia e l'Europa soggiacciono con l'avallo delle classi e dei blocchi politici bipolari dominanti. Possiamo e dobbiamo accogliere, anche nel nostro paese, l'istanza di una piena indipendenza nazionale, declinandola in maniera antimperialista, coniugandola anzi con una politica estera di solidarietà coi popoli del sud del mondo, a partire da quelli del Mediterraneo e del Medio Oriente. In questa cornice noi non accettiamo l'Unione Europea, non solo in quanto le sue fondamenta sono imperialistiche (NATO) e liberiste (Maastricht), ma anche in quanto questa Unione è stata intrinsecamente concepita come alleata subordinata e cobelligerante degli Stati Uniti - un segmento sull'asse Washington-Tel Aviv. L'unità europea che vogliamo passa per il rovesciamento degli attuali regimi e la rottura dei legami di sudditanza con gli USA. Il nostro è dunque un grido di allarme: se non sarà un soggetto anticapitalista a rappresentare queste legittime istanze, declinandole in modo universalistico sarà senz'altro il populismo a farlo, con il rischio che esso, come accadde già col fascismo, diventi la clava con cui il capitale prima colpirà i suoi avversari, poi rinsalderà il suo dominio statuale. Non si tratta dunque di allearsi al populismo, ma di contrastarlo, di fermarlo occupando il suo spazio sociale. Per questo occorre un nuovo soggetto politico, una forza popolare di liberazione, saldamente ancorata ai principi anticapitalisti e socialisti di uguaglianza, fratellanza e libertà.

Undici obiezioni

Sul piano teorico e politico undici sono le obiezioni principali che sono state mosse contro l'antiamericanismo. Risponderemo mostrando che quella che appare come mera negazione contiene in verità una molteplicità di dirimenti affermazioni; che i nostri motivi e le nostre idee principali non trovano corrispondenza né nei partiti tradizionali, né nei movimenti che si agitano fuori dal perimetro sistemico; che essi sono sufficienti a costituire un nuovo movimento politico e culturale.

La prima. Gli USA, nonostante gli errori eventuali dei suoi governi, sono un paese democratico, il punto più alto del progresso del genere umano. Questa è l'obiezione dei liberali di ogni parrocchia. Gli USA sono invece un paese oligarchico, ideocratico, fondato sull'esclusione sociale e politica della maggioranza della popolazione. Attraverso un sistema elettorale blindato e censitario, per mezzo di due partiti del tutto speculari e un Presidente con poteri di tipo assolutistico, una ristretta oligarchia di milionari detiene tutto il potere. Ciò che gli Stati Uniti esportano con i mezzi più sanguinari (da Hiroshima all'Iraq) non è dunque la democrazia, ma un sistema liberticida e neocolonialista in cui tutti i popoli sono costretti alla sottomissione. Riguardo alla "civiltà", gli USA si pongono agli antipodi della tradizione umanistica europea. I principi universali di uguaglianza, fratellanza e libertà sono rimpiazzati dal darwinismo sociale, dall'egoismo individualista, dal primato incondizionato della ricchezza materiale. L'americanismo non è solo una variante liberista del liberalismo, è "pensiero forte", pervasivo e fondamentalista, una concezione del mondo, la pretesa di imporre un "progresso" che più avanza più pregiudica il futuro della natura e dell'umanità. E' l'ideologia con cui si legittima la pretesa nordamericana di sottomettere il mondo al loro impero unico.

La seconda. L'antiamericanismo, avendo una matrice storica fascista, implica accettare un'antisemita alleanza rosso-nera. E' l'obiezione che ci viene mossa dai sionisti e da certi loro sinistri sodali "antifascisti". I sionisti pensano sia loro tutto concesso a causa delle persecuzioni subite. Noi riteniamo che Israele, che è la principale base militare americana, applichi verso i palestinesi lo stesso trattamento che il nazismo riservò alle minoranze ebraiche in Europa. L'antiamericanismo non ha affatto scaturigini fasciste. E' vero il contrario. Non è un mistero che gli USA erano per Hitler un modello poiché vedeva in esso l'applicazione più conseguente di una sistema fondato sulla supremazia ariana e la segregazione razziale. Come è nota l'ammirazione che il fascismo italiano ha nutrito verso gli USA, almeno fino alla seconda guerra mondiale - né si può negare che l'americanismo, almeno fino alla crisi del '29, esercitò il suo fascino pure sul movimento comunista. Successivamente, fino al crollo dell'URSS, i fascisti, in nome dell'anticomunismo, sono stati i cani da guardia degli interessi strategici americani, mentre l'antiamericanismo è stato la bandiera dei movimenti antimperialisti di liberazione e della migliore sinistra occidentale. E' vero che oggi alcune sette fasciste si considerano antiamericaniste, anticapitaliste o socialiste. Una ragione in più per non lasciar loro il patrocinio su tradizioni e valori che col fascismo hanno mostrato di essere inconciliabili.

La terza. E' sbagliato declinare l'antiamericanismo coi valori di uguaglianza, fratellanza e libertà. Questa è una maniera per connotarla a sinistra, mentre l'antiamericanismo implica il definitivo superamento delle divisioni tra sinistra e destra. Questa è l'obiezione ci viene rivolta da alcuni intellettuali moderati "differenzialisti". Non nutriamo verso gli Stati Uniti un'aprioristica ostilità. Il nostro antiamericanismo in quanto negazione dei dogmi su cui si fonda l'egemonia statunitense (il darwinismo sociale, l'egoismo individualistico, il primato incondizionato della ricchezza materiale, il capitalismo come sistema sociale eterno, il diritto dell'Occidente imperialista ad esercitare la propria supremazia mondiale, gli Stati Uniti come Stato guida del sistema, Israele come suo avamposto inviolabile) è dunque affermativo dei valori più alti della tradizione umanistica e universalistica europea che la storia ha fissato nei principi di uguaglianza, fratellanza e libertà. Le destre di ogni tipo, non hanno solo calpestato questi principi, li negano a priori. E' certo che i "socialismi reali" non sono riusciti a coniugare eguaglianza e libertà, mentre è un fatto inoppugnabile che quei principi universalistici sono stati per duecento anni il vero e proprio DNA di ogni movimento anticapitalista. Se per sinistra si vuole significare chi si senta erede del "socialismo reale" o addirittura imparentato coi Prodi e i D'Alema, noi non lo siamo affatto. Se invece si intende la difesa di quei tre principi universali, e la subordinazione dell'economia alla politica e all'etica, allora ci si dica pure che siamo di sinistra.

La quarta. L'antiamericanismo è un'assurdità, poiché gli Stati Uniti hanno dato alla civiltà mondiale contributi preziosi e inestimabili nei campi culturale, artistico e scientifico. Questa è l'obiezione ci viene invece mossa dall'intellighenzia che si considera progressista o "politicamente corretta". E' vero, gli USA non sono solo lo sterminio dei nativi indiani, lo schiavismo, la segregazione razziale, Hiroshima, Bush e la Coca Cola. Siamo i primi a riconoscere il valore di certa cultura americana. Tuttavia questo aspetto non è solo secondario, esso è utilizzato come rivestimento ideologico per legittimare l'americanismo, la supremazia imperialistica e imperiale a stelle e strisce, e chi non lo riconosca rischia di essere arruolato come truppa ausiliaria nell'esercito dello Zio Sam. Del resto, padroni quasi assoluti dell'industria culturale mondiale, gli americani ci propinano non il meglio ma il peggio della loro cultura. I fatti ineludibili sono che il mondo è sommerso dalla spazzatura "culturale" americana, che a causa dei mezzi inusitati con cui è propagata provoca un vorace processo di assimilazione di ogni sapere, di ogni conoscenza, di ogni creatività artistica, di ogni pensiero che non siano compatibili con l'universo a stelle e strisce. L'americanismo sta uccidendo la civilizzazione mondiale e dunque la stessa cultura indipendente americana. Per questo va fermato, prima che sia troppo tardi.

La quinta. L'Amministrazione Bush è solo un effimero colpo di coda, mentre la tendenza all'Impero di cui gli USA sono artefici è, nonostante tutto, progressiva, perché conduce al superamento degli Stati-nazione e così avvicina e unifica i popoli. Questa è l'obiezione di alcuni futurologi, tra cui Toni Negri. I "Neocons" esprimono, pur nella forma sfrontata e fondamentalista del "secolo americano" e della "missione speciale", una tendenza costitutiva alla tirannide imperiale, determinata a fagocitare ogni altra civiltà e annientare ogni resistenza. Questa tendenza, fattasi incalzante soprattutto dopo il crollo dell'URSS, è condivisa anche dai notabili del Partito democratico, che non sono meno decisi dei repubblicani a consolidare la supremazia statunitense. Interpretare questa spinta al dominio imperiale mondiale come se essa fosse, suo malgrado, progressista, è una pura e semplice follia. L'espansionismo USA conduce ad un'epoca di guerre catastrofiche che causerà nuove resistenze, nuove fratture, nuovi nazionalismi e il paventato "scontro di civiltà". Quello americano non è un imperialismo internazionalistico, ma ultranazionalista e razzista.

La sesta. E' sbagliato considerare il popolo degli Stati Uniti un avversario, mentre il nemico è solo il governo di quel paese. Questa è la critica che ci viene mossa da alcuni ambienti del movimento no global. Il nostro bersaglio è in effetti il governo americano, non certo tutti gli abitanti che vivono negli Stati Uniti. Il fatto è che gli USA, oltre ad essere una nazione costruita sul genocidio dei nativi e la schiavizzazione dei neri, sono un paese multinazionale dove la supremazia spetta ad un popolo soltanto (quello Wasp, i bianchi di origine anglosassone e di religione protestante), che costituisce la vera base sociale dell'imperialismo americano. La metà degli abitanti è di fatto composta di "esclusi", di nuovi schiavi che non esercitano nemmeno i diritti civili. Riferirsi ad un indistinto "popolo americano" non è solo falso, è politicamente sbagliato, poiché conduce a porre un segno di uguaglianza tra oppressi e oppressori.

La settima. L'America è un continente composto di tanti paesi, non solo dagli USA. Semmai ci si dovrebbe proclamare "antistatunitensi". Questa è l'obiezione di certi nostri fratelli latinoamericani. Non dimentichiamo affatto la lunga tradizione di lotte anticolonialiste e antimperialiste dei popoli latinoamericani, da Bolivar a Che Guevara, passando per Villa e Zapata. Essi hanno combattuto per la liberazione dei popoli oppressi in nome di un'America libera dal tallone dei gringos-yankees. Tuttavia noi viviamo in Europa, dove gli USA sono l'America, dove il concetto di "americanismo", oltre ad essere sinonimo di imperialismo americano, è diventato senso comune. Del pari, quando qui si parla di "antiamericanismo", nessuno fraintende: si sta parlando dell'opposizione al modello sociale statunitense, della resistenza alla sua tirannia.

L'ottava. L'aggressività americana esprime in realtà il loro profondo e inarrestabile declino mentre la prima potenza mondiale, in prospettiva, è l'Unione Europea. Questa è l'obiezione tipica degli economicisti, sia di sinistra che liberali. Questi critici commettono l'errore di misurare la potenza solo con criteri quantitativi, ed esagerano deliberatamente i punti deboli del capitalismo americano. Gli USA detengono una posizione di assoluta supremazia in quattro settori cruciali (finanziario, militare, scientifico, delle comunicazioni di massa), mentre continuano ad essere la prima potenza nella produzione industriale e agricola. Quello imperialista è certo un sistema conflittuale, segnato dalla competizione tra le diverse potenze, ma non c'è alcun automatismo che conduca dalla competizione economica e geopolitica al contrasto bellico. E' certo vero che il capitalismo europeo centrale (quello renano), tenti di superare la sua posizione di sudditanza e di impotenza; il fatto è che l'attuale asse carolingio punta ad un riequilibrio dei rapporti di forza, ad un regime imperialistico di condominio, e non invece ad uno strutturale capovolgimento di fronte. Questa ambizione si scontra del resto con la strategia imperiale americana che tende a consolidare la propria primazia e considera l'Europa come una provincia. Che questi rapporti di forza imperialistici possano un giorno subire un violento capovolgimento è teoricamente possibile, ma ciò implica, proprio in Europa, un rovesciamento dei gruppi oggi al potere che sono costitutivamente filoamericani. Se gli USA sono oggi la potenza dominante da combattere in prima istanza, non stiamo certo proponendo di fare la guerra per il Re di Prussia, perorando la supremazia dell'imperialismo europeo al posto di quello americano.

La nona. Quello americano è solo un imperialismo tra gli altri, che vanno combattuti tutti assieme. Occorre essere antimperialisti punto e basta. Questa è l'obiezione che ci rivolgono certi ambienti di ultrasinistra. Il sistema imperialistico è una formazione mondiale piramidale, rigidamente strutturata per linee verticali e convergenti, una mimesi del capitalismo di cui è espressione. L'imperialismo americano è sotto ogni punto di vista il principale pilastro economico e politico di questo sistema, dalla cui stabilità dipendono tutti gli altri, che sono con esso in completa simbiosi. Gli USA, possedendo basi militari e distaccamenti nella grande maggioranza delle nazioni, attraverso una fitta rete di alleanze esercitano un'indiscussa supremazia militare, e sono di fatto il principale guardiano dell'ordine mondiale. Solo dei ciechi possono ad esempio affermare che la Svizzera, che certo è un paese imperialistico, è un nemico per gli iracheni al pari degli Stati Uniti, o che per i palestinesi Israele è un antagonista al pari dell'Europa. Una sconfitta delle ambizioni imperiali americane sarebbe un colpo letale per tutto il sistema imperialistico.

La decima. La sola contraddizione che va presa in considerazione è quella tra proletari e borghesia. Occorre combattere il capitalismo in quanto tale e in ogni sua forma. Questa è l'obiezione che nella sua forma chimicamente pura ci viene rivolta dagli anarchici. Noi non neghiamo che vi sia una contraddizione tra le principali classi sociali, ma che essa sia quella principale dipende da una serie di fattori sociali e storici. Anche la contraddizione primaria è determinata, condizionata. Spesso poi una contraddizione secondaria diventa principale e viceversa. Oggi il conflitto fondamentale, ovvero quello che spiega e trascina tutti gli altri, non si manifesta nei paesi capitalisti più forti, nella fattispecie tra lavoro salariato e capitale: si manifesta su scala mondiale e oppone l'imperialismo, quello USA in primis, alla grande maggioranza dei popoli, che sono oppressi e la cui resistenza è il fattore più importante del cambiamento. Il proletariato occidentale non è oggi l'avanguardia della lotta contro l'imperialismo, chiunque si ostini a non vedere questo fatto ha la testa fra le nuvole. La tesi per cui occorre combattere il capitalismo in ogni sua forma e ad ogni latitudine, apparentemente rivoluzionaria, è infine una foglia di fico "massimalista" per camuffare una posizione di equidistanza tra i movimenti di liberazione dei popoli oppressi (a cui viene rimproverato di essere interclassisti) e l'imperialismo.

L'undicesima. Un nuovo movimento politico va costituito, ma esso abbisogna di basi teoriche e programmatiche più solide che non i principi di eguaglianza, fratellanza e libertà, che sono generici, deboli, quindi insufficienti. Questa critica ci viene rivolta dai comunisti più intransigenti. Essi ritengono che la ripresa dei capisaldi della rivoluzione francese implichi la rinunzia a quelli "classisti" delle rivoluzioni socialiste. In verità, se le rivoluzioni socialiste sono potute accadere è solo perché esse hanno non negato ma assunto i principi di eguaglianza, fratellanza e libertà. Le classi oppresse possono infatti guidare un processo di liberazione solo a condizione che la loro lotta superi i limiti angusti dei propri interessi di classe e venga percepita come lotta universale, che porta con sé la liberazione generale di tutte le forze produttive sociali, della grande maggioranza della popolazione. Non stiamo per questo affermando che questi tre principi siano autosufficienti. Nient'affatto. Sono per noi solo dei presupposti sulla base dei quali il movimento che proponiamo deve articolare una vera e propria piattaforma politica. L'elaborazione di questa piattaforma è appunto compito di coloro che prenderanno parte al processo costituente, ai quali non si chiede alcuna abiura, né di rinunciare alla loro eventuale appartenenza a gruppi organizzati. Il movimento di cui parliamo vuole infatti avere la forma di fronte politico e culturale, non rimpiazzare i raggruppamenti esistenti ideologicamente strutturati. Vuole anzi essere il luogo in cui differenti concezioni e convincimenti, sulla base di regole e vincoli mutualmente condivisi, si confronteranno. Se il nuovo movimento non potrà che venire rafforzato da questa dialettica costituente, gli stessi raggruppamenti partitici, in quanto il razionale dialogo è il solo terreno su cui può affermarsi una nuova concezione del mondo, non potranno che trarne un guadagno. *****

La gravità del momento, l'urgenza di rappresentare una resistenza che altrimenti potrebbe alimentare una svolta populista, la certezza delle nostre idee, ci spingono a procedere innanzi, ad avviare il processo costituente che vorremmo concludere entro la fine del 2004 con un atto pubblico che dia ufficialmente vita ad una nuova forza popolare e di liberazione. Invitiamo tutti coloro che condividono questo documento, a sottoscriverlo, prendendo dunque parte e promuovendo questo processo costituente. Accanto a questo documento affianchiamo la "Carta di navigazione" già in circolazione, che costituisce la bozza di piattaforma del movimento medesimo.

Moreno Pasquinelli, Costanzo Preve, Leonardo Mazzei

Fronte patriottico - Partito Oltranzista

 

 
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