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UN
SOLO STENDARDO ROSSO
Claudio
Mutti
«La race des Aryens
retrouve son union - Et reconnait son dieu à l'encolure fort»: così
il poeta di Runes annuncia la prossima unificazione dell'Europa intorno
all'Asse; ed evoca l'immagine del vessillo crociuncinato sventolante nel
cuore del continente, non più bandiera del Reich tedesco, ma
dell'Impero europeo: «Trecento milioni di uomini cantano in un solo
campo. Un solo stendardo rosso sta sulla cima delle Alpi». Addirittura,
nel marzo '42 enuncia chiaramente l'idea eurasiatista di un grande
blocco composto fra l'Oceano e Vladivostok ("Idées", ripubbl.
in "Chronique politique", parte V, "Les années passent").
«Un solo stendardo rosso»: ma, a mano a mano che si allontana la
prospettiva della vittoria della Germania, non è più quello con la
svastica a rappresentare le speranze di Drieu, bensì quello con la
falce e il martello. Il 27 dicembre '42, mentre a Stalingrado infuria la
battaglia che per l'Asse segnerà l'inizio della sconfitta, lo scrittore
annota nel suo Diario: «Morirò con gioia selvaggia all'idea che Stalin
sarà il padrone del mondo. Finalmente un padrone. È bene che gli
uomini abbiano un padrone il quale faccia loro sentire l'onnipresenza
feroce di Dio, l'inesorabile voce della legge».
Nella sua peraltro pregevole e approfondita Introduzione al Diario
'39-'45 di Drieu, Julien Hervier tenta di spiegarsi «l'origine di
questa adorazione per un potere paterno, politico e divino» (p. 45)
ricorrendo ai bolsi luoghi comuni del «rapporto col padre». La stessa
«spiegazione», ovviamente, dovrebbe valere per l'auspicio che troviamo
formulato in data 24 gennaio '43: «Ah, che muoiano pure tutti questi
borghesi, se lo meritano. Stalin li sgozzerà tutti e dopo di loro
sgozzerà gli ebrei... forse. Eliminati i fascisti, i democratici
resteranno soli di fronte ai comunisti: pregusto l'idea di questo tête-à-tête.
Esulterò nella tomba».
Ma, oltre all'interpretazione psicanalitica, Hervier ne abbozza anche
un'altra, secondo la quale il giudizio di Drieu «non fa che seguire
l'andamento degli eventi» (p. 45), nel senso che le simpatie di Drieu
per l'Unione Sovietica sarebbero dovute al fatto che «i russi siano più
forti dei tedeschi, Stalin più forte che Hitler» (p. 46). Ne risulta
il profilo inedito e peregrino di un Drieu La Rochelle opportunista, «vittima
di una forma di opportunismo intellettuale che lo spinge a schierarsi
ogni volta dalla parte del più forte»! (p. 47) A questa diagnosi
psicologica Hervier ne affianca una di carattere ideologico, accusando
politicamente Drieu di non avere le idee abbastanza chiare circa le
dottrine fascista e comunista: «A seconda dei successi e delle
sconfitte russe e tedesche, Drieu cadrà in una perenne oscillazione fra
le due ideologie rivali del fascismo e del comunismo, mostrando quanto
siano fragili le basi delle sue convinzioni» (p. 46).
Queste valutazioni infelici vengono però poi superate e in un certo
senso contraddette dallo stesso Hervier, il quale si mostra finalmente
capace di cogliere il senso più autentico della «conversione» di
Drieu: «Il passaggio di Drieu dal fascismo al comunismo insomma è più
geopolitico che ideologico, anzi è persino razzista, perché nei russi
egli vede un popolo giovane che surclassa i tedeschi. L'unica costante
del suo pensiero politico è l'idea di Europa: l'attuazione sarà
compito, se non dei tedeschi dei russi» (p. 47; corsivo nostro).
Insomma, verso la fine della guerra e della propria vita Drieu vede
nell'Armata Rossa l'unico strumento storico in grado di sostituire gli
eserciti dell'Asse nella costruzione dell'unità continentale.
Più avanti Hervier riesce a individuare l'altra costante del pensiero
di Drieu: «La sola cosa stabile che sopravvive, a parte l'idea di
Europa, è semmai una repulsione, un rifiuto: l'orrore viscerale per la
democrazia» (p. 48, cor. nostro). A riprova di ciò, viene citata la
parte finale di questo brano del 29 marzo '44: «In ogni caso saluto con
gioia l'avvento della Russia e del comunismo. Sarà atroce, atrocemente
devastante, insopportabile per la nostra generazione che perirà tutta
di morte lenta o improvvisa, ma è meglio questo che il ritorno del
vecchiume, del ciarpame anglosassone, della ripresa borghese, della
democrazia rabberciata». Un passo analogo reca la data del 2 settembre
'43: «E del resto il mio odio per la democrazia mi fa desiderare il
trionfo del comunismo. In mancanza del fascismo [...] solo il comunismo
può mettere veramente l'Uomo con le spalle al muro costringendolo ad
ammettere di nuovo, come non avveniva più dal Medioevo, che ha dei
Padroni. Stalin, più che Hitler, è l'espressione della legge suprema».
Dopo la sconfitta del fascismo, l'autocrazia sovietica rimane l'unica
alternativa alla democrazia e all'individualismo, prodotti della décadence:
«Quello che mi piace nel trionfo del comunismo è non solo la scomparsa
di una borghesia detestabile e ottusa, ma anche l'inquadramento del
popolo e la rinascita dell'antico dispotismo sacro, dell'aristocrazia
assoluta, della teocrazia definitiva. Scompariranno così tutte le
assurdità del Rinascimento, della riforma, della rivoluzione americana
e francese. Si torna all'Asia; ne abbiamo bisogno» (25 aprile '43).
Quanto al marxismo, non bisogna lasciarsi ingannare: si tratta di una
malattia passeggera che non compromette la fondamentale sanità
dell'organismo russo. Incomparabilmente più grave è il male americano.
«Bisogna augurarsi -scrive Drieu il 3 marzo '43- la vittoria dei russi
piuttosto che quella degli americani. [...] i russi hanno una forma,
mentre gli americani non ne hanno. Sono una razza, un popolo; gli
americani sono una accolita di ibridi. Quando si ha una forma, si ha una
sostanza; ebbene, i russi hanno una forma. Il marxismo è una febbre di
crescenza in un corpo sano. Credevamo che quel corpo magnifico fosse
marcio, ma non è così».
Considerazioni di questo genere si fanno più frequenti nel corso del
'44. Il 10 giugno Drieu scrive: «Lo sguardo rivolto a Mosca. Nel crollo
del fascismo, i miei ultimi pensieri vanno al comunismo. Mi auguro il
suo trionfo, che non mi sembra sicuro nell'immediato, ma probabile a una
scadenza più o meno lunga. Auspico il trionfo dell'uomo totalitario sul
mondo». Il 28 giugno: «Niente ormai mi separa dal comunismo, niente me
ne ha separato mai tranne la mia atavica diffidenza di piccolo borghese».
Il 20 luglio: «Immagino una solidarietà in extremis fra dittatori:
Stalin che offre aiuto a Hitler e a Mussolini, rendendosi conto che, se
resta il solo della sua specie, è perduto. Ma sarebbe troppo bello.
Preferirà colonizzare direttamente la Germania». Il 26 luglio: «I
russi si avvicinano a Varsavia. Osanna! Urrà! È il mio grido di oggi».
Il 28 luglio: «Avrei un solo motivo per sopravvivere: lottare dalla
parte dei russi contro gli americani. [...] Allo stesso modo oggi potrei
votarmi al comunismo, tanto più che ormai ha assimilato tutto quello
che amavo nel fascismo: fierezza fisica, voce del sangue comune
all'interno di un gruppo, gerarchia vivente, nobile scambio tra deboli e
forti (in Russia i deboli sono oppressi, ma venerano il principio
dell'oppressione). È il mondo della monarchia e dell'aristocrazia nel
loro principio vitale». Il 7 agosto: «Monarchia, aristocrazia e
religione oggi sono a Mosca e in nessun altro luogo». Il 9 agosto: «Mosca
sarà la Roma finale». E così via, fino alle ultime pagine del Diario,
nelle quali Drieu ribadisce un concetto già esposto più volte (ad
esempio il 10 settembre '43: «L'esito logico del comunismo è la
teocrazia. [...] Stalin probabilmente accetterà il compromesso come
Clodoveo. La Chiesa diventerà per lui una altra leva contro gli
anglosassoni») ed esprime la fiducia che i russi possano «spiritualizzare
il materialismo» (20 febbraio '45).
È proprio il mito dell'Europa imperiale, nonché il complementare «orrore»
per la democrazia, a costituire l'asse intorno a cui ruota l'impegno
politico di Drieu, dal primo all'ultimo giorno della sua milizia. Ed è
questo il riferimento ideale che ci consente di valutare la sua estrema
coerenza allorché egli indica nella Russia sovietica il nuovo strumento
storico per proseguire la lotta contro la décadence occidentale.
Riletti in questa luce, i brani del "Diario" che hanno
sconcertato Hervier non mostrano dunque la fragilità del pensiero
politico di Drieu (e tanto meno un suo presunto opportunismo
intellettuale), ma una lucida e radicale linearità.
Quello di Drieu non è un fenomeno unico, e neanche raro. Motivazioni
analoghe alle sue si trovano nella adesione al comunismo di molti
militanti dei fascismi e dei «falsi fascismi» europei, i quali al
termine della guerra decisero di continuare a combattere da una diversa
postazione contro il nemico principale: l'Occidente capitalista. Sarebbe
estremamente interessante scoprire quale ruolo abbiano avuto gli uomini
provenienti dal campo degli sconfitti nelle scelte marxisticamente
eterodosse di alcuni partiti e governi comunisti dell'Est europeo, o
comunque riuscire a stabilire in quale misura l'eredità nazionalista,
fascista o nazionalsocialista sia stata trasmessa ai nuovi regimi. Se è
senza alcun dubbio falsa l'affermazione secondo cui i legionari rumeni
sarebbero stati «gli immediati predecessori dei comunisti» nel senso
che questi ultimi avrebbero realizzato le riforme sociali legionarie
(2); se risulta parimenti infondato sostenere che «è stata realizzata
in Ungheria ed in Romania la rivoluzione sociale per cui Szálasi e
Codreanu si erano battuti e che avevano preparato» (3), nondimeno certi
richiami diventano inevitabili, allorché si considerano le spiccate
peculiarità del «nazional-comunismo» rumeno (che tra l'altro
procedette ad una cauta riabilitazione di Antonescu), le tendenze
nazional-popolari presenti in seno al partito comunista ungherese (che
nel campo della cultura recuperò gli autori di orientamento «populista»,
compresi quelli che «avevano flirtato col nazismo» (4), la persistenza
di un certo stile «prussiano» nella Germania Orientale (dove venne
impedito il costituirsi di associazioni di «vittime del fascismo»).
Ma restiamo in Italia. Stati d'animo e intenzioni simili a quelli di
Drieu non mancarono di venire alla luce nel periodo della RSI, come
ulteriori e spesso più radicali manifestazioni del «fascismo di
sinistra». A tale proposito risulta esemplare questo brano della
rivista fiorentina "Italia e Civiltà": «Sappiano finalmente
Roosevelt e Churchill, e tutti i loro compari, che i fascisti più
consapevoli, i quali hanno sempre riconosciuto nel comunismo la sola
forza viva contraria alla propria, non tanto nella Russia quanto nella
plutocratica Inghilterra e nella plutocratica America hanno individuato
il vero nemico. Sempre essi hanno sentito di discordare, sì, dai
comunisti su molti punti, ma anche di concordare nel non volere più, né
gli uni né gli altri, la vecchia società liberale, borghese,
capitalistica. E sappiano anche, i Roosevelt, i Churchill e i loro
compari, che quando la vittoria non toccasse al Tripartito, i più dei
fascisti veri che scampassero al flagello passerebbero al comunismo, con
esso farebbero blocco. Sarebbe allora varcato il fosso che oggi separa
le due rivoluzioni. Avverrebbe fra esse uno scambio e un'influenza
reciproca, sino alla fatale armonica fusione». (5)
Il 22 aprile '45, Enzo Pezzato forniva indicazioni analoghe su
"Repubblica Fascista": «Il Duce ha chiamato la Repubblica
italiana sociale non per gioco; i nostri programmi sono decisamente
rivoluzionari; le nostre idee appartengono a quelle che in regime
democratico si chiamerebbero di sinistra; le nostre istituzioni sono
conseguenza diretta e puntuale dei programmi; il nostro ideale è lo
Stato del Lavoro. Su ciò non può esservi dubbio: noi siamo i proletari
in lotta, per la vita e per la morte, contro il capitalismo. Siamo i
rivoluzionari alla ricerca di un ordine nuovo. [...] Lo spauracchio
vero, il pericolo autentico, la minaccia contro cui lottiamo senza sosta
viene da destra». (6)
Dopo il 25 aprile, questi propositi prendono corpo in vario modo: «mentre
in più occasioni si organizzano incontri tra giovani missini e
comunisti -spesso interrotti da incursioni di ex-partigiani indignati-
in nome di un'improbabile convergenza anti-borghese sul tema della
questione sociale» (7), l'iniziativa più consistente è quella
rappresentata dal "Pensiero nazionale". Si tratta del
quindicinale fondato da Stanis Ruinas (1889-'74), un ex-socialista che
durante il ventennio era stato redattore de "l'Impero" e dal
'41 aveva diretto "Lager", periodico dei lavoratori italiani
in Germania. Enrico Landolfi, che ha ricostruito la storia del
"Pensiero Nazionale" (8), ne sintetizza in questi termini la
linea ideologica e politica: «continuazione, nelle nuove condizioni del
post-fascismo, della lotta anti-plutocratica contro il capitalismo
interno, rappresentato dalla DC e protetto dalle potenze occidentali
vincitrici della guerra, espressive del dominio dell'oro a livello
internazionale. Alleato naturale: il blocco delle sinistre pilotato dal
PCI e collegato con l'URSS, nel quale ["Il pensiero
nazionale"] si colloca con autonoma convergenza».
Sulla base di questi ed altri elementi, non appare certo infondata
l'ipotesi presa in seria considerazione da Domenico Leccisi. «È stato
scritto -ricorda questo autorevole testimone- che se il Partito
Comunista non si fosse dichiarato artefice dell'uccisione di Mussolini e
dello sterminio di migliaia di fascisti nelle giornate sanguinose
dell'aprile (ei mesi successivi) del '45, avrebbe sicuramente ottenuto
l'adesione in massa dei giovani reduci della RSI. Non sono in grado di
rispondere con certezza a tale ipotesi, benché la presenza nei ranghi e
ai vertici del PCI di alcuni nomi altisonanti di ex-appartenenti al
fascismo del ventennio renda l'ipotesi abbastanza plausibile» (9).
La massa degli ex-combattenti della RSI non aderì dunque al PCI; e
neanche al PSI, sebbene Mussolini avesse dichiarato di voler lasciare in
eredità «la Socializzazione e tutto il resto ai socialisti e non ai
borghesi» (10). Anzi, il partito fondato nel dopoguerra dai fascisti
repubblicani, quel MSI che bene o male dichiarava di avere nella RSI il
proprio punto di riferimento storico e di rivendicarne in qualche modo
l'eredità, ben presto si schierò decisamente a destra (11), stipulò
alleanze elettorali coi monarchici e appoggiò vari governi
democristiani. Nonostante l'iniziale «diniego contingente» (12) al
Patto Atlantico, il MSI diventò ben presto, in nome dell'anticomunismo,
la mosca cocchiera del «partito americano» in Italia. Gareggiò in
fanatismo filo-sionista con le sinagoghe saragatiane e lamalfiane quando
si trattò di appoggiare le aggressioni israeliane contro i popoli
mediterranei; osannò tutte le «battaglie della civiltà occidentale»,
dall'aggressione americana contro il Vietnam fino all'«operazione di
polizia» contro l'Iraq; finalmente si trasformò in Alleanza Nazionale
e mandò il suo segretario ad un ricevimento del B'nai B'rith negli
Stati Uniti.
Se Atene piange, Sparta non ride. La triste storia della sinistra
italiana, ridotta ormai ad essere un ammortizzatore sociale al servizio
dell'usurocrazia e del grande capitale, si spiega anche con il fatto che
nell'immediato dopoguerra la feticistica «religione dell'antifascismo»
impedì alla sinistra di attrarre a sé coloro che avevano combattuto
per i princìpi solidaristici e di giustizia sociale rappresentati nel
Manifesto di Verona. Un apporto di forze neo-fasciste avrebbe potuto
dare alla sinistra italiana quel carattere patriottico che essa invece
non ha quasi mai avuto, tant'è vero che alla fine si è dichiarata
apertamente favorevole alla NATO e agli altri organismi imperialistici;
avrebbe rafforzato in essa la componente popolare, impedendole di
trasformarsi nella truppa della borghesia azionista e liberal; la
avrebbe impegnata sul fronte delle conquiste sociali, non certo nelle «battaglie
di civiltà» per l'aborto o per i diritti dei degenerati sessuali.
Nell'Italia del dopoguerra, l'antifascismo e l'anticomunismo coltivati
ad arte hanno reso impossibile quella sintesi tra l'elemento nazionale e
l'elemento sociale che Drieu La Rochelle aveva vista delinearsi in Place
de la Concorde il 6 e il 9 febbraio '34, quando Jeunesses Patriotes e
militanti comunisti, ex-combattenti e disoccupati, avevano manifestato
uniti contro la Camera dei deputati, emblema della corruzione
democratica, e contro il governo radicale dell'epoca. «Ho visto io su
questa piazza i comunisti accostare i nazionali; guardarli, osservarli
turbati e invidiosi. C'è mancato poco che si incontrassero, in un
miscuglio stridente, tutti gli ardori di Francia» (13) - dice Gilles
nell'omonimo romanzo. Il personaggio di Drieu «pensava che fascismo e
comunismo andassero nella stessa direzione, una direzione che gli
piaceva». (14)
L'union sacrée auspicata da Drieu è diventata realtà in Russia, dove
i fascisti di Barkashov e i comunisti di Anpilov hanno contrastato
insieme, armi alla mano, i disegni dittatoriali del governo proconsolare
di Eltsin. Il tentativo mondialista di assoggettare il grande spazio
ex-sovietico ha provocato, come è noto, la nascita di una opposizione
«rosso-bruna», la quale esprime la rivendicazione popolare di tutto ciò
che la colonizzazione liberal-democratica sta mettendo a repentaglio:
onore, dignità, identità spirituale, cultura tradizionale, spirito
comunitario, indipendenza politica. «Tutti coloro che hanno costituito
questo blocco -ci disse testualmente Gennadij Zjuganov, il 17 giugno
'92- hanno capito che solo le idee di Stato e di giustizia sociale
possono salvare il nostro Paese. Per un popolo, la nazionalità
costituisce una coordinata verticale, mentre la giustizia sociale è la
coordinata orizzontale. Queste due componenti sono inseparabili».
Parole chiarissime, ma l'osservatore occidentale non riesce a
comprendere come mai le bandiere zariste e quelle sovietiche possano
sventolare, le une accanto alle altre, nelle manifestazioni «rosso-brune».
Drieu la Rochelle, invece, lo aveva capito sessant'anni fa. «Durante la
guerra -fa dire al protagonista dell'Agent double- sono stato soldato.
Sono stato felice: servivo. Chi? Lo Zar? Forse. La Santa Ortodossia?
Anche. La Russia? Certo. Ma voi mi direte oggi, come mi diceste dieci
anni fa: "La Russia non significa niente. Un paese non è nulla, è
una gleba indistinta. La Russia è lo Zar o il Comunismo". Ma no,
vi rispondo io con tutta l'esperienza della mia vita. Sì, con
l'esperienza della mia vita e della vostra: "La Russia è lo Zar e
il Comunismo, e dell'altro ancora"». (15)
E poco più avanti scrive una frase che ha il sapore della premonizione
e che in Russia si è effettivamente realizzata: «Il XX secolo non
finirà senza assistere a strane riconciliazioni». (16)
Non c'è quindi da stupirsi se oggi Drieu è di casa a Mosca. Un
giornalista italiano che nell'estate del '93 si era recato alla
Redazione del quotidiano "Sovetskaja Rossija" notò
nell'ufficio del caporedattore, affisso ad una parete, un manifesto con
questa frase: «Immaginate che cosa significherebbe un domani, per la
grandezza europea, la ripresa della collaborazione secolare tra l'élite
europea e le masse russe per lo sfruttamento delle più grandi risorse
del mondo». Firmato: Pierre Drieu La Rochelle (17).
Note:
1) P. Drieu La Rochelle, Diario 1939-1945, con una Introduzione di J.
Hervier, Bologna '95.
2) S. Fischer-Galati, Fascism in Rumania, in Native Fascism in the
Successor State 1918-1971, a cura di P. F. Sugar, Santa Barbara '71, p.
120.
3) M. Ambri, I falsi fascismi, Roma '80, p. 285.
4) F. Fejtö, Ungheria 1945-1957, Torino '57, p. 30. Come spiega altrove
il medesimo autore, «il populismo ungherese si identifica con il
retaggio spirituale del movimento dallo stesso nome che svolse un ruolo
importante fra gli intellettuali di prima della guerra e i cui maestri
furono gli scrittori Dezsö Szabö, Lászlò Németh e Gyula Illyés. Ciò
che avevano in comune i populisti -d'altronde gruppo piuttosto
eterogeneo- era la ricerca di una terza via fra la democrazia borghese
occidentale e il collettivismo, fra il fascismo e il comunismo, di una
via autenticamente popolare, nata dalla terra, dal mondo contadino,
unico custode della purezza nazionale di fronte alla civiltà urbana,
cosmopolita, razzialmente inquinata, con la sua borghesia mercantile ed
ebraicizzata, la sua classe operaia attirata da ideologie straniere.
[...] Giunti al potere dopo il 1945, i comunisti hanno risparmiato gli
intellettuali populisti di cui solo pochi si opponevano al governo [...]
È però sicuro che i populisti hanno saputo farsi pagare il proprio
aiuto offrendosi come partner critici e realisti, o meglio come virtuali
oppositori. In un certo modo, hanno anche contaminato alcuni dirigenti
comunisti, come Imre Pozsgay». (F. Fejtö, La fine delle democrazie
popolari, Milano '94, p. 404).
5) Italia e Civiltà, antologia a cura di Barna Occhini, Roma '71, pp.
317-318.
6) U. Alfassio Grimaldi, La stampa di Salò, Milano '79, p. 80.
7) M. Tarchi, Cinquant'anni di nostalgia. La destra italiana dopo il
fascismo, Milano '95, p. 50.
8) "Ragionamenti di storia", n° 21, novembre '92 e n° 22,
dicembre '92.
9) D. Leccisi, Con Mussolini prima e dopo Piazzale Loreto, Roma '91, pp.
222-223.
10) C. Silvestri, Mussolini, Graziani e l'antifascismo, Milano '49, p.
140.
11) La svolta a destra venne sancita al II° Congresso nazionale (28
giugno - 1 luglio 1949). «Il MSI non si pose come primario imperativo
la conquista dei ceti popolari e piccolo borghesi [...] bensì il
recupero dei moderati di Destra [...] Noi, avremmo voluto che De
Marsanich scendesse in piazza, per nazionalizzare i lavoratori rossi e
riportarli alla Nazione: viceversa, esterefatti, lo vedemmo entrare
in... salotto (per incontrare le Dame di San Vincenzo, i commenda ed i
colonnelli in pensione). [...] Il MSI nazionale e sociale del 1946/1947
-già prudentemente riequilibratosi nel futuribile possibilismo
filo-atlantico- sviluppava ulteriormente la sua kafkiana metamorfosi e
risolveva il basilare problema delle alleanze non già mantenendo fede a
sé stesso ed alle origini storiche, ma addirittura sollecitando
masochisticamente la cooperazione, (meglio: la copertura) di quei ceti
alto-borghesi e di quei gruppi monarchici che avevano innescato le
polveri della congiura del '42-'43, ed aprendo -sia pur tortuosamente-
ai plutocrati Americani» (Ugo Cesarini, Dai Fasci di Azione
Rivoluzionaria al doppio petto, Perugia '91, pp. 26-27
12) U. Cesarini, op. cit. p. 27.
13) P. Drieu La Rochelle, Gilles, Milano '61, p. 557.
14) P. Drieu La Rochelle, Gilles, Milano '61, p. 539.
15) P. Drieu La Rochelle, Doppio gioco in "Risguardo", Padova,
III, '82-'83, p. 24.
16) Ibidem.
17) G. Savoini, Russia svenduta in "L'Italia Settimanale", 8
settembre '93, pp. 26-27
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